venerdì 9 novembre 2018

La questione nucleare tedesca

Sulle riviste specializzate tedesche si torna a parlare della necessità di trasformare la Germania in una potenza nucleare. Consapevoli tuttavia delle difficoltà che una simile scelta comporterebbe, i tedeschi ipotizzano di condividere il potenziale nucleare francese facendolo passare come un progetto di difesa europeo. Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy


Il Trattato per la proibizione delle armi nucleari

La "classe politica della Repubblica federale tedesca" deve "tornare a prendere la parola in merito alle questioni nucleari". E' quanto chiede Michael Rühle, un dirigente NATO di lungo corso, nell'ultimo numero della rivista "Internationale Politik" pubblicato dalla Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP). Rühle, attualmente a capo della sicurezza energetica nel Dipartimento NATO che si occupa delle nuove sfide alla sicurezza, fa riferimento al fatto che il nuovo Trattato per la proibizione delle armi nucleari espone anche la Germania ad un certo livello di pressione. Il trattato è stato elaborato nell'ambito delle Nazioni Unite e vieta di sviluppare, fabbricare, provare, possedere, immagazzinare, trasferire o utilizzare ogni arma atomica. Viene espressamente vietata anche ogni minaccia di un loro possibile uso. Il 20 settembre 2017, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha presentato il trattato per sottoporlo alla firma dei membri. Finora 69 stati l'hanno firmato, 19 lo hanno già ratificato. Entrerà in vigore 90 giorni dopo il deposito del cinquantesimo attestato di ratifica. Per ora tra i firmatari ci sono solo quattro paesi europei (Austria, Irlanda, Liechtenstein, Vaticano). Non un solo membro della NATO sostiene l'accordo. [2]

L'alleanza nucleare

Rühle rifiuta categoricamente l'idea che il governo tedesco possa firmare il trattato per la proibizione delle armi nucleari. Berlino, constata il dirigente di unità NATO, non solo condivide "la maggiore enfasi sull'importanza del deterrente nucleare presente nei documenti pertinenti della NATO", ma "non intende in alcun modo sconvolgere il ruolo della Germania nella cosiddetta compartecipazione nucleare" all'interno dell'alleanza militare. La NATO, a sua volta, "secondo il parere di tutti gli alleati, dovrà rimanere un'alleanza nucleare fino a quando esisteranno le armi nucleari". C'è probabilmente da aspettarsi che il trattato per la proibizione delle armi nucleari "presto diventi una realtà politica e morale di lungo periodo". In tale caso Rühle chiede che "la leadership politica e militare sia in grado di difendere il deterrente nucleare dai suoi critici, ... i quali cercheranno costantemente di screditarne il concetto di fondo". A ciò si aggiunge che "i dubbi circa l'affidabilità degli Stati Uniti come alleato dell'Europa permarranno anche nel prossimo futuro". Per questa ragione Berlino dovrebbe posizionarsi con convinzione a favore delle armi nucleari.

La Germania potenza nucleare

Rühle in questo quadro si esprime esplicitamente contro la richiesta di dotare la Germania di una propria arma nucleare. Una richiesta che recentemente è stata avanzata più volte pubblicamente. Cosi' ad esempio il professore emerito di scienze politiche di Bonn Christian Hacke nel mese di luglio su diversi giornali e in diversi articoli di riviste chiedeva di "discutere pubblicamente e senza riserve" la seguente questione: "Come potremmo affrontare il tema di una Germania potenza nucleare?". [4] Hacke scriveva che "una futura difesa nazionale tedesca fondata su di un proprio deterrente nucleare, alla luce delle nuove incertezze transatlantiche e dei potenziali conflitti, dovrebbe avere la priorità". E' necessario capire a "quali condizioni e con quali costi," la "potenza centrale europea potrebbe trasformarsi in una potenza nucleare". Rühle, al contrario avverte con insistenza che una "bomba tedesca" avrebbe delle gravi conseguenze negative - "dai limiti imposti dal diritto internazionale alle conseguenze per la non proliferazione nucleare fino alle gravi e inevitabili controversie intra-europee e transatlantiche" [5]. Allo stesso modo si era già espresso in estate Wolfgang Ischinger, capo della Conferenza per la sicurezza di Monaco di Baviera". Se la Germania "dovesse uscire dallo stato di potenza non nucleare", cosa potrebbe impedire ad esempio alla Turchia o alla Polonia di fare lo stesso passo?", si chiedeva Ischinger, "la Germania sarebbe il becchino del regime internazionale di non proliferazione" [6]

"Deterrente esteso"

Nel nuovo dibattito berlinese sul nucleare, discussione che vorrebbe sfruttare le attuali divergenze con gli Stati Uniti per chiedere un "ombrello nucleare europeo" come possibile alternativa alla "bomba tedesca", spesso si fa riferimento alle forze nucleari francesi. Ad esempio Ischinger ha messo in campo l'opzione secondo la quale Parigi in futuro potrebbe "assumere un ruolo nucleare esteso nel senso di deterrenza ampliata a livello europeo". In questo ambito "paesi partner come la Germania potrebbero contribuire alle necessarie spese dei francesi" [7]. Ischinger tuttavia non menziona il fatto che al cofinanziamento è solitamente associato anche il diritto di co-decidere. Il suo intervento, tuttavia, è in linea con altre proposte fatte a Berlino per avviare la cooperazione nucleare con Parigi [8].

Una nuova garanzia nucleare

Il giornale "Internationale Politik" elenca invece delle opzioni concrete. Come scrive Bruno Tertrais, vicedirettore della Fondation pour la Recherche Stratégique di Parigi, nell'ultima edizione della rivista, la Francia sicuramente non permetterà "nessuna forza nucleare europea comune sotto la guida dell'UE" [9]. E' inoltre completamente "irrealistico" che "i partner europei possano co-finanziare le forze armate francesi" - e "in cambio ottengano il diritto di essere interpellati sulla politica di sicurezza francese". E' pensabile piuttosto che Parigi interpreti la clausola di mutua assistenza dell'UE nel senso di una garanzia di protezione nucleare e, per sottolineare questo, ad esempio possa far stazionare a turno gli aerei da combattimento nelle basi degli alleati dell'UE. Se gli Stati Uniti dovessero ritirare inaspettatamente le loro armi nucleari dall'Europa, sarebbero allora possibili dei passi più ampi, conclude Tertrais. Ad esempio Parigi potrebbe "collocare una parte del suo arsenale (ad esempio, dieci missili) in Germania o in Polonia". Sarebbe anche ipotizzabile l'impegno delle potenze non nucleari a "partecipare ad un attacco nucleare con mezzi convenzionali ".

"Discussione aperta"

Tertrais conclude: "Non sappiamo come le relazioni transatlantiche si svilupperanno, ed è per questo che è arrivato il momento di avviare una discussione aperta e onesta sulla questione nucleare tra i politici europei e gli esperti" [10].
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[1] Michael Rühle: Debatte der Extreme. Internationale Politik, November/Dezember 2018. S. 102-107.

[2] Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons. New York, 7 July 2017. treaties.un.org.

[3] Michael Rühle: Debatte der Extreme. Internationale Politik, November/Dezember 2018. S. 102-107.

[4] Christian Hacke: Falsches Hoffen auf die Zeit nach Trump. cicero.de 20.07.2018. Christian Hacke: Eine Nuklearmacht Deutschland stärkt die Sicherheit des Westens. welt.de 29.07.2018. S. dazu Die deutsche Bombe.

[5] Michael Rühle: Debatte der Extreme. Internationale Politik, November/Dezember 2018. S. 102-107.

[6], [7] Wolfgang Ischinger: Ein atomares Deutschland wäre verhängnisvoll. welt.de 30.07.2018.

[8] S. dazu Make Europe Great Again und Der Schock als Chance.

[9], [10] Bruno Tertrais: Europas nukleare Frage. Internationale Politik, November/Dezember 2018. S. 108-115.

giovedì 8 novembre 2018

El-Erian su Handelsblatt: perché il governo italiano non ha torto

Mohamed El-Erian, consigliere economico capo di Allianz, il gigante tedesco delle assicurazioni, su Handelsblatt ci spiega perché nella interminabile disputa con la Commissione Europea probabilmente il governo di Roma non ha torto. La politica economica del governo italiano incassa un'altra apertura di peso dal dirigente di un gigante finanziario. Da Handelsblatt


I mercati, i decision-maker politici e i risk-manager stanno monitorando con attenzione la disputa sulla legge di bilancio tra il governo italiano e la Commissione europea. L'episodio evidenzia una tendenza sempre piu' forte a mettere in discussione l'ortodossia economica nelle economie sviluppate e in quelle emergenti.

Il governo italiano ha ricevuto dagli elettori un mandato per promuovere una crescita più sostenuta e piu' inclusiva e ora intende mettere in pratica una politica fiscale più espansiva. Il suo progetto di bilancio tuttavia è stato "respinto" dalla Commissione europea in quanto non rispetterebbe le norme UE sul deficit. Di conseguenza Moody's ha declassato il rating sul debito italiano portandolo di poco sopra al livello spazzatura. Moody's giustifica il declassamento con i timori relativi alla situazione debitoria del paese e alle proiezioni di crescita eccessivamente ottimistiche del governo.

Data l'insistenza del governo italiano nel sostenere che non ci sarebbe "alcun piano B", i premi al rischio sui titoli di Stato italiani sono drasticamente aumentati. Contemporaneamente stanno aumentando anche le preoccupazioni in merito al sistema finanziario italiano. Alcuni arrivano addirittura a sostenere che l'Italia è una minaccia esistenziale per l'Eurozona.

Altri, invece, la considerano una pericolosa esagerazione: l'Italia beneficia di un profilo di servizio del debito di breve periodo, ha un avanzo di bilancio primario e un'eccedenza delle partite correnti nonché un potenziale economico considerevole.

Il vecchio problema della scarsa crescita italiana viene ora aggravato dal recente rallentamento dell'andamento economico europeo, dalle  frammentazioni regionali e dalla graduale riduzione delle iniezioni di liquidità da parte della Banca centrale europea. Per compensare questi fattori, l'Italia fa ricorso alla politica fiscale. In altre parole: il governo intende fare un deficit di bilancio più ampio per generare una maggiore crescita economica reale e potenziale.

Guardando al futuro, molto dipenderà dal fatto che la grande scommessa politica italiana resti in linea con le regole e le prescrizioni della Commissione europea. Non è la prima volta che nel mondo un governo da poco eletto mette in discussione l'ortodossia economica.

Entrato in carica nel gennaio 2015, il governo Syriza in Grecia ha immediatamente segnalato la sua volontà di abbandonare l'approccio convenzionale seguito dai suoi predecessori cercando perfino una conferma elettorale in un referendum nazionale.

Alla fine, tuttavia, a causa del rischio incombente di dover uscire dalla zona euro è stato costretto a tornare nell'ortodossia politica. Negli Stati Uniti, il governo Trump e i Repubblicani al Congresso nella fase finale del ciclo economico hanno imposto uno stimolo fiscale tramite una riduzione delle tasse.

Allo stesso modo la Turchia ha riscritto le regole relative alla gestione delle crisi. Fino ad ora, almeno, il governo è riuscito a superare una crisi valutaria senza aumentare in modo aggressivo i tassi di interesse o senza dover ricorrere ai finanziamenti del FMI.

Queste politiche non ortodosse mettono in discussione in maniera fondamentale le opinioni convenzionali su quale dovrebbe essere la sequenza delle misure di politica economica. Così sia l'Italia che la Turchia hanno respinto la credenza secondo la quale la stabilità macroeconomica deve venire prima dello stimolo fiscale e monetario.

Oppure detto in maniera piu' elegante: la stabilità macroeconomica non è tutto, ma senza di essa, tutto è nulla. La crescente attrattività degli approcci politici non ortodossi è la conseguenza immediata causata da anni di crescita lenta, insieme ai crescenti timori dovuti alla triade della disuguaglianza (reddito, ricchezza e opportunità).

Invece di rigettare semplicemente ogni forma di reazione, gli esperti dovrebbero essere più aperti nel loro approccio con gli elementi che stanno alla base dell'etica non ortodossa. In particolare, i compromessi insiti negli approcci convenzionali dovrebbero essere attentamente quantificati e chiaramente comunicati. Inoltre, tali approcci dovrebbero essere aggiornati per un mondo in cui la crescita esangue sembra essere ormai diventata la caratteristica strutturale di un numero sempre maggiore di economie.

In un mondo di aspettative auto-rinforzanti e di stati di equilibrio molteplici, alcuni sforzi prudenti fatti per rilanciare l'economia potrebbero facilitare il successo delle riforme strutturali di lungo periodo. Nel caso dell'Italia, l'UE dovrebbe pertanto restare flessibile.

Allo stesso tempo, tuttavia, il governo italiano dovrà dimostrare di fare molto più sul serio quando si tratterà di attuare i cambiamenti sul lato dell'offerta necessari per garantire una maggiore crescita di lungo periodo.


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mercoledì 7 novembre 2018

Gustav Horn su die Zeit: cosa si deve fare per disinnescare il ricatto italiano

Sulla stampa tedesca è arrivato il tempo delle colombe, dopo quello dei soliti avvoltoi, e Gustav Horn su Die Zeit prova a spiegare ai tedeschi un modo semplice per fermare il "ricatto italiano": autorizzare la BCE ad acquistare titoli di stato italiani quando lo spread supera una soglia di allarme, a patto che le partite correnti italiane restino in territorio positivo. In questo modo il debito pubblico sarebbe una questione tutta italiana e il governo di Roma non avrebbe piu' a disposizioni le solite armi per ricattare Bruxelles e Berlino. Gustav Horn su Die Zeit


Gustav A. Horn dirige l'Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung della Fondazione Hans Böckler, fondazione vicina al sindacato. È membro della SPD e membro consultivo della Commissione di base del partito.

La miccia sta bruciando, ma quale sarà il suo percorso verso la polveriera non è ancora chiaro. Per questo spegnerla è ancora piu' difficile. Il rischio più grande è che presto ci si possa trovare davanti alle macerie dell'edificio europeo perché si è cercato di salvarlo agendo sui punti sbagliati.

Il punto sbagliato è proprio il tanto discusso bilancio pubblico italiano. Il deficit al 2,4% del prodotto interno lordo (PIL) previsto dal governo italiano è una violazione delle promesse fatte dai precedenti governi e rappresenta quindi un'erosione della fiducia. Di per sé questo valore tuttavia non è un disastro economico. In uno scenario realistico caratterizzato da uno sviluppo economico ragionevolmente immutato e da un lento aumento del tasso di inflazione, il rapporto debito/PIL italiano, anche con questo valore, continuerebbe a scendere. A ciò si aggiunge che l'Italia ha un surplus commerciale con l'estero. Non si tratta quindi di una combinazione esplosiva fra un rapporto debito/PIL in crescita e un aumento del debito estero, che fra l'altro sui mercati finanziari internazionali ha spinto la Grecia verso l'abisso. L'Italia, al contrario, si è indebitata con i propri cittadini e le proprie imprese, e sono proprio loro che alla fine dovranno convivere con le conseguenze.

Al momento non è nemmeno chiaro se questo maggior deficit in futuro non finirà per restringere significativamente il margine di manovra fiscale. L'introduzione di un reddito di base, data la totale inadeguatezza del sistema di protezione sociale italiano, potrebbe rivelarsi una benedizione. A beneficiare dell'aumento di spesa e del relativo aumento dei consumi sarebbe l'andamento della congiuntura economica generale e ciò potrebbe contribuire a far rientrare molte più persone nel mercato del lavoro. Il resto delle spese aggiuntive, tuttavia, è alquanto discutibile e piu' che altro sembrerebbe orientato a servire la propria clientela elettorale. Dal lato dei tagli fiscali non ci sono benefici economici significativi che ci si possano attendere. In ogni caso contribuiranno ad aumentare ulteriormente l'onere debitorio, già estremamente elevato a causa dell'eredità del passato.

Tutto sommato questo approccio del governo italiano, nella migliore delle ipotesi, dovrebbe causare un po' di rabbia a livello europeo, ma non dovrebbe essere sufficiente per far scattare scenari catastrofici. I mercati finanziari possono restare tranquilli. Ma non lo sono - a ragione.

La ragione non risiede tanto nella discutibile logica economica delle proposte, ma nella loro controversa intenzione politica. Alla fine la coalizione di governo italiana, alla luce degli orientamenti politici totalmente diversi, è unita da un solo elemento: dalla lotta a un presunto establishment a Roma, Berlino, Bruxelles e altrove ostile ai veri interessi del popolo. Questa è la sostanza di cui sono fatti i governi populisti di questo periodo. La loro forza motrice arriva dalla paura dell'immigrazione sulla quale vengono proiettate tutte le preoccupazioni culturali ed economiche di questa società globalizzata, e dalla convinzione che i populisti sono gli unici che possono rappresentare il popolo di fronte a questo progetto di globalizzazione guidato dalle élite. Tutto ciò è una mezza verità o forse è completamente falso, in ogni caso ipocrita, ma politicamente efficace.

Questa miscela non promette nulla di buono per l'Europa. Perché è lecito aspettarsi che il governo italiano non farà nulla per calmare i mercati. Al contrario, è nel loro interesse farli andare nel panico con delle provocazioni retoriche sempre più violente. Solo allora gli altri membri dell'unione monetaria, o per l'aumento dei tassi di interesse o per l'incertezza dilagante sulla coesione dell'unione monetaria, saranno colpiti dalla politica di deficit del governo italiano e quindi saranno obbligati a confrontarsi con il governo di Roma e con le sue richieste radicali, ad esempio, in materia di immigrazione.

Si sta presentando la vendetta per non aver voluto introdurre nell'unione monetaria dei cosiddetti "safe assets". Ogni area valutaria funzionante dispone di simili forme di investimento sicure, di solito titoli di stato, che vengono difesi dalla rispettiva banca centrale con tutti i mezzi a disposizione. Un investimento sicuro all'interno dell'area dell'euro renderebbe impossibile ogni forma di ricatto attraverso i mercati finanziari.

Nell'area dell'euro attualmente non vi sono investimenti sicuri, per questo gli italiani possono mettere in campo la loro strategia. Il governo tedesco e gli altri stati membri si trovano di fronte ad una spiacevole scelta: fare delle concessioni di vasta portata all'Italia su molte questioni politiche, oppure rischiare il collasso dell'unione monetaria.

Ma c'è un altro modo per aggirare questo dilemma. I ministri delle finanze potrebbero, almeno temporaneamente, autorizzare la Banca centrale europea (BCE) ad orientare il suo programma di acquisto titoli sui singoli paesi, e cioè sulla base dello spread dei tassi di interesse. In altre parole, la BCE acquisterebbe sul mercato soprattutto titoli di stato per i quali il premio al rischio è elevato, e che quindi vengono considerati rischiosi dai mercati finanziari. Questo tipo di acquisti tuttavia dovrebbe essere subordinato al fatto che la bilancia commerciale esterna del paese non sia in deficit. Con questo approccio, o semplicemente con il suo annuncio, sarebbe possibile evitare un aumento dei tassi d'interesse in grado di mettere a repentaglio l'intera unione monetaria. L'obiezione attesa, e cioè che in questo modo stiamo dando all'Italia una licenza per fare piu' debito, è giusta solo a metà. Certo, l'Italia ora potrà continuare a indebitarsi senza dover temere i mercati finanziari. Ma a causa della condizionalità relativa al saldo commerciale estero, l'indebitamento potrebbe avvenire solo a livello nazionale, quindi all'interno del paese. Le conseguenze del maggiore indebitamento verrebbero infatti sopportate solo dagli italiani, e il ricatto verso gli altri paesi sarebbe inefficace.

Questo passo richiederebbe indubbiamente molto coraggio politico ed economico. Ma sarebbe un passo con il quale forse faremmo ancora in tempo a staccare la miccia dalla polveriera europea.

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lunedì 5 novembre 2018

Perché Hartz IV potrebbe diventare un reddito di cittadinanza incondizionato

La Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe ha fatto sapere che entro gennaio si pronuncerà sulla costituzionalità del regime sanzionatorio Hartz. Se le sanzioni e le decurtazioni del sussidio fossero dichiarate illegittime in quanto lesive dei diritti fondamentali, Hartz IV potrebbe finalmente trasformarsi in un reddito di cittadinanza incondizionato. Difficile che accada contro la volontà del governo di Berlino, tuttavia per gli oltre 400.000 sussidiati che ogni anno vengono puniti e privati del minimo esistenziale sarebbe senza dubbio una svolta. Ne parla Susan Bonath su Junge Welt



Neanche un soldo per il cibo e l'elettricità, il padrone di casa minaccia lo sfratto, le bollette restano sul tavolo, i debiti si accumulano, nessun aiuto dagli uffici pubblici preposti: uno scenario che minaccia costantemente i percettori di un sussidio Hartz IV, e che a partire dal 2005 milioni di persone hanno dovuto sperimentare. Il "reato" da loro commesso: hanno interrotto una misura di formazione assegnata dal centro per l'impiego, hanno rifiutato un'offerta di lavoro, non hanno fatto un numero sufficiente di candidature o semplicemente si sono allontanate dalla zona di residenza senza il permesso del centro per l'impiego. Ogni anno, i centri per l'impiego infliggono quasi un milione di sanzioni a circa 420.000 persone in stato di bisogno. A seconda del tipo di "infrazione" possono ridurre il sussidio minimo di sussistenza del 10, del 30, del 60 o del 100 %. Le sanzioni Hartz IV tuttavia, secondo il Tribunale sociale di Gotha, violerebbero i diritti fondamentali relativi alla dignità umana, alla libertà di scelta e all'integrità fisica. E nel 2015 i giudici di Gotha per questa ragione si sono rivolti alla Corte costituzionale tedesca (BVerfG). Le persone colpite dalle misure punitive hanno dovuto attendere a lungo ma ora Karlsruhe ha dato luce verde: il 15 o 16 Gennaio 2019 la Corte dovrà discutere il ricorso, ha fatto sapere l'associazione dei senza lavoro Tacheles, che martedì scorso ha pubblicato la lettera.

Il ricorso si basa sul caso di un giovane a cui il Jobcenter di Erfurt aveva comminato 2 sanzioni consecutive di tre mesi. La riduzione iniziale era stata del 30% per non aver accettato una prima offerta di lavoro. Poco dopo però l'uomo si è rifiutato di iniziare un periodo di lavoro di prova. L'ufficio del lavoro gli ha cancellato il 60 % del sussidio. I giudici del tribunale di Gotha in Turingia dubitano che la pratica del Jobcenter sia compatibile con la Costituzione e per questo si sono rivolti alla Corte. Il primo tentativo è fallito a causa di un "errore formale", ma nel 2016 ci hanno riprovato. L'Arbeitslosengeld II (Hartz IV) copre a malapena il minimo indispensabile, per questo i giudici del tribunale sociale ritengono che la decurtazione dell'indennità potrebbe "implicare un peggioramento dello stato di salute oppure un pericolo per la vita stessa".

L'associazione Tacheles è una delle 19 associazioni che due anni fa aveva chiesto alla corte suprema di Karlsruhe di pronunciarsi sul tema. E non sono gli unici a ritenere le sanzioni Hartz "completamente sproporzionate" e quindi una grave violazione della legge. Anche l'associazione "Paritätische Wohlfahrtsverband" sostiene che le sanzioni creano terrore e conducono alla miseria, facendo riferimento ad una decisione della Corte di Karlsruhe del 1977. Secondo questa sentenza, anche ai peggiori criminali sarebbe doveroso assicurare il minimo esistenziale. E il rifiuto di un lavoro, inoltre, non è nemmeno un reato. L'associazione di assistenza sociale "Erlacher Höhe" parla invece di casi drammatici criticando soprattutto l'arbitrarietà con cui gli impiegati dei Jobcenter possono applicare la legge. E' sufficiente un'accusa unilaterale, in quanto le obiezioni e le denunce nella giurisprudenza speciale Hartz IV non hanno un effetto sospensivo.

Le persone vengono spinte a vivere al di sotto del minimo esistenziale, sostiene la Confederazione dei sindacati tedeschi (DGB). Le prestazioni in natura con le quali lo stato giustifica le sanzioni devono essere richieste separatamente dal disoccupato e non sempre vengono concesse. In secondo luogo si tratta per lo più di buoni alimentari per un valore massimo della metà di quanto previsto da Hartz IV. Resta tuttavia completamente ignorato il fatto che anche i costi dell'abitazione e dell'energia hanno natura esistenziale. "Il regime delle sanzioni non tiene conto delle necessità minime", sostiene la DGB. L'Associazione degli avvocati tedeschi ha accusato i Centri per l'impiego di accanirsi in particolar modo con i percettori mentalmente instabili, malati o indifesi. L'associazione sociale VdK ha condannato la sanzioni e le ha definite una grave interferenza nei diritti fondamentali. La Caritas e la Diakonie accusano la responsabilità solidale dei membri della famiglia, la riduzione dei sussidi per l'alloggio e le dure sanzioni nei confronti dei ragazzi fra i 15 e i 24 anni, tuttavia si limitano a chiedere una riduzione delle sanzioni. Anche l'associazione "Deutsche Sozialgerichtstag" la vede in maniera simile: la pratica deve essere riesaminata e rivalutata. Al momento "è molto probabile che possa causare o esacerbare problemi di salute", accusa l'associazione.

Solo cinque istituzioni sostengono con convinzione la pratica crudele. Oltre alla Bundesagentur für Arbeit (BA), al Ministero federale del lavoro e degli affari sociali (BMAS) e alla Confederazione delle associazioni dei datori di lavoro (BdA), ci sono anche le associazioni dei distretti e delle città. Come al solito ritengono che i centri per l'impiego possono comunque concedere un buono per il cibo. Le persone colpite avrebbero semplicemente il dovere di "collaborare" per evitare di incorrere nelle sanzioni. Inoltre, a loro avviso, non esisterebbe un "diritto fondamentale alla concessione incondizionata di benefici sociali".

Martedì il presidente di Tacheles Harald Thomé ha accolto con favore il fatto che la corte di Karlsruhe abbia finalmente messo in agenda una sentenza su questo ricorso "dopo che per mesi e anni era stata data priorità ad altre decisioni". "Possiamo almeno essere curiosi" ha constatato Thomé.
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domenica 4 novembre 2018

L'uomo di BlackRock verso la Cancelleria di Berlino

La stampa liberal-conservatrice ha già iniziato a pomparne la candidatura al vertice della CDU, i sondaggi lo danno davanti agli altri contendenti, l'endorsement di Schäuble è già arrivato, ma chi è Friedrich Merz? Potrebbe sembrare il wet dream di ogni complottista, ma invece è tutto vero: l'UE traballa, la moneta unica viene messa in discussione, in Germania è scoppiato il piu' grande scandalo fiscale di tutti i tempi con molte grandi banche coinvolte, ma il prossimo Cancelliere tedesco potrebbe essere proprio un uomo di BlackRock, vale a dire il piu' grande gestore di risparmio del mondo, con decine di miliardi di euro investiti nei paesi periferici della zona euro. Ne parla un ottimo Zacharakis su Die Zeit


Se in Germania per strada chiedi a dieci persone se conoscono la società Blackrock, non saranno molti a rispondere di sì. Ma la società di gestione dei fondi è profondamente radicata nell'economia tedesca. Così profondamente da preoccupare alcuni esperti. Blackrock non ha proprio la reputazione migliore. E questo potrebbe diventare un problema per l'uomo che per diversi anni ha rappresentato questa società in Germania: Friedrich Merz.

Merz si è candidato alla segreteria della CDU in vista del prossimo congresso di dicembre, lo ha confermato ufficialmente martedì. La sua elezione sarebbe uno spettacolare ritorno in politica del leader del gruppo parlamentare della CDU, dopo che Merz quasi dieci anni fa aveva lasciato il Bundestag ed era uscito dalla politica. Nel frattempo l'avvocato d'affari ha lavorato come consulente presso lo studio legale Mayer Brown LLP, dove ha assistito molte società in attività di fusione e acquisizione. Ed è stato in vari consigli di sorveglianza di aziende tedesche. Dall'inizio del 2016, Merz è anche presidente del consiglio di sorveglianza di Blackrock, il più grande gestore patrimoniale al mondo.

Blackrock è una società che con i suoi fondi raccoglie il denaro dei clienti in tutto il mondo e investe principalmente in azioni - con l'obiettivo di far crescere il capitale quanto più possibile. Secondo dati recenti, la società di gestione attualmente ha un volume di investimenti di oltre 6,3 trilioni di dollari. Una somma incredibile, quasi il doppio rispetto al PIL tedesco (3,7 trilioni di dollari).

Non è esecrabile di per sé il fatto che i manager aziendali possano passare alla politica. Persino le organizzazioni come Lobbycontrol considerano un simile passo molto meno critico rispetto a quello nella direzione opposta, cioè dalla politica al business. Un esempio negativo di un tale cambio è quello dell'ex sottosegretario alla Cancelleria e politico della CDU Ronald Pofalla: nel 2015 è passato a Deutsche Bahn e dopo un breve periodo di attesa è entrato nel consiglio di amministrazione per occuparsi dei contatti politici dell'azienda. I legami personali con la politica dopo un tale passaggio sono ancora freschi, e non è difficile avere accesso diretto alle figure chiave del governo e del parlamento.

Critica della vigilanza sulla concorrenza

Per Merz, tuttavia, potrebbero esserci altre circostanze a pesare sulla sua possibilità di arrivare alla presidenza della CDU. Gli economisti accusano la statunitense Blackrock di avere un'influenza troppo forte sull'economia tedesca. Da qualche tempo la società nei suoi fondi detiene consistenti pacchetti azionari di tutte le 30 società tedesche presenti nel listino Dax. Nel caso di Post, Allianz e Bayer, ad esempio, Blackrock recentemente ha raggiunto una partecipazione di oltre il 7%, e sul Dax complessivo un totale del 4,5 %. E' stato segnalato piu' volte che la direzione del gruppo da New York interferisce attivamente nelle decisioni dei dirigenti tedeschi.

Gli esperti in materia di concorrenza la vedono in maniera alquanto critica: "un azionista con interessi multipli in un settore è interessato al bene dell'intero settore e non necessariamente al successo della singola azienda", ha detto a Wirtschaftswoche Achim Wambach, presidente della Commissione per i monopoli. Se l'influenza sulle aziende dovesse aumentare, come annunciato da Blackrock, ciò finirà per danneggiare la concorrenza. La Commissione europea ha già preso in considerazione questi importanti temi dal punto di vista sistemico e intende agire.

Un'azienda controversa, dunque. E per la quale Merz ha rivestito un ruolo importante. Quando circa tre anni fa ha assunto la carica, la società ha subito dichiarato che il suo compito sarebbe andato oltre la semplice supervisione. Avrebbe assunto un "ruolo di consulenza più ampio in cui avrebbe dovuto sviluppare per conto di Blackrock le relazioni con i clienti chiave, i regolatori e le autorità di regolamentazione tedesche", scriveva il suo datore di lavoro. Merz era quindi il principale lobbista di Blackrock in Germania e - se ha fatto bene il suo lavoro - ha lavorato affinché lo stato ponesse il minor numero possibile di ostacoli alla società.

Ulteriori spiegazioni probabilmente dovrà darle anche in merito ad un'altra posizione presso un'altra società finanziaria per la quale Merz dall'inizio del 2010 è stato membro del consiglio di sorveglianza. La banca di Düsseldorf "HSBC Trinkaus", che secondo il rapporto finale della commissione d'inchiesta del Bundestag era coinvolta in operazioni fiscali, note da tempo al pubblico con il nome di "Cum-Ex". Si tratta di rimborsi fiscali su operazioni azionarie a cui gli investitori non avevano diritto. Queste pratiche fiscali a danno dei contribuenti tedeschi sono mai state discusse dal consiglio di sorveglianza della banca?

Merz dovrà esprimersi su questi temi, soprattutto perché prima della sua uscita dalla scena politica è stato l'esperto di fiscalità del suo partito. Nel 2003 è diventato famoso per la sua proposta di rendere la dichiarazione dei redditi così facile da farla stare in un sottobicchiere da birra.

Anche lo studio legale Mayer Brown, per il quale Merz è ancora attivo, a modo suo guadagna con le transazioni fiscali Cum-Ex. Sul sito web lo studio legale scrive: "gli operatori di mercato potrebbero dover affrontare rischi legali crescenti in seguito a transazioni cum-ex". Le autorità fiscali tedesche avrebbero intensificato le loro attività investigative per  individuare ulteriori reati fiscali. E lo studio legale vuole aiutare i propri clienti a "contrastare questo rischio".

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sabato 3 novembre 2018

Handelsblatt: la manovra italiana potrebbe essere la scelta giusta

Sulla stampa tedesca "di qualità" non è facile trovare una piccola apertura politica nei confronti della legge di bilancio italiana. Su Handelsblatt ci prova il prof. Bert Rürup, capo-economista nonché commentatore di punta del quotidiano economico-finanziario di Düsseldorf: cari amici tedeschi, la manovra italiana di per sé non è sbagliata, molto dipenderà dai provvedimenti con cui sarà attuata, l'Europa puo' fare passi avanti solo se il culto delle regole fini a se stesse, tipico dei nord-europei, viene affiancato dal sano pragmatismo dei popoli latini. Da Handelsblatt 


La protesta di Roma contro le regole di bilancio dell'UE è giusta e sbagliata allo stesso tempo. È senz'altro vero che il governo italiano sta mettendo in discussione le norme fiscali esistenti. Ma proprio questa battaglia potrebbe aiutare a rilanciare la tanto attesa modernizzazione dei limiti all'indebitamento, ormai decisamente antiquati.

Quando nel febbraio 1992 il ministro delle Finanze Theo Waigel e Hans-Dietrich Genscher e le loro undici controparti dell'UE firmarono il trattato di Maastricht, i membri dell'Unione monetaria si impegnarono a non far aumentare il livello del debito pubblico oltre il 60% del PIL nazionale. Inoltre, il deficit di bilancio annuale non doveva superare il 3% del PIL delle loro economie.

Ma queste regole sin dall'inizio sono state solo una stampella, una sostituzione incompleta per un accordo impossibile su una vera unione fiscale. E da quella siamo ancora molto lontani.

La soglia del 60% era approssimativamente uguale alla media ponderata del debito pubblico effettivo nei paesi dell'UE di allora. Allo stesso modo il criterio del deficit al tre percento non aveva alcuna giustificazione analitica.

Questo limite al deficit si basa su una semplice "regola del tre". A quel tempo, infatti, si presumeva che i paesi della zona euro avrebbero potuto registrare una crescita economica nominale del cinque percento.

Il tasso di crescita nominale è la somma della crescita reale più l'inflazione. Combinando questa crescita economica nominale con un rapporto annuale del disavanzo del 3%, dal punto di vista aritmetico il livello di indebitamento converge inevitabilmente verso il 60 %.

A parte il Belgio, con il suo rapporto debito/PIL che allora era circa al 130% e l'Italia a circa il 100%, nessun politico ragionevole all'epoca pensava che il rispetto del limite del 60% potesse diventare un problema serio.

Nel 2012, tredici anni dopo l'introduzione dell'euro, tutti i membri dell'UE, ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca, hanno siglato il Fiskalpakt. Questo prevede che il disavanzo strutturale  a medio termine delle amministrazioni pubbliche, escluse quindi le componenti congiunturali, non superi lo 0,5% del PIL, almeno fino a quando il rapporto debito/PIL non abbia raggiunto il 60%. Se il rapporto debito/PIL di un paese supera il limite del 60%, la parte eccedente dovrebbe essere generalmente ridotta di un ventesimo all'anno.

A tale riguardo, dal punto di vista giuridico, è corretto che la Commissione europea accusi il governo italiano di violare i trattati. Perché il rapporto debito/PIL italiano è attualmente al 131 %. E il progetto di bilancio per il 2019, che l'Italia ha presentato all'UE, prevede che il deficit strutturale non scenda di 0,8 punti come promesso dal precedente governo, ma aumenti di 0,8 punti. La conseguenza: è molto improbabile che il rapporto debito/PIL dell'Italia, secondo ogni previsione, possa scendere.

Ma ciò che viola le leggi in vigore non è detto che sia economicamente e politicamente irragionevole. In realtà, il punto è che finora non è stato possibile stabilire un limite al di sopra del quale il debito pubblico diventa insostenibile dal punto di vista macroeconomico.

Il debito pubblico non è né buono né cattivo

Il debito pubblico è un mezzo legittimo di finanziamento dello stato e a priori non è né buono né cattivo. Per questo il consolidamento delle finanze non può avere come obiettivo quello di rimborsare quanto più debito possibile, ma dovrebbe sempre cercare di fare in modo che le "finanze pubbliche restino sostenibili", come affermato nell'articolo 121, paragrafo 1 dei trattati UE. Allo stesso tempo un indebitamento temporaneo non è necessariamente in conflitto con la sostenibilità del bilancio, a condizione che le fluttuazioni economiche di breve periodo siano attenuate.

Nel lungo periodo i programmi congiunturali finanziati a debito restano malvisti e considerati solo un "fuoco di paglia". Questo atteggiamento critico, anche grazie al lavoro di ricerca di Philippe Aghion ad Harvard, è stato sostituito da una posizione piu' moderata. Aghion ha dimostrato che un contenimento delle fluttuazioni cicliche, e quindi una stabilizzazione ad un livello elevato di utilizzo del prodotto potenziale è collegato ad effetti positivi sulla crescita tendenziale.

Una buona politica congiunturale migliora quindi le opportunità di crescita nel lungo periodo, ma solo se la politica nella fase di ripresa economica trova la forza per ridurre il debito fatto per finanziare gli stimoli congiunturali.

Ora è alquanto improbabile che in Italia la strana coalizione fra una "Lega" di destra e un "Movimento Cinque Stelle" di sinistra si lasci impressionare da tali fatti e da tali relazioni economiche, specialmente se con l'indebitamento aggiuntivo bisogna rispettare le promesse elettorali fatte, tutte orientate al consumo. Tuttavia il conflitto con la Commissione Europea alla fine potrebbe rivelarsi vantaggioso per questo governo: perché ora tutta l'Italia, con "quelli là a Bruxelles", finalmente ha trovato un nemico comune odiato da gran parte della popolazione - e questo notoriamente aiuta a saldare la popolazione.

In definitiva c'è solo una cosa che potrà costringere il governo in carica a Roma a cedere: un aumento significativo dei premi al rischio sui titoli di Stato italiani. Il governo è ben consapevole del fatto che sono stati questi premi al rischio che nel 2011 hanno costretto Silvio Berlusconi a dimettersi, portando al potere un governo tecnocratico fondato sull'austerità guidato da Mario Monti. L'Italia per poter rifinanziare il debito in scadenza deve chiedere circa 250 miliardi di euro all'anno ai mercati finanziari.

D'altra parte, se i prezzi diminuiscono, le banche italiane, che detengono gran parte del debito pubblico, dovrebbero svalutare una parte di questi titoli nei loro bilanci. E ogni svalutazione consumerebbe la già sottile capitalizzazione di molte istituzioni.

Se le agenzie di rating dovessero portare i titoli a livello di junk, le grandi società di fondi dovrebbero eliminare i titoli dai loro portafogli, il che potrebbe ulteriormente deprimere i prezzi e portare a fallimenti bancari e, nel caso improbabile, persino alla bancarotta.

Tuttavia, la disputa sul deficit "giusto" ci sta distraendo dai veri problemi economici della terza economia della zona euro, nonché ottava più grande al mondo. Perché l'Italia non soffre di una recessione economica di breve periodo, ma di una combinazione fra una disoccupazione di massa strutturale e una stagnazione macroeconomica decennale.

E non puoi combattere un cancro economico dando ai pensionati e ai disoccupati più soldi per i consumi. Ad alcuni l'Italia di oggi potrebbe addirittura ricordare la Germania di inizio secolo, a quel tempo era il "malato d'Europa".

La politica di crescita non si limita a chiudere un divario negativo di prodotto potenziale, ma piuttosto mira ad aumentare il potenziale produttivo di un'economia.

Risparmiare non è una panacea per tutti i mali

Pertanto la questione del deficit "giusto" è molto meno importante rispetto a quella di quale sia la politica economica "giusta". Dopo le esperienze fatte con la Grecia, la politica della svalutazione interna fatta mediante tagli massicci e risparmi deve essere considerata, in ogni caso, un fallimento. Nel frattempo lo ha riconosciuto anche il FMI, a differenza di quanto hanno fatto un certo numero di economisti tedeschi.

Naturalmente sono altrettanto sbagliati anche i piani del governo in carica a Roma per aumentare i consumi privati attraverso il deficit. In particolare, servirebbero più investimenti privati. E questi dipendono soprattutto dall'occupazione e dalle condizioni favorevoli alla crescita.

A tale riguardo, tuttavia, l'Italia ha un forte bisogno di agire: perché il mercato del lavoro non è flessibile, il carico fiscale è troppo elevato, la tassazione delle imprese è poco favorevole agli investimenti, il sistema legale è imprevedibile e la forza lavoro potenziale per ragioni demografiche continuerà a diminuire. Tutti questi problemi non possono essere superati da un programma di consumi finanziati a debito.

Un aumento sostenibile e duraturo del prodotto economico complessivo dell'Italia richiede riforme strutturali che creino condizioni quadro favorevoli alla crescita e consentano l'attuazione di idee imprenditoriali. L'implementazione di tali idee, tuttavia, richiede fiducia nelle politiche economiche e finanziarie nazionali - e quindi anche nella solidità della gestione finanziaria.

In breve: l'aumento del deficit pubblico in Italia potrà essere utile per ottenere una crescita tendenziale più elevata. Ma solo se questo aumento sarà affiancato da riforme strutturali nel mercato del lavoro, da un aumento della partecipazione della forza lavoro, dalla ristrutturazione del sistema fiscale e da riforme dei sistemi di sicurezza sociale, ad esempio una "Agenda 2020" intelligente.

Se nelle trattative in corso Roma mettesse insieme un pacchetto di crescita di questo tipo, in cambio l'UE potrebbe abbandonare la sua rigida posizione di veto.

Bruxelles potrebbe quindi ridiscutere regole superate, fondate su dati economici e ipotesi vecchie di 30 anni. Perché alla base di ogni passo fatto verso l'approfondimento dell'UE e quindi verso la stabilizzazione dell'euro c'è sempre stato un compromesso tra l'orientamento al rispetto delle regole dei paesi nordici e il pragmatismo dei latini. E ciò è sempre stato positivo nell'interesse della coesione europea.

Che la Commissione Europea ora insista nel voler far rispettare le regole di bilancio dominate dal pensiero ordoliberale tedesco, non solo non farà fare passi in avanti all'Europa, ma favorirà ulteriori divergenze.

Lo stesso vale naturalmente per le ripetute, ma non per questo sempre errate e tuttavia sempre sottovalutate richieste formulate dall'Europa "latina" in merito alla necessità che la Germania e altri stati del nord usino il loro spazio fiscale per stimolare la crescita.

Si può solo sperare che insistere sui criteri di stabilità non porti a una nuova crisi dell'euro. Perché queste regole, alla fine stupide, non ne valgono davvero la pena. Il più saggio cederà il passo all'altro - almeno si spera.




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giovedì 1 novembre 2018

Perché la nuova legge tedesca sull'immigrazione è sbagliata

A scriverlo non è un foglio estremista dell'est ma il prof. Thomas Straubhaar sulla liberale e liberista Die Welt. Dopo il recente accordo fra SPD e Unione per una legge sull'immigrazione che favorisce l'arrivo di lavoratori extra-UE (qui e qui), per quanto ancora questo governo possa andare avanti, è lecito porsi una domanda: perché la Germania del 2018, invece di puntare sulla digitalizzazione e gli aumenti di produttività, ha deciso che il suo futuro risiede nell'importazione in massa di lavoratori stranieri a basso costo? Ah saperlo... Ne parla un ottimo prof. Thomas Straubhaar su Die Welt

Al fine di superare il problema della carenza di lavoratori qualificati, il governo tedesco ha deciso di puntare sull'arrivo di lavoratori dall'estero. In realtà, la Germania dovrebbe risolvere un altro problema. Altrimenti l'umore generale potrebbe cambiare rapidamente.

Quando in gioco ci sono interessi personali, i punti di vista scientifici generalmente accettati vengono rapidamente dimenticati. E al momento ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la tanto discussa carenza di lavoratori qualificati. Ovunque nel nostro paese si sostiene che la mancanza di manodopera qualificata costi molti miliardi di euro all'economia e diversi punti percentuali di benessere alla società.

In ogni libro di testo si può leggere che in una situazione di carenza simile a quella attuale, cioè se la domanda è maggiore dell'offerta, il prezzo dovrebbe aumentare. Questo vale per tutti gli oggetti di uso quotidiano, dal caffè ai biglietti per i concerti.

Per questo la domanda centrale è una: perché in Germania i salari dei lavoratori qualificati non aumentano molto più rapidamente? Salari più alti avrebbero un duplice effetto: da un lato, per molte persone sarebbe più attraente lavorare più di quanto non facciano già oggi, e dall'altro lato costringerebbe i datori di lavoro a ripensare il loro modo di lavorare. Per questi imprenditori sarebbe molto più interessante sostituire le persone con delle macchine.

La qualità è più importante del semplice numero dei dipendenti

E forse si risolverebbe anche la questione relativa ai lavoratori qualificati provenienti dall'Unione europea (UE). Grazie alla libera circolazione, infatti, i cittadini dell'Unione europea provenienti dai paesi con un'elevata disoccupazione potrebbero effettivamente mettersi in viaggio verso la Germania. In realtà al momento c'è solo un debole "effetto aspiratore" che non corrisponde nemmeno lontanamente ai bisogni del paese. Se gli stipendi fossero piu' alti, i lavoratori qualificati dei paesi UE non verrebbero forse piu' volentieri a lavorare in Germania?

Ovviamente retribuzioni più elevate potrebbero portare le aziende tedesche a perdere competitività rispetto agli altri paesi. Ma questo non accadrebbe se i dipendenti venissero pagati per i soldi che valgono, come dimostrato dalla loro alta produttività lavorativa. Se così fosse, probabilmente sarebbe solo la redditività del capitale a diminuire, non la competitività tedesca. Il valore aggiunto del lavoro sarebbe quindi redistribuito in maniera diversa rispetto a oggi - alcuni direbbero in maniera "più giusta" - di quanto non accada aggi.

Sostituire le persone con delle macchine aumenterebbe la produttività del lavoro di coloro che restano occupati. Poiché lo sviluppo della produttività del lavoro si rifletterebbe nello sviluppo delle retribuzioni, il livello dei salari aumenterebbe ulteriormente, rendendo le ore di straordinario ancora più attraenti.

Cosi' si solleva un'altra domanda: perché nell'era della digitalizzazione la Germania ritiene che il suo futuro risieda nell'immigrazione di manodopera? La qualità, ovvero la produttività del lavoro misurata dal valore aggiunto per unità di tempo, e non la quantità, cioè il numero totale di dipendenti, è la base della prosperità.

La produttività del lavoro, tuttavia, non è un destino dato da Dio. È determinata dagli investimenti, sia nel capitale umano, cioè nella formazione, sia nel capitale fisico, cioè nei macchinari. Persone sempre piu' istruite che lavorano mano nella mano con dei robot sempre più moderni. Questa è la divisione del lavoro che nell'era della digitalizzazione rende i dipendenti più produttivi e che permette di pagare dei salari più alti.

L'immigrazione mantiene i salari bassi 

Nella politica economica, inoltre, ci sono leve piu' che sufficienti per compensare l'aumento del costo del lavoro, ad esempio riducendo la burocrazia, semplificando le procedure di approvazione e attuazione fino alla riduzione delle imposte sulle società.

L'esperienza della Svizzera inoltre ci mostra che diversamente da quanto previsto, anche degli specialisti ben qualificati, motivati e adeguatamente pagati possono avere un effetto positivo sulle decisioni di investimento. "Successo e decenza" pagano sia a livello micro che macro.

Non è il prodotto interno lordo (PIL) che determina la ricchezza di una società, ma il PIL pro capite. La crescita in termini reali del PIL tedesco tra il 2014 e il 2017 è stata del 6,3%. Al contrario, nello stesso periodo il PIL pro capite è aumentato solo del 4,2%, dato che la popolazione è cresciuta del 2%.

Da una crescita economica generata attraverso un aumento della popolazione - cioè dall'immigrazione - la società, almeno inizialmente,  ottiene solo un limitato aumento della ricchezza. Ma la focalizzazione sul "totale" copre comunque ogni possibile effetto redistribuivo. Tali effetti sono causati dal fatto che "una crescita estensiva dovuta all'immigrazione" crea una pressione al ribasso sui salari, il che significa che i salari restano relativamente piu' bassi rispetto a quanto si verificherebbe con "una crescita intensiva spinta dalla digitalizzazione".

Una politica dell'immigrazione intelligente dovrebbe servire al benessere di tutti

Chi in Germania in quanto lavoratore specializzato subisce la concorrenza da parte degli immigrati difficilmente trarrà beneficio dalla crescita del PIL, oppure lo farà solo in maniera indiretta. Al contrario, si rallenta ogni possibile aumento dei salari. Dall'altro lato, grazie all'immigrazione di lavoratori qualificati e alla conseguente modesta crescita dei salari, aumenterà il rendimento del capitale.

In breve: i lavoratori qualificati tedeschi beneficeranno meno della "crescita generata mediante l'immigrazione", ma tutti gli altri, in particolare i datori di lavoro, ne trarranno molto piu' vantaggio. Non c'è da stupirsi, quindi, che la denuncia di una presunta carenza di lavoratori qualificati sia particolarmente forte da parte delle aziende.

Tuttavia, una politica migratoria e di integrazione intelligente dovrebbe servire al benessere di tutti - sia dei capitalisti che dei lavoratori. Diversamente si dovrà mettere in conto una forte divergenza nello sviluppo dei redditi, una polarizzazione e ulteriori tensioni sociali e quindi una crescente resistenza all'immigrazione da parte della popolazione.

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