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sabato 21 dicembre 2019

Heiner Flassbeck - La crisi attuale è figlia di Hartz IV (seconda parte)

"Le politiche dell'Agenda 2010 hanno solo scelto un modo alquanto primitivo per esportare la disoccupazione nei paesi vicini. E questo, non bisogna mai dimenticarlo, è stato possibile solo perché in Europa c'era un'unione monetaria". Nei giorni in cui la SPD finalmente mette in discussione Hartz IV, il grande economista tedesco Heiner Flassbeck, commenta cosi' le tanto lodate riforme rosso-verdi. Seconda parte, si arriva da qui. Da Flassbeck Economics


La soluzione dell'enigma

Questi semplici risultati empirici contengono la chiave per risolvere l'enigma dell'Agenda: non c'è stato solo un canale attraverso il quale i tagli ai salari hanno influenzato il mercato dei beni e del lavoro, ma i canali sono sempre 2: il canale del mercato interno e il canale delle esportazioni. Il primo è stato un disastro - non ultimo per la dottrina prevalente - il secondo invece è stato alla base dell'apparente storia di successo della Germania.

Il fatto che gli effetti interni previsti non si siano verificati, è reso evidente dal fatto che la domanda interna non sia aumentata. L'idea neoclassica di eliminare la disoccupazione riducendo o moderando i salari si fonda sull'ipotesi che se i salari vengono ridotti (o se i salari reali restano indietro rispetto alla produttività), le aziende inizieranno a ristrutturare i loro processi produttivi aumentando l'impiego  della forza lavoro (relativamente) più economica e quindi sostituendo il capitale relativamente più costoso (il cui prezzo non è cambiato). Questa sostituzione del capitale con il lavoro tenderà quindi a ridurre la produttività del lavoro o a farla aumentare più lentamente, in modo da evitare ulteriori licenziamenti, o almeno ridurli.

Questo concetto di sostituzione è completamente irrealistico per vari motivi. Se questa teoria fosse valida, nel tempo si assisterebbe ad una crescita della produttività inferiore rispetto a quella di paesi comparabili che non hanno usato la moderazione salariale. Questo non è il caso del confronto con la Francia. In Germania, la produttività ha continuato ad aumentare a un ritmo molto simile a quello che ha preceduto la fase di moderazione salariale e simile alla Francia, dove non vi era stata alcuna moderazione salariale. Ma se la produttività continua ad aumentare, come è accaduto in Germania, è chiaro fin dall'inizio che la tesi della sostituzione non può essere provata empiricamente. Il fatto che l'occupazione sia aumentata senza che la domanda interna sia cresciuta in modo adeguato può essere spiegato solo dall'aumento della domanda estera.

Se l'approccio neoclassico aiutasse a spiegare la realtà, si dovrebbe anche osservare che un taglio salariale viene immediatamente compensato dagli effetti positivi sull'occupazione. Quindi, se i salari reali orari, invece di aumentare del 2%, stagnano, l'occupazione (il numero di ore) dovrebbe aumentare immediatamente del 2%. Solo in questo caso il salario reale rimarrebbe lo stesso e di conseguenza solo in questo caso potrebbe essere escluso un effetto negativo sulla domanda interna (...).

Ciò significa che in un'economia come quella tedesca, dove la produttività è aumentata nonostante la moderazione salariale, ma la domanda interna è cresciuta meno della produttività, l'effetto ipotizzato dai neoclassici sicuramente non si è verificato. Ciò ha reso la moderazione salariale un fallimento, indipendentemente da cosa poi sia accaduto. E quindi è stato il solo canale dell'export ad avere reso il paese un caso "di successo" (misurato secondo le statistiche del mercato del lavoro), nonostante la riduzione relativa dei salari.

Cosa sarebbe successo senza le "riforme"?

Se la domanda interna in Germania non fosse stata imbavagliata, e se i salari orari avessero seguito la produttività, la domanda interna sarebbe cresciuta e il caos europeo non ci sarebbe mai stato. Le esportazioni tedesche e quindi le eccedenze nell'export tedesco non sarebbero mai cresciute alle stelle così come poi è accaduto, e non avrebbero mai spinto il debito estero dei paesi partner dell'unione monetaria cosi' in alto. I paesi partner inoltre, dipenderebbero in misura molto inferiore dalla "politica debitoria" dello stato, decisamente vietata in Europa.

Non vi è alcun dubbio che in un'unione monetaria un paese con un'economia aperta che riesce a produrre sottocosto rispetto ai suoi vicini beneficerà prima o poi di grandi eccedenze delle partite correnti, se i vicini non dovessero agire in tempo. Sappiamo tuttavia che questi successi non dureranno. Perché i vicini prima o poi andranno in bancarotta oppure si comporteranno allo stesso modo; per questo nel lungo periodo con una strategia di riduzione dei salari non si ottiene nulla.

E' accaduto il contrario, e ora in Europa lo si può osservare chiaramente: nel lungo periodo il processo di aggiustamento sarà molto costoso, anche per chi ha fatto la prima mossa. Perché la riduzione salariale a cui sono costretti i paesi in deficit li spinge a ridurre la loro domanda, in modo da ridurre anche la domanda dei prodotti del primo che ha ridotto i salari. Il quale tuttavia si trova già su un sentiero sbagliato perché la sua economia si fonda su una struttura economica estremamente orientata all'export. Il fatto che la struttura economica dipendente dalle auto e dall'export abbia un posizionamento fatale anche sui requisiti universalmente riconosciuti come necessari per la protezione del clima, rende la situazione tedesca ancora più drammatica.

Nel complesso c'è da fare una semplice conclusione: la strategia di riduzione dei salari non ha successo né in termini di crescita economica né in termini di crescita dei posti di lavoro, perché funziona solo attraverso il canale dell'export, il quale non è mai sostenibile. Se si desidera creare un'occupazione sostenibile, è necessario fare in modo che la domanda interna si sviluppi in modo dinamico. Se la produttività aumenta con gli investimenti, i salari dovranno aumentare in maniera tale che la dinamica della domanda agli occhi degli imprenditori sia così forte da convincerli che valga la pena fare degli investimenti che vadano ben oltre l'attuale utilizzo della capacità produttiva. In questo modo saranno creati dei nuovi posti di lavoro per ridurre la disoccupazione esistente.

Le politiche dell'Agenda non hanno raggiunto questo obiettivo, ma hanno solo scelto un modo alquanto primitivo per esportare la disoccupazione nei paesi vicini. E questo, non bisogna mai dimenticarlo, è stato possibile solo perché in Europa c'era un'unione monetaria. Se la Germania avesse ancora avuto il D-Mark, prima o poi sarebbe stato rivalutato e lo spettro di Hartz IV si sarebbe rapidamente dissolto.

Cosa accadrà?

Se in Europa si vogliono contrastare le forze centrifughe, la Germania dovrà procedere con una messa in discussione delle sue riforme e normalizzare gli sviluppi salariali. L'economia tedesca risulterebbe senza dubbio molto colpita da uno scenario di uscita dell'Italia o della Francia. E' prevedibile che la sua struttura produttiva estremamente orientata all'export, formatasi negli anni dell'unione monetaria, sarebbe soggetta a un duro adeguamento. Già ora la recessione tedesca sta dimostrando quanto il paese sia vulnerabile agli shock esogeni.

La decisione di fondo dell'euro, ancora oggi, può essere giustificata con dei buoni argomenti economici. La teoria economica dominante, tuttavia, ha ignorato fin dall'inizio questi argomenti respingendoli politicamente. Costruita sulla base delle idee monetariste della Banca centrale europea e sulle delle idee grezze in merito alla concorrenza fra le nazioni provenienti dal più grande paese membro, l'unione monetaria in questo modo non poteva funzionare. Chiunque voglia salvare l'Europa come idea politica dovrà riconoscere che ciò può accadere solo con una diversa teoria e una diversa politica economica. L'idea di un'Europa pacificamente unita può essere salvata solo garantendo la partecipazione di tutti al progresso economico e scaricando l'idea della concorrenza fra le nazioni.


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Heiner Flassbeck - La crisi attuale è figlia di Hartz IV (prima parte)

Dopo il congresso della SPD, Der Spiegel ha lodato le riforme Hartz definendole una "benedizione" per la Germania. Il grande economista Heiner Flassbeck capovolge questa narrazione filo-governativa della cosiddetta "stampa di qualità" e propone un'analisi molto interessante: la recessione attuale è figlia di Hartz IV, perché se riduci intenzionalmente i salari per pompare l'export allora devi anche prendere in considerazione il fatto che prima o poi questo comportamento scorretto ti si ritorcerà contro. Ne scrive Heiner Flassbeck su Flassbeck Economics


Hartz IV è stato una "benedizione", titolava Der Spiegel qualche giorno fa, intevistando un professore di economia dell'Università di Ratisbona che lavora anche per lo IAB di Norimberga (Institut für Arbeitsmarkt- und Berufsforschung) (...).

Quando si tratta di fare una valutazione globale e politicamente rilevante degli effetti di Hartz IV, tramite la cosiddetta efficienza del matching fra domanda e offerta di lavoro, bisogna sapere che si tratta senza dubbio di una procedura problematica. Come tutte le analisi di questo tipo, infatti, si basa sul presupposto che sia sempre valida una clausola ceteris-paribus: semplicemente si presume che, a parte le riforme Hartz, nel periodo di indagine non sia accaduto nulla di importante. Ciò tuttavia trascura sin dall'inizio il fatto che le riforme Hartz hanno notevolmente rafforzato una tendenza che era già in atto sin dalla fine degli anni '90 e che in Germania ha comportato una crescita dei salari molto inferiore rispetto a quanto sarebbe stato richiesto dallo sviluppo della produttività. All'epoca anche i sindacati, che nel 1999 avevano sottoscritto questo corso nell'ambito di un'alleanza per il lavoro, volevano "utilizzare la produttività per aumentare l'occupazione" (qui una valutazione data all'epoca). Se si vuole investigare empiricamente una misura come Hartz IV, non si possono e non si devono separare gli effetti che derivano dalla riforma in quanto tale, dagli effetti che provengono dal quadro complessivo in cui era inquadrato Hartz IV.

Il motivo per cui la tesi di Hartz IV come "benedizione" è lontana dalla realtà, può essere facilmente illustrato se si fa ciò che gli economisti dovrebbero effettivamente fare: includere nell'analisi tutti gli effetti - a livello nazionale e internazionale - innescati o rafforzati da un tale cambiamento istituzionale della portata di Hartz IV. Gli economisti tedeschi, tuttavia, nei loro studi (o nelle interviste) non evidenziano mai alcun effetto internazionale. Ciò tuttavia in un'economia globale fortemente interconnessa non può essere mai giustificato, ma in un'unione monetaria come quella che abbiamo in Europa da vent'anni, è senza dubbio un elemento di negligenza.

Se qualcuno nel 1995 mi avesse chiesto come sarebbe andato il tentativo della Germania di ridurre i suoi salari nell'ambito dell'eurozona (o aumentarli meno della crescita della produttività), la risposta sarebbe stata molto semplice. Avrei detto che se gli altri paesi avessero accettato il dumping salariale tedesco senza contromisure o addirittura avessero aumentato i loro salari più di quanto fosse stato giustificato dalla loro rispettiva produttività, la Germania avrebbe senza senza dubbio sperimentato un boom delle esportazioni e uno sviluppo economico eccezionalmente buono. Ma avrei anche detto che una tale politica nel lungo periodo avrebbe portato alla distruzione dell'unione monetaria e avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per la Germania.

Per comprendere a fondo la portata di Hartz IV, bisogna inquadrarlo nella costellazione complessiva che nell'ambito della definizione dei salari era presente in Germania e in Europa all'epoca. Hartz IV è stato solo l'ultimo passaggio lungo il percorso di una politica economica volta a contenere i salari mantenendoli al di sotto di quella che chiamiamo la regola d'oro nella negoziazione dei salari: la crescita che deriva dall'andamento della produttività più il tasso di inflazione fissato politicamente. Hartz IV ha notevolmente indebolito il potere contrattuale dei sindacati in quanto la disponibilità dei lavoratori a battersi per ottenere salari più alti è diminuita a causa della minaccia di dover scendere rapidamente al livello della sicurezza sociale di base nel caso in cui fossero diventati disoccupati. Il singolo lavoratore, infatti, ritiene semplicemente che la sua lotta per avere un salario più alto gli si possa rapidamente ritorcere contro.

Le conseguenze dell'Agenda

Il problema principale nell'analisi scientifica delle riforme del mercato del lavoro attuate dai rosso-verdi dopo il 2000 risiede nell'orientamento unilaterale dell'approccio economico. Molti economisti in Germania, infatti, fanno ricorso ad una semplice argomentazione con la quale sin dall'inizio dell'unione monetaria difendono la politica tedesca: se, come è accaduto in Germania ai tempi dell'Agenda 2010 e con l'aiuto dell'Agenda 2010, è possibile imporre una riduzione (relativa) dei salari (rispetto all'estero) e quindi 20 anni di maggiore occupazione, meno disoccupazione e una forte posizione all'interno dell'UE, allora questa politica tedesca deve essere davvero giusta.

Questa semplice narrativa sembra giustificare l'Agenda 2010 e i media tedeschi continuano a farlo acriticamente. Anche se alcuni membri della SPD nella nuova leadership del partito sembrano aver capito che occorre correggere urgentemente i gravi errori dell'Agenda. Ma la crucialità della dimensione europea anche per loro è irrilevante. Con la CDU, che resta il più grande sostenitore dell'Agenda 2010, non ci si può certo aspettare che nel governo federale vi sia anche una sola voce in grado di rielaborare questa storia.

In un tale quadro molte analisi economiche risentono del fatto che partono dalle condizioni tipiche di un'economia relativamente chiusa e collegata al resto del mondo grazie ad un sistema di tassi di cambio flessibili. La Germania, però, sin dall'inizio dell'esperimento di riduzione dei salari, era un'economia relativamente aperta e nel corso degli anni e a causa della moderazione salariale è diventata una forma estrema di economia aperta. La Germania è anche membro di una grande unione monetaria, e quindi nel commercio estero ha operato in condizioni che sono diametralmente opposte rispetto al modello dei tassi di cambio flessibili. Le analisi che non mettono al primo posto questo aspetto non possono pertanto aggiungere alcuna  seria conoscenza.

Ma cosa è successo esattamente in realtà? Nonostante un aumento della produttività relativamente normale, l'aumento dei salari reali tedeschi nel primo decennio del secolo è stato vicino allo zero. A causa del deliberato contenimento dei salari orchestrato politicamente, le aziende tedesche hanno avuto sempre maggiori possibilità di sottrarre quote di mercato ai concorrenti esteri riducendo i prezzi (ma anche in mercati terzi, non solo all'interno dell'unione monetaria), oppure di conseguire profitti significativamente più alti con dei prezzi invariati rispetto alle aziende dei paesi dell'unione monetaria con andamenti salariali "normali".

In termini di export, la Germania ha quindi fatto molto meglio di tutti gli altri partner europei, come mostra la Figura 1 con l'esempio della Francia. Nel 2006 e nel 2007 e dopo la crisi finanziaria, le esportazioni tedesche sono letteralmente esplose. La Germania è stata in grado di mantenere la sua quota di mercato globale nonostante la concorrenza crescente della Cina, mentre Italia e Francia sono rimaste molto indietro. La quota delle esportazioni sul PIL in Germania è aumentata drammaticamente ed è ora a quasi il 50 %.


Come mostrato nella Figura 2, tuttavia il prezzo da pagare per la moderazione salariale è stata una debole domanda interna, perché, come prevedibile, le famiglie tedesche e i privati hanno reagito ad una prospettiva di reddito significativamente deteriorata limitando i loro consumi. I consumi privati ​​sono rimasti estremamente deboli per un lungo periodo e si sono adattati quasi perfettamente alla stagnazione dei salari reali orari.


E ciò ha comportato uno sviluppo economico separato raramente visto nella storia. Mentre le esportazioni sono decollate, la domanda interna è rimasta ferma e ha iniziato a riprendersi solo dopo il 2010. E' cresciuta all'incirca come in Francia, e ciò significa che il divario in termini di livello della domanda interna tra i due paesi resta ampio 



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Se si confronta la domanda interna ed esterna dal 1991 in poi (Figura 4), è facile vedere quanto sia grande il divario che è emerso fra la domanda estera tedesca e quella della Francia, in rapporto alla domanda interna tedesca.


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