Visualizzazione post con etichetta Makroskop.de. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Makroskop.de. Mostra tutti i post

venerdì 19 febbraio 2021

Heiner Flassbeck - Buona fortuna, Mario!

"Non illudiamoci, con questa Germania non è possibile fare l'Europa. Come potrebbe il primo ministro italiano riuscire a fare quello che il presidente della BCE non è riuscito a fare, cioè lanciare una discussione calma e razionale sulla politica economica... in cui i tedeschi capiscano da subito che non se la caveranno con i loro soliti vecchi luoghi comuni neoliberisti e monetaristi e le loro ambizioni mercantiliste. Tutti quelli che hanno ancora la testa sul collo non possono che tifare per Mario Draghi", scrive il grande economista tedesco Heiner Flassbeck. Per Flassbeck il potenziale politico di Mario Draghi in Europa è enorme, ma anche le resistenze che incontrerà sul suo percorso saranno molto forti, soprattutto nel nord del continente. Ne scrive Heiner Flassbeck su Makroskop.de

Pover'uomo, ho pensato immediatamente quando ho sentito che Mario Draghi aveva accettato il mandato da Presidente del consiglio per formare il nuovo governo italiano. Ma riflettendo, invece, mi sono poi reso conto che Mario, che conosco da più di 20 anni, e dal mio punto di vista può anche essere povero - e forse anche dal suo - probabilmente per l'Italia rappresenta invece un'opportunità unica.

Quale paese può dire di avere un primo ministro che non solo ha ricevuto un ampio sostegno dai partiti rappresentati in Parlamento, sia di destra che di sinistra, ma che ha anche collezionato un'esperienza unica sia in campo interno che internazionale. Mario Draghi sin dai primi anni '90 ha fatto parte (e si è assunto la responsabilità) di tutti i principali organismi che si occupano di economia globale, europea ed italiana. Ha assunto la più importante posizione in materia di politica economica all'interno dell'eurozona in un momento in cui l'Unione Monetaria (UEM) era sull'orlo del collasso, offrendole un appiglio in una fase cruciale.

Nulla di tutto ciò, naturalmente, può garantire che sarà anche in grado di partecipare agli intrighi e ai complotti tipici della politica, e di portare a termine e con successo anche questo incarico. Ma il potenziale della sua ambizione politica è enorme, data la sua vasta esperienza e conoscenza sulle questioni cruciali. E in ogni caso è molto più grande di quello di qualsiasi altro politico a cui è stato permesso di prendere il timone a Roma, almeno negli ultimi trent'anni.



L'Italia e l'unione monetaria

Chiunque abbia avuto a che fare con l'Italia, al di là dei soliti pregiudizi molto diffusi - soprattutto in Germania -, saprà bene che la questione italiana, il problema italiano, diciamo così, è un problema essenzialmente legato all'ingresso dell'Italia nell'unione monetaria. A causa della particolare posizione di partenza dell'Italia, che ho descritto in dettaglio nel numero tematico di MAKROSKOP - "Debito ed espiazione", sin dagli esordi dell'euro, il paese è sempre stato sulla difensiva. La ragione più semplice è che l'Italia e gli altri paesi membri dell'eurozona morivano dalla voglia di rinunciare alla loro "sovranità monetaria" (che in realtà non avevano mai posseduto) e per farlo erano pronti a ingoiare un certo numero di rospi (tedeschi) molto grassi.

La speranza di poter avere, grazie ad una grande area monetaria europea, una politica economica che, come negli Stati Uniti, sarebbe stata orientata soprattutto alle esigenze interne di un'economia grande e relativamente chiusa e di conseguenza, avrebbe messo la domanda interna e l'occupazione al centro degli  sforzi della banca centrale, all'inizio non era affatto infondata. Alla fine però, la Bundesbank, da sempre concentrata sulla stabilizzazione dei prezzi, era stata sostituita da un'istituzione che, per essere sicuri, nella interpretazione letterale dei trattati (e naturalmente su veemente insistenza tedesca) era ancora più votata al contenimento dell'inflazione come suo unico obiettivo centrale. Ma chiunque abbia preso seriamente in considerazione le "soluzioni" europee, all'epoca sapeva bene che in questa Europa, appunto, le pietanze non potevano essere "mangiate così calde come venivano cucinate".

Anche fra i firmatari del trattato di Maastricht, infatti, nessuno poteva immaginare che subito dopo l'avvio dell'unione monetaria il paese più grande avrebbe cominciato a "olandesizzare" se stesso, cioè a vivere a spese dei suoi vicini, come aveva già fatto "con un certo successo" l'Olanda negli anni '80 grazie alla sua politica di dumping salariale. Che a farlo invece sia stato proprio un governo tedesco rosso-verde, tra tutti, un governo inciampato su questa "via d'uscita" a causa della sua completa incompetenza economica, è stata una coincidenza. Ma il fatto che in questo modo abbia bloccato lo sviluppo economico di tutta l'Europa, può essere considerata un'esperienza davvero unica in Europa.

La Germania, tra le altre cose, nonostante i suoi successi alquanto superficiali, ha rovinato per sempre il proprio sistema economico di successo, che dagli anni '70 era diventato l'ancora di tutte le alleanze monetarie europee, in quanto di fatto ha reso impossibile al paese raggiungere un elevato livello di occupazione senza un surplus delle partite correnti.



Per l'Italia questo processo è stato senza dubbio fatale, perché firmando il Trattato di Maastricht si è messa addosso un vestito fiscale che sarebbe stato sopportabile solo se l'Italia avesse avuto un grande successo nelle esportazioni e/o se la crescita fosse stata spinta dagli investimenti delle imprese in un'Europa complessivamente fiorente. La Germania, tuttavia, con la sua condotta ha bloccato il primo e il secondo percorso perché la sua politica di dumping salariale ha di fatto sbarrato la strada dell'export agli altri paesi dell'unione monetaria e allo stesso tempo ha soffocato la propria domanda interna e quella europea. Tutti gli altri paesi dell'unione monetaria, infatti, per non affondare in maniera irrimediabile nei loro mercati di esportazione, hanno dovuto seguire questo modello insensato.


Il margine di manovra di Mario Draghi e il suo più grande avversario

Mario Draghi lo sa bene, e già solo per questo è fondamentalmente diverso da praticamente tutti gli altri politici europei. Sa che ha bisogno di una politica fiscale espansiva (senza condizionalità europea) per far uscire l'economia italiana dalla profonda depressione in cui si trova. E sa che c'è bisogno di un cambiamento nell'equilibrio competitivo in Europa, soprattutto se Italia e Francia nel lungo periodo vorranno avere qualche speranza di successo. Sa anche che ogni suo passo sarà sotto esame e che da un momento all'altro nel nord del continente potrebbe scoppiare una tempesta che lo spazzerebbe via anche politicamente.

Il grande vantaggio di Draghi è la sua profonda conoscenza delle istituzioni. Non combatterà sul fronte sbagliato. Dopo tutto, data la sua lunga esperienza in un numero infinito di commissioni, sa bene che il suo avversario più importante non è a Bruxelles, ma a Berlino. E' soprattutto è qui che si differenzia dagli ingenui di destra e di sinistra che siedono nelle loro stanzette e scrivono e blaterano sull'Europa neoliberista e sulla Commissione europea, senza però aver mai visto un'istituzione europea o internazionale da vicino e i veri equilibri di potere al loro interno.

Il più grande avversario di Draghi sarà il "nocciolo duro della CDU/CSU", che per il dopo crisi ha già in mente la reimposizione delle vecchie regole sul debito e pensa a delle condizioni dure da imporre a chiunque voglia prendere in prestito anche un solo euro da Bruxelles.



Draghi sa anche fin troppo bene, dopo aver trascorso molto tempo a Francoforte, che i sentimenti profusi dagli oppositori dichiarati della BCE in Germania (compresa la Corte costituzionale federale con la sua assurda sentenza sulla proporzionalità della politica monetaria europea), indirizzati a qualsiasi cosa assomigli a un trattamento equo dei paesi europei da parte della BCE, per l'Italia saranno particolarmente problematici. L'Italia potrà sempre trovarsi nella posizione di dover contare sul sostegno diretto o indiretto della BCE, visto l'umore assolutamente irrazionale dei "mercati". Di conseguenza, dovrà fare molta attenzione quando discuteterà la questione, alla fine inevitabile, cioè se e in che modo il mandato della BCE potrà essere adattato ai tempi moderni, anche dopo il Coronavirus.

Draghi ha bisogno di amici

Chiunque debba affrontare un avversario forte avrà bisogno di amici forti. Il nuovo presidente del consiglio italiano non porterà a termine la sua impresa, se non riuscirà a fare quello in cui tutti coloro che nell'unione monetaria hanno cercato di cambiare qualcosa finora hanno fallito. Ha bisogno di una forte coalizione di paesi che siano pronti a sfidare apertamente e dichiaratamente il dominio e la ristrettezza di vedute della Germania. Proprio in questi giorni possiamo assistere al modo in cui il presidente bavarese, il ministro federale della sanità e il ministro federale dell'interno sul tema dell'apertura delle frontiere si rifiutino di accettare qualsiasi avvertimento da Bruxelles, e come il presidente tedesco della Commissione, invece di battere i pugni sul tavolo, preferisca restare nobilmente in silenzio.

Non illudiamoci, con questa Germania non è possibile fare l'Europa. Come potrebbe il primo ministro italiano riuscire a fare quello che il presidente della BCE non è riuscito a fare, cioè lanciare una discussione calma e razionale sulla politica economica in questa grande e autoreferenziale Europa? Una discussione in cui i tedeschi si rendano conto sin da subito che questa volta non se la caveranno con i loro soliti vecchi luoghi comuni neoliberisti e monetaristi e le loro ambizioni mercantiliste. Tutti quelli che hanno ancora la testa sul collo non possono che tifare per Mario Draghi. Da parte mia, non posso che augurargli con tutto il cuore buona fortuna!




lunedì 8 febbraio 2021

Nella trappola dei minijob

"Se mai fosse stata necessaria una prova ulteriore del fatto che i minijob sono dei lavori di seconda categoria che nella loro forma attuale devono essere aboliti, la pandemia ce l'ha fornita", scrive il sociologo tedesco Markus Kruesemman. Una riflessione molto interessante sulla trappola dei minijob ai tempi della pandemia, da Makroskop.de



Le misure prese nel corso del 2020 per combattere la pandemia da Coronavirus hanno lasciato il segno sul mercato del lavoro. Per la prima volta dopo anni di costante crescita, l'anno scorso il numero delle persone occupate è sceso. Contemporaneamente, il numero di disoccupati e inoccupati è aumentato. Il fatto che le cose fino ad ora non siano ancora peggiorate, probabilmente è dovuto al regime della cassa integrazione (Kurzarbeitergeld).

Se grazie a questa forma di proseguimento parziale del pagamento dei salari è stato steso un ombrello protettivo sui dipendenti soggetti ai contributi sociali, per molto tempo invece i lavoratori autonomi sono stati lasciati fuori e al freddo ad aspettare. Ma anche i cosiddetti impieghi marginali sono stati colpiti in maniera dura.



Basta un lockdown e i mini-job spariscono

"Gli occupati con un contratto di mini-job sono i veri perdenti della recessione indotta dal coronavirus", è questa la conclusione a cui giunge uno studio dell'Istituto tedesco per la ricerca economica (DIW) del novembre 2020. Come mostrano i dati, infatti, nel giugno 2020 c'erano circa 850.000 minijob in meno, vale a dire il 12% in meno rispetto all'anno precedente. Nello stesso periodo, l'occupazione soggetta a contributi sociali obbligatori si è ridotta però solo dello 0,2%. Le persone piu' colpite sono state proprio quelle che avevano un mini-job come lavoro principale. Il 45% degli occupati che nel 2019 aveva esclusivamente un minijob, nella primavera del 2020 non aveva più un lavoro. Per i mini-jobber che svolgevano il lavoro come impiego secondario, questa proporzione invece era "solo" del 18%.


E queste sono state le conseguenze solo del primo blocco di marzo/aprile 2020. Si sa ancora poco dell'impatto che avrà il blocco invernale. Ma probabilmente è corretto ipotizzare che la situazione dei mini-jobber, che si era un po' ripresa in autunno, tornerà a peggiorare. Gli ultimi dati estrapolati dall'Agenzia federale del lavoro mostrano già una tendenza negativa in corso nel novembre 2020.

In questo contesto, le dichiarazioni ottimiste su di un mercato del lavoro che in questa fase di crisi sarebbe robusto, e che avrebbe dimostrato di essere a prova di crisi, sembrano alquanto fuori luogo. Mostrano solo che i minijobber non contano. Non vengono nemmeno presi in considerazione dalle statistiche sulla disoccupazione, e si ha l'impressione che vengano ignorati o semplicemente dimenticati anche ora che siamo in crisi.

Male e peggio

Nessun dubbio sul fatto che anche per i lavoratori dipendenti che hanno un lavoro soggetto a contributi sociali, i tagli subiti in molti casi sono stati massicci. Grazie allo schema del Kurzarbeit, tuttavia, in molti almeno sono stati protetti dalla disoccupazione, anche se la riduzione dello stipendio per tanti lavoratori a basso reddito significa dover affrontare gravi problemi finanziari. E quelli che sono diventati disoccupati, nella maggior parte dei casi, almeno hanno diritto al sussidio di disoccupazione (ALG 1), in modo da potersi risparmiare l'umiliante viaggio al centro per l'impiego, sempre che il loro salario sia abbastanza alto da ricevere un sussidio di disoccupazione sopra il livello Hartz IV.

In confronto, i minijob sono "un sottomondo". Indennità di cassa integrazione? Niente del genere. Sussidio di disoccupazione? Neanche per sogno. È proprio qui che l'esenzione dalle assicurazioni sociali obbligatorie si fa sentire. L'equazione apparentemente attraente secondo la quale "il guadagno lordo corrisponde al salario netto", con la quale i datori di lavoro amano pubblicizzare i minijob, in tempi di crisi non funziona più. Chi viene mandato a casa e improvvisamente riceve solo uno zero lordo, non avrà niente di netto in tasca.

E solo come un inciso, per coloro che sono stati in grado di mantenere il loro minijob, ma ora hanno bambini in età scolare seduti a casa: poiché un'occupazione marginale non garantisce la copertura assicurativa sanitaria, i minijobber non hanno diritto all'indennità di malattia per i bambini, che recentemente è stata aumentata a un massimo di 20 giorni per bambino.

Un altro fattore che contribuisce alla crisi dei minijobs, naturalmente, è il fatto che il lavoro svolto dai minijobber non è generalmente adatto ad essere svolto in home-office. Ancora più grave, però, è il fatto che i minijobs si concentrano in quei settori che sono stati particolarmente colpiti dalle misure di lockdown.

I minijob sono una trappola occupazionale

Il ricorso allo strumento della flessibilizzazione del lavoro e dei minijob come strumento per il taglio dei salari nei settori particolarmente colpiti dal Coronavirus è un aspetto che da solo non può spiegare la crisi dei minijob. In realtà, non fa altro che esacerbare un problema fondamentale, la cui causa è strutturale: i minijob sono una forma di occupazione precaria e soggetta alle crisi. Una occupazione marginale non è adatta a garantire il sostentamento, per non parlare di una pensione in vecchiaia, e non è nemmeno un ponte verso un'occupazione regolare. Invece di affrontare la tanto attesa ri-regolamentazione della politica del mercato del lavoro, la coalizione di governo preferisce discutere sull'aumento da 450 a 600 euro della soglia massima di guadagno.

Se mai fosse stata necessaria un'ulteriore giustificazione in merito al fatto che i mini-job sono dei lavori di seconda categoria che nella loro forma attuale devono essere aboliti, la pandemia ce l'ha fornita.






martedì 5 gennaio 2021

Andreas Nölke - Vi spiego perché gli attacchi a Ungheria e Polonia sono pretestuosi

"Se i tedeschi si mettono anche a dare giudizi sulla politica e la giustizia nell'Europa orientale, allora l'accusa di imperialismo risulta alquanto ovvia" scrive il grande intellettuale tedesco Andreas Nölke in merito al duro scontro sul rispetto dello Stato di diritto in Ungheria e Polonia. Nelle settimane che hanno preceduto il fragile compromesso di dicembre, dalla politica e dai media tedeschi sono arrivati degli attacchi molto duri nei confronti dei due paesi dell'Europa orientale, attacchi per lo piu' pretestuosi, secondo l'autore, che servirebbero piu' che altro a coprire le ambizioni egemoniche e geopolitiche nell'Europa dell'est. Per Andreas Nölke a Bruxelles le leggi si interpretano per i governi amici, mentre si applicano per quelli ostili e sovranisti, come nel caso di Orban e Morawiecki. Un commento molto interessante del grande Andreas Nölke da Makroskop.de



Chi nei media e nella politica accusa la condotta di Polonia e Ungheria sullo stato di diritto ritiene di avere dalla sua la legittimazione democratica. Un errore.

Polonia e Ungheria per settimane sono state costantemente sotto il fuoco dei media e della politica a causa del blocco al bilancio UE e del relativo fondo post-corona. Quasi tutti i principali mezzi stampa o televisivi hanno condannato la posizione dei due governi dell'Europa dell'est, come del resto hanno fatto il governo tedesco e l'opposizione.

Alcuni rappresentanti dei socialdemocratici si sono addirittura esposti in maniera particolarmente pronunciata. Katarina Barley, vicepresidente del Parlamento europeo, ad esempio, in relazione al primo ministro ungherese ha dichiarato a Deutschlandfunk: "dobbiamo affamarlo (Orbán) dal punto di vista finanziario" arrivando a sostenere che "regimi come quello di Orbán e quello di Kaczynski, [...] prima di tutto pensano a mettere soldi nelle loro tasche".

Heiko Maas, che in qualità di Ministro degli Esteri dell'attuale presidenza del Consiglio europeo dovrebbe, dopo tutto, agire come farebbe un "onesto mediatore", ha affermato, secondo quanto riferito dal Tagesschau, in merito al meccanismo proposto in materia di stato di diritto:

"Avremo quindi uno strumento aggiuntivo che sarà molto doloroso per paesi come Polonia e Ungheria".

Andreas Noelke

Protagonisti sgradevoli, ma comunque

Una certa mancanza di simpatia per i governi di Polonia e Ungheria è più che legittima. Le politiche sociali del governo ultra-conservatore polacco sono ripugnanti, dalla posizione sull'aborto fino alla discriminazione contro la comunità LGBT. E il governo ungherese non è certo da meno, anzi è famoso per i suoi favoritismi nei confronti di amici e parenti e per i generosi sussidi alle imprese nazionali e transnazionali a scapito delle fasce più povere della popolazione.


Ora, naturalmente, si potrebbero indicare anche alcuni aspetti progressisti di questi governi, come la "definanziarizzazione" in Ungheria o le politiche ridistributive sotto l'egida del PiS (Polonia), dagli assegni familiari al salario minimo, soprattutto in considerazione del forte aumento delle disuguaglianze causato dalle politiche dei precedenti governi liberali.

Ma in questa discussione né la simpatia politica, né il disgusto politico dovrebbero essere il fattore decisivo; si tratta piuttosto di questioni fondamentali per la democrazia, della capacità dell'UE di funzionare e della gestione della democrazia negli Stati membri - e del posizionamento dei nostri media e della politica su questi temi.

Chi sta bloccando chi?

Un argomento comune nei nostri media - e fra i nostri rappresentanti politici - è l'affermazione secondo la quale Polonia e Ungheria starebbero bloccando il bilancio dell'UE e (peggio ancora) il fondo per il post-Corona. E questa condotta li renderebbe colpevoli delle sofferenze nei paesi dell'Europa del sud, particolarmente colpiti dalla pandemia.

Ma questa ovviamente è una sciocchezza. Fin dall'inizio, i governi di Polonia e Ungheria non hanno fatto segreto della loro determinazione nell'impedire qualsiasi accordo che li mettesse sotto pressione su posizioni controverse in materia di Stato di diritto. Il compromesso sul bilancio al vertice dei capi di governo dell'estate scorsa è stato possibile solo dopo che la Cancelliera Merkel (presumibilmente) ha dato garanzie in tal senso.

Il recente confronto è nato chiaramente all'interno del Parlamento europeo, dove nei negoziati sul bilancio UE la maggioranza ha insistito per un significativo inasprimento delle regole in materia di possibili violazioni dello Stato di diritto. A tale proposito è assurdo, pertanto, scaricare la responsabilità unilateralmente sui governi di Polonia e Ungheria. Entrambe le parti ne sono responsabili.


Ancora più pericolose sono le attuali proposte (per esempio quelle dell'unionista Jaques Delors Institute) finalizzate a superare la situazione di stallo lasciando la gestione del Fondo Corona a livello intergovernativo, superando quindi le istituzioni dell'UE e aggirando in questo modo il veto di Polonia e Ungheria. Anche se ciò in linea di principio fosse giuridicamente concepibile, non farebbe altro che aggravare ulteriormente il conflitto.

Dopotutto il Corona-Fund non è una di quelle aree del diritto europeo in cui un "gruppo di volenterosi" può unire le proprie forze secondo le regole dell'UE per approfondire l'integrazione, mentre altri Stati membri non sono (ancora) disposti a farlo.

Polonia e Ungheria giustamente considererebbero una tale mossa sul Recovery Fund come una sorta di dichiarazione di guerra. In tal caso, farebbero certamente dei passi ulteriori per bloccare l'UE - uno Stato membro determinato, del resto, ha molte opzioni, soprattutto in quegli ambiti in cui viene ancora richiesta l'unanimità intergovernativa - e la spirale diell'escalation continuerebbe, con danni incalcolabili per l'UE, già indebolita da molte crisi.

Chi ha la legittimità democratica?

Chi, nei media tedeschi e nella politica tedesca, condanna la posizione di Polonia e Ungheria, naturalmente presuppone di avere dalla sua parte la legittimazione democratica. Ma le cose non stanno cosi'.

Nello scontro in atto la legittimazione democratica del Parlamento europeo si contrappone a quella dei governi di Polonia e Ungheria, che a loro volta possono contare su ampie maggioranze nei rispettivi parlamenti nazionali. Il Consiglio dei ministri dell'UE è diviso - e in ogni caso ha una legittimazione molto più indiretta rispetto a queste due parti, per non parlare della Commissione UE.

In questo confronto, i governi di Polonia e Ungheria (per tutti i limiti della democrazia ungherese, vedi sotto) possono chiaramente rivendicare un grado di legittimità democratica superiore rispetto a quello del Parlamento europeo. Il Parlamento europeo in un simile confronto manca semplicemente di una legittimazione democratica di base rispetto ai parlamenti nazionali.

Il deficit di legittimità del PE dipende da moltissimi fattori, ad esempio lo squilibrio fra il peso del voto degli elettori (un confronto Germania-Lussemburgo è di ca. 1:10, vale a dire che un voto del Lussemburgo conta fino a 10 volte un voto tedesco), l'assenza di campagne elettorali paneuropee (gli scienziati politici considerano le elezioni europee come "elezioni nazionali di secondo ordine", che non riguardano tanto un voto sulle politiche europee, quanto un voto sui partiti nazionali), la bassa affluenza alle urne a livello europeo (in Polonia/Ungheria alle ultime europee è stata di ca. il 45%, contro piu' del 60% delle elezioni parlamentari nazionali), oppure la mancanza di partecipazione pubblica ai dibattiti del Parlamento europeo (rispetto a quelli dei parlamenti nazionali).


Non c'è quindi ancora - almeno dal punto di vista di una prospettiva repubblicana di legittimità democratica - nessuna alternativa ai parlamenti nazionali, almeno quando si tratta di questioni veramente importanti. E la questione del rispetto dello Stato di diritto negli Stati membri dell'UE è senza dubbio una di queste. Dobbiamo riconoscere ai governi di Polonia e Ungheria che nei confronti del Parlamento europeo hanno ancora dalla loro parte la piena legittimazione democratica, anche se siamo molto insoddisfatti in merito allo sviluppo della democrazia e dello Stato di diritto in questi paesi.

Tutti coloro che hanno un rapporto molto rilassato con tali questioni fondamentali in materia di sovranità democratica, dovrebbero anche considerare cosa accadrebbe al nostro paese se il Parlamento europeo mettesse in discussione la legittimità del nostro sistema giudiziario e chiedesse il blocco degli stanziamenti finanziati dall'UE. Le obiezioni (molto caute) della Corte costituzionale federale ai programmi di acquisto della BCE della scorsa estate e i conseguenti intralci sarebbero solo un mite assaggio di una rivolta contro l'UE e il suo governo, che poi scoppierebbero nel nostro Paese.

Polonia = Ungheria?

Un altro aspetto molto problematico nella discussione mediatica e nella politica tedesca è l'equazione fra Polonia e Ungheria, come nel caso delle affermazioni di Barley e Maas. Questa equazione all'inizio potrebbe anche essere comprensibile, dato che entrambi i paesi sono governati da partiti comunemente definiti come "populisti di destra". Tuttavia è fatale quando si parla di democrazia e di Stato di diritto - in questo caso però aspetti fondamentali. Polonia e Ungheria, tuttavia, sotto questo aspetto si differenziano notevolmente.


Il lungo governo di Fidesz in Ungheria, in effetti, ha portato ad una serie di limitazioni per la democrazia - anche se dovremmo essere cauti sui criteri di giudizio, dato il dominio incontrastato della CSU in Baviera, che ormai dura da diversi decenni.

Per conoscere i misfatti del governo ungherese è molto istruttiva una visita al "Verfassungsblog", misfatti che vanno dalle pressioni sulle università, sulle ONG e sulla stampa, fino alla limitazione dei diritti parlamentari, all'indipendenza dei tribunali amministrativi e all'assegnazione dei casi alla Corte costituzionale.

La democrazia ungherese, tuttavia, sembra ancora funzionare, come abbiamo visto nelle elezioni locali del 2019, quando l'opposizione a Budapest e in altre grandi città si è ripresa il potere strappandolo a Fidesz. In un paese governato in modo autocratico, questo non sarebbe successo.

In Polonia, invece, parlare di una forma di governo anche lontanamente autocratica è del tutto pretestuoso. Il paese gode di una pronunciata libertà di stampa, il PiS al potere deve fare i conti in maniera permanente con le sconfitte elettorali, e anche il funzionamento della Corte costituzionale polacca non viene fondamentalmente messo in discussione dal PiS - almeno quando vengono applicati standard equi (vedi sotto).

E una corte costituzionale forte resta in ogni caso una pietra angolare della democrazia, ma solo in un'ottica liberale. In una concezione repubblicana della democrazia - come rappresentata in Germania da Dirk Jörke o Ingeborg Maus, per esempio - la sovranità democratica del popolo (incarnata in particolare dai parlamenti nazionali) assume un ruolo molto più importante.

Ancora più astrusa, però, è l'equazione fra Polonia e Ungheria in termini di cleptocrazia, fatta in particolare da Katarina Barley. Ci sono dati credibili che mettono a confronto i paesi, compilate dall'agenzia anticorruzione dell'UE, l'OLAF. L'Ungheria nel 2018 assume infatti in questa lista un inglorioso ruolo guida, con la percentuale di gran lunga più alta di fondi il cui utilizzo viene messo in discussione dall'OLAF. La Polonia, invece, in questa statistica è tra i Paesi che fanno un uso più corretto dei fondi, con un risultato tra l'altro migliore rispetto a quello della Germania.

È perfettamente legittimo che l'Unione europea verifichi la correttezza in merito all'assegnazione dei fondi e faccia ricorso contro i destinatari che si sono comportati in modo scorretto (come l'Ungheria). Ma ciò è già previsto e non è affatto l'oggetto della attuale controversia. Quest'ultima, infatti, riguarda l'assegnazione dei fondi sulla base di una vaga clausola in merito allo Stato di diritto, la cui interpretazione sarà poi decisa dalle autorità di Bruxelles. Dovrebbe essere ormai chiaro che Polonia e Ungheria siano comprensibilmente preoccupate per questa interpretazione.

Stiamo misurando con lo stesso metro?

Le preoccupazioni da parte di Ungheria e soprattutto Polonia di non essere trattate equamente dall'UE non sono infondate. Sono ovviamente legate al fatto che questi due governi sono retti da partiti populisti di destra. Altri paesi vengono trattati con molta più clemenza. Che dire di Malta e della Slovacchia, ad esempio, dove i governi sono stati coinvolti in omicidi politici? E la Bulgaria e la Romania, con la loro corruzione endemica? Chi difende lo Stato di diritto quando si parla di questi paesi?

L'applicazione disomogena disomogenea degli standard diventa particolarmente evidente quando ci si concentra sulla nomina dei giudici costituzionali nel caso polacco, vale a dire il nucleo della controversia tra il PiS e i suoi critici.

Prima di tutto dobbiamo notare che nell'UE non esiste uno standard comune per la nomina dei giudici costituzionali. Al contrario, la pratica è molto eterogenea, per non parlare del fatto che in alcuni paesi UE non esistono nemmeno la corte costituzionale.

Nel caso polacco, invece, si critica in particolar modo l'influenza della politica (più precisamente: la maggioranza parlamentare guidata dal PiS) in merito alla nomina dei giudici costituzionali. Ora bisogna ammettere che anche noi in Germania dovremmo essere un po' cauti quando si parla di criticare l'influenza della politica nella selezione dei giudici costituzionali, perché tutti i nostri giudici costituzionali sono nominati dalla politica (Bundesrat e Bundestag) - i quali vengono selezionati secondo una procedura molto poco trasparente. Molti giudici costituzionali in passato erano stati anche dei politici di professione legati al governo, ad esempio l'attuale presidente Stephan Harbarth, un ex-parlamentare della CDU di lunga data - ecco perché molti polacchi non capiscono le critiche tedesche.

Dopo tutto, per l'elezione dei giudici costituzionali in Germania viene richiesta dalla legge una maggioranza schiacciante dei 2/3 (anche se non con rango costituzionale), in modo che anche l'opposizione possa avere una voce in capitolo, una chiara differenza rispetto alla Polonia - ma anche in molti altri paesi dell'UE spesso è sufficiente una maggioranza semplice, i giudici costituzionali vengono così de facto nominati dal governo (maggioranza) come in Polonia.


Ancora più irritante per i polacchi, ad esempio, sarebbe dare uno sguardo alla Francia: lì il parlamento non ha nessuna voce in capitolo nella nomina dei giudici costituzionali, tre di loro sono nominati dal presidente della Repubblica, tre dal presidente dell'Assemblea nazionale e tre dal presidente del Senato - e se tutti e tre appartengono al partito di governo, l'opposizione ha avuto sfortuna.

L'irritazione di molti polacchi - e soprattutto del loro governo - nei confronti dei "due pesi e delle due misure" europee, tuttavia, non deriva essenzialmente dall'assenza di un "gold standard europeo" nella nomina dei giudici costituzionali, ma dai doppi standard applicati dall'Unione europea e dall'opinione pubblica europea, in rapporto ai diversi governi polacchi.

A tal proposito bisognerebbe notare che il dramma attuale è stato causato dal precedente governo liberale. Nel 2015, infatti, quando il governo già poteva prevedere di perdere le elezioni, ha comunque eletto un terzo dei giudici costituzionali nell'ultima sessione del vecchio parlamento (contrariamente alle norme precedentemente in vigore) - anche se i vecchi giudici in realtà avrebbero dovuto terminare il loro mandato solo dopo l'elezione del nuovo parlamento. Questo tentativo di usurpazione della Corte costituzionale da parte del governo uscente, tuttavia, non ha interessato nessuno dei nostri media e neanche la politica - probabilmente perché è stato fatto da un governo liberale. L'irritazione del governo del PiS per questa disparità di trattamento è facile da capire.

La pressione esterna è controproducente

La ricostruzione delle irritazioni polacche non deve distogliere l'attenzione dal fatto che la sottomissione forzata della Corte costituzionale - e di alcune parti del più ampio apparato giudiziario - alla maggioranza parlamentare guidata dal PiS a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, può essere vista come problematica (anche se meno per gli standard repubblicani che per quelli liberali). E non c'è dubbio che anche in Ungheria ci siano state massicce violazioni delle norme democratiche.

Ma anche l'operato dell'Unione Europea contro questi governi è alquanto problematico. E questo vale non solo per i doppi standard alquanto discutibili, le generalizzazioni polacco-ungheresi, la scarsa legittimità democratica da parte dell'Unione europea e la disputa puerile su chi abbia iniziato per primo a bloccare il fondo post-Corona.

In generale ci si dovrebbe chiedere se il tentativo di imporre la propria idea di democrazia e di stato di diritto dall'esterno attraverso la coercizione in ultima analisi non sia controproducente. Se si guarda agli sviluppi politici interni di entrambi gli Stati negli ultimi anni, si ha l'impressione che questo colpo sia stato decisamente controproducente.

In entrambi i paesi, la pressione esterna dell'UE (e della politica tedesca) tende ad aiutare i governi in carica e a stabilizzare la loro posizione interna grazie alla retorica nazionalista. Nei Paesi appena usciti da decenni di dominazione straniera da parte dell'Unione Sovietica (e nel caso della Polonia anche da secoli di occupazione da parte dei vicini imperialisti), i tentativi di coercizione esterna in materia di politica nazionale vengono visti con particolare scetticismo. Chi dall'estero viene attaccato in maniera generalizzata è quindi più propenso a mostrare solidarietà con il governo in carica, nonostante vi possano essere delle eventuali riserve in merito alle sue politiche.

Meglio lasciar stare la postura imperiale tedesca

Non sono quindi di aiuto: la democrazia e lo stato di diritto - nella misura in cui sono già compromessi - devono essere raggiunti dai polacchi e dagli ungheresi stessi attraverso la lotta (i bavaresi ci sono riusciti a metà con la CSU). Il resto dell'UE farebbe meglio a tacere, anche se è difficile.

Questo vale soprattutto per i media e i politici tedeschi. L'egemonia economica e politica della Germania all'interno dell'UE viene già vista con grande scetticismo non solo nell'Europa meridionale (dopo la crisi dell'Euro). C'è molta preoccupazione anche per il predominio economico tedesco nell'Europa dell'Est, soprattutto a causa della sua dipendenza dalle multinazionali tedesche e dai loro investimenti diretti. Se i tedeschi si mettono a dare giudizi anche sulla politica e la giustizia dell'Europa orientale, l'accusa di imperialismo risulta alquanto ovvia.

E ancora una volta torniamo ai nostri socialdemocratici tedeschi: anche se si rifiutano tutti gli argomenti in favore di un approccio più moderato nei confronti di Polonia e Ungheria, ci si chiede ancora se, dopo quanto è accaduto nella seconda guerra mondiale, sia davvero opportuno che i principali rappresentanti della politica tedesca possano parlare di "doloroso" oppure "affamarli" quando si rivolgono a questi Paesi.

domenica 27 dicembre 2020

Wolfgang Streeck - Il vero obiettivo del Recovery Fund

"La prima cosa da sapere è che il Recovery Fund non ha nulla a che vedere con il Coronavirus, e invece ha molto a che fare con il salvataggio del governo italiano dal signor Salvini" scrive il grande intellettuale tedesco Wolfgang Streeck commentando il recente accordo sul Recovery Fund, e prosegue: "gli imperi dipendono dalla buona gestione delle periferie da parte delle élite centrali. Nell'UE ci si aspetta che le élite periferiche siano decisamente "pro-europee". Una riflessione molto interessante del grande Wolfgang Streeck sul recente compromesso europeo in materia di Recovery Fund. Da Makroskop.de


Dopo due giorni e una notte, per non parlare delle diverse settimane di recriminazioni reciproche e di ricatti, ventisette governi nazionali, la Commissione europea e il Parlamento europeo si sono dichiarati tutti vincitori. Un miracolo?

La prima cosa che bisogna sapere su Bruxelles è che nulla è come sembra, e che tutto può essere presentato nei modi più diversi - a ciascuno la sua "narrazione". Il numero di giocatori e di campi da gioco, inoltre, è enorme e confuso, ed è inserito in un quadro istituzionale chiamato "i trattati", così complicato che nessun estraneo può capirlo. Chi li conosce saprà che sono pieni di opportunità di occultamento, di truffe procedurali, di equivoci evasivi, di finzioni e di scuse - le interpretazioni contraddittorie e i fatti alternativi sono sempre benvenuti.

E oltre a ciò, c'è una profonda e tacita intesa tra i membri di quell'organo altamente esclusivo e segreto, vale a dire il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Secondo tale accordo, infatti, è compito di ciascuno di loro fare in modo che nessuno debba tornare a casa da perdente, dando quindi a tutti la possibilità di non perdere la faccia e di continuare a giocare la partita.

Ne è un esempio il Fondo di solidarietà per la ricostruzione post-Corona (Recovery Fund). La prima cosa da sapere è che non ha nulla a che fare con il Coronavirus, e invece molto a che fare con il salvataggio del governo italiano dal signor Salvini. La seconda cosa da sapere è che non c'entra nulla con la solidarietà europea: ogni paese ottiene qualcosa e nessuno paga nulla perché il fondo è finanziato dal debito e solo dal debito - un'estensione sovranazionale dello stato debitore (debito al posto delle tasse). Inoltre, nessuno sa come questo debito potrà essere ripagato, e a nessuno in fondo importa piu' di tanto, perché il rimborso non inizierà prima di sette anni.

Molto probabilmente sarà rimborsato facendo comunque nuovo debito o attraverso qualche canale misterioso, ad esempio tramite la Banca Centrale Europea. E questo ovviamente sarebbe illegale ai sensi dei Trattati, ma lo stesso probabilmente vale anche per il prestito stesso. Presumibilmente anche tutti i 27 parlamenti nazionali dovrebbero approvare il fondo, ma nessuno si preoccupa di farlo, visto che tutti riceveranno una parte del bottino.

Questo non significa però che in Europa ora prevarranno la pace, l'amicizia e i pancake. Gli imperi dipendono dalla buona gestione delle periferie da parte delle élite centrali. Nell'UE ci si aspetta che le élite periferiche siano decisamente "pro-europee". In particolare, ciò significa che dovranno essere a favore di una "sempre più stretta unione dei popoli d'Europa", gestita dalla Germania e, in misura piu' o meno rilevante anche dalla Francia, tramite le burocrazie di Bruxelles.

La Germania e la Commissione Europea hanno a lungo sospettato che gli attuali governi di Ungheria e Polonia non fossero sufficientemente "pro-europei". Simili sospetti vengono espressi anche all'interno del cosiddetto Parlamento europeo, dove non vengono tollerati i membri contrari al "più Europa". ("Più Europa" è la ragion d'essere di questo strano Parlamento, che non ha né opposizione, né diritto di iniziativa legislativa). I parlamentari europei dei partiti liberali di opposizione ungheresi e polacchi ricevono pertanto un ampio sostegno quando chiedono di non elargire i fondi europei ai governi illiberali dei loro paesi d'origine, con l'obiettivo di far credere agli elettori che se dovessero votare per i partiti "pro-europei", otterrebbero più soldi "dall'Europa". Allora perché non subordinare i pagamenti del Recovery Fund all'adesione da parte di un paese ai principi dello "Stato di diritto", dove lo "Stato di diritto" viene definito in modo che le politiche dei governi eletti, non liberali, vengano considerate in difetto di Stato di diritto?

Suona bene? Beh, ci sono i trattati. E secondo i trattati, i paesi membri, compresi i beneficiari di aiuti come l'Ungheria e la Polonia, rimangono sovrani, e le loro istituzioni nazionali e le decisioni in materia di politica della famiglia e di immigrazione vengono decise dai loro elettori, non da Bruxelles o Berlino. Quando si tratta delle istituzioni di un paese, l'unica cosa che legittimamente dovrebbe riguardare l'UE, è se il denaro europeo viene speso e contabilizzato correttamente. Qui, però, la Polonia ha un primato immacolato, e l'Ungheria sembra essere ancora al livello dei paesi "pro-europei" come Bulgaria e Romania, per non parlare di Malta.

Allora, cosa bisogna fare? A Bruxelles si riesce sempre a trovare una soluzione. La Commissione e il Parlamento da molto tempo ormai cercano di punire Polonia e Ungheria con una nuova disposizione all'interno dei trattati che vieti agli Stati membri di limitare l'indipendenza politica ("Stato di diritto") del loro potere giudizario. Ma questo sarebbe un randello così potente che la sua applicazione richiederebbe l'unanimità fra i rimanenti Stati membri; qui, Ungheria e Polonia si coprirebbero a vicenda. (Inoltre, una tale procedura potrebbe sollevare questioni imbarazzanti sull'indipendenza politica di altre corti supreme, ad esempio il Conseil d'Etat francese).

Ora però entra in gioco il Recovery Fund, e con esso l'idea di un cosiddetto "meccanismo per lo stato di diritto", con l'aiuto del quale gli aiuti UE potrebbero essere cancellati o essere richiesti indietro senza il requisito dell'unanimità, ma comunque in maniera indipendente dal caso individuale di un uso illegale dei fondi ancora tutto da dimostrare. E proprio nel caso in cui un paese, secondo la valutazione dell'UE, non dovesse piu' rispettare lo stato di diritto, cioè avere una magistratura indipendente, compresa una corte costituzionale liberale, e forse anche la volontà di accogliere i rifugiati secondo le quote di distribuzione UE.

Può funzionare? A Bruxelles, come ho già detto, molte cose sono possibili. L'argomentazione è simile a quella con la quale la Banca Centrale Europea ha prevalso sulla Corte Costituzionale Federale Tedesca davanti alla Corte di Giustizia Europea (nella cosiddetta sentenza PSPP). Le istituzioni dell'UE stanno oltrepassando le loro competenze, se nell'esercitarle le interpretano in modo cosi' ampio, in quanto, a loro avviso, non possono (o non possono più) esercitarle efficacemente in maniera diversa? D'altro canto, la Corte tedesca aveva insistito sul fatto che i poteri europei sono strettamente limitati a quanto i paesi membri hanno espressamente concesso nei trattati, e se fossero necessari maggiori poteri europei, i trattati dovrebbero essere modificati di conseguenza, il che richiederebbe non solo l'unanimità, ma anche diversi referendum. È proprio questo che i governi di Polonia e Ungheria hanno invocato (il ministro degli Esteri polacco in un articolo della FAZ del 26 novembre, dal titolo "I trattati UE sono sacri"), e questo è stato il punto sul quale è iniziata la battaglia.

Parte prima (l'UE): vi invitiamo ad accettare il Recovery Fund, compreso il meccanismo relativo allo stato di diritto, incluso il rischio che non otteniate nulla se non fate un'inversione di marcia e non abbandonate il vostro corso anti-liberale. Quello che dovrete fare per raggiungere l'obiettivo, vi sarà comunicato al momento opportuno. Contromossa (Polonia e Ungheria): non voteremo mai per questo meccanismo, quindi dimenticate il vostro fondo. Parte seconda: se votate contro il meccanismo e quindi contro il fondo, creeremo un fondo per gli altri 25 paesi, e troveremo anche per questo una base nei trattati, i trattati sono abbastanza lunghi e complessi, la carta è paziente, come dicono i tedeschi, e non otterrete un dannato centesimo. Contrordine: ma non sarebbe affatto bello, non sarebbe europeo (beh...), e tra l'altro, sarebbe illegale. Il coro (la stampa tedesca, che canta e balla): guardate qui, il denaro governa il mondo; fanno quello che gli viene detto di fare, perché vogliono solo i nostri soldi. Non è bello essere ricchi?

Entrano i presidenti, guidati da Merkel, dea ex machina, titolare della Sessione chiusa, in rappresentanza del Paese che si trova a presiedere formalmente gli altri Paesi, proprio nella seconda metà del 2020, e comunque in modo informale. La Germania ha bisogno dell'Europa dell'Est per i suoi affari. Ritiene inoltre di non potersi permettere di regalare agli americani il monopolio nella geopolitica anti-russa. Quindi, per "ragioni storiche" sarebbe preferibile non discutere con la Polonia in merito alla sovranità polacca. Dopo molti avanti e indietro, nella camera oscura della diplomazia internazionale con 27 paesi, Polonia e Ungheria accettano il Fondo per la ricostruzione e la solidarietà post-Corona, integrato da un documento sullo stato di diritto. In base a ciò, la Commissione adotterà una "direttiva di salvaguardia del bilancio" che vincola i sussidi post-Corona dell'UE e tutti gli altri aiuti ad un sistema giudiziario nazionale che dovrebbe essere politicamente abbastanza indipendente da garantire un uso corretto dei fondi UE incassati, nell'ambito di un quadro normativo che va oltre l'attuale situazione giuridica. (Come, vedremo).

La direttiva europea probabilmente non entrerà in vigore fino a quando non sarà esaminata dalla Corte Europea. Nel frattempo - probabilmente fino all'inizio del 2023 - la Commissione non intraprenderà nessuna azione mentre i fondi post-Corona e gli altri aiuti inizieranno a fluire verso tutti i 27 paesi. Se e quando il "meccanismo" avrà passato l'esame della Corte, la Commissione potrà avviare un procedimento contro la Polonia, l'Ungheria o entrambi i paesi per recuperare il denaro già versato, e potrà sostenere, a titolo di giustificazione, che i sistemi giudiziari di Polonia e Ungheria sono talmente marci, cioè politicizzati, che in linea di principio non ci si può aspettare che essi si pronuncino secondo le modalità dello Stato di diritto. E' chiaro che ci vorrà ancora del tempo, e nessuno sa come sarà allora il mondo, e quali saranno le preoccupazioni degli Stati membri.

In Europa, le tregue fanno miracoli. Al momento si respira gioia ovunque: tra i vari presidenti, in Parlamento (che crede di poter correggere la mancanza di sentimento "pro-europeo" ritirando i soldi), nella Commissione (che si è procurata un nuovo giocattolo per intimidire gli Stati membri ai margini dell'impero), nella Corte di giustizia (che può gioire per una nuova giurisdizione), e tra i governi nazionali, fra questi anche Ungheria e Polonia (che invece non vogliono parlare delle rassicurazioni informali che credono di aver ricevuto al buio). La politica della procrastinazione però, la disciplina preferita da Merkel, conosce dei vincitori, solo finché dura.

lunedì 19 ottobre 2020

Wolfgang Streeck - Interessi tedeschi e soluzioni europee che non arriveranno mai

"Fino a quando ''l'Europa'' tiene i migranti lontani dai confini tedeschi, la Germania potrà mantenere la purezza morale delle sue leggi sull'immigrazione: nessun limite massimo, nessuna quota, praticamente nessuna espulsione", scrive il grande intellettuale tedesco Wolfgang Streeck. "Dato che è politicamente troppo delicato per il governo tedesco proporre agli elettori una revisione della legge sull'immigrazione, Berlino allora cerca il supporto "dell'Europa'' e della "Turchia" per riuscire a tenere i migranti lontani dalla Germania, essenzialmente rinchiudendoli a Moira e in molti altri luoghi simili". Wolfgang Streeck ci spiega l'ipocrisia e il moralismo della politica berlinese sul tema dei migranti, da Makroskop.de


La situazione creatasi sull'isola greca di Lesbo dopo l'incendio nel campo di Moria viene considerata da molti uno scandalo europeo. Ma chi è veramente ''l'Europa''? Se i migranti, dopo aver attraversato il Mediterraneo, si aspettano di essere accolti in Germania, probabilmente è solo una conseguenza di quella politica di apertura unilaterale dei confini operata da parte del governo Merkel nel 2015, senza peraltro aver prima consultato i partner europei. (E questa decisione probabilmente qualche mese dopo ha contribuito in maniera decisiva al voto in favore della Brexit).

Quasi tutti i migranti, quelli già in Grecia e quelli che si aspettano di poterci arrivare, vorrebbero potersi spostare in Germania, non in Ungheria o in Francia o in Danimarca, dove sanno di non essere i benvenuti. E se nell'ambito di un regime di immigrazione europeo fossero stati inviati in Lettonia o in Bulgaria (un regime che peraltro nessuno dei due paesi accetterà mai), sarebbero comunque rientrati di nuovo in Germania nel giro di poche settimane.


E perché no? Ampi settori della società tedesca, tra i quali la comunità degli industriali tedeschi, ma anche i sindacati, sono felici di accoglierli. Il mercato del lavoro tedesco sembra avere una capacità illimitata di assorbire immigrati qualificati e non qualificati; le chiese, politicamente potenti e finanziariamente ben dotate, vogliono dimostrare la loro disponibilità ad aiutare; e i comuni vogliono riempire gli alloggi costruiti per i richiedenti asilo nel 2015 e incassare in questo modo l'indennità giornaliera pagata dal governo tedesco per ogni nuovo arrivato - per non parlare poi dei centri di formazione linguistica e delle altre istituzioni simili a cui ora mancano clienti e fonti di reddito. Nella piena consapevolezza del profondo senso di colpa degli elettori di centro-sinistra, dovuto alla prosperità tedesca e in considerazione del loro desiderio di trasformare la Germania in un modello di virtù per tutta l'Europa, i politici tedeschi nelle scorse settimane hanno chiesto che migliaia, se non tutti, i migranti di Moria fossero trasferiti immediatamente in Germania.


Perché Merkel non ha riaperto i confini?

Allora perché il governo federale sotto la guida della stessa Merkel non riapre un'altra volta le frontiere? Ed è qui che entra in gioco “l’Europa" - più precisamente, la "soluzione europea", la stessa che nel 2015 era stata ritenuta inutile. Mentre tutti sanno che non ci sarà mai una ''soluzione europea'', il messaggio ora è che una soluzione nazionale è fuori discussione. Perché?

I confini aperti tendono a polarizzare l'opinione pubblica. I politici tedeschi ricordano molto bene come Merkel nel 2015 abbia salvato AfD dal declino elettorale che l'affliggeva in quel momento, aiutandola ad affermarsi qualche anno piu' tardi come il più grande partito di opposizione. C'è un limite al numero di immigrati che un paese può accettare, oltre il quale la xenofobia si trasforma in risentimento contro gli stranieri - come si può vedere dall'esempio della Danimarca, della Svezia, dell'Italia e delle stesse isole greche: Lesbo un tempo non veniva forse celebrata in tutto il mondo per aver accolto i primi rifugiati arrivati via mare? Non è un caso che già nel novembre 2015 Merkel abbia tenuto colloqui segreti con Erdogan per un accordo in base al quale la Turchia avrebbe impedito ai rifugiati siriani di entrare in Europa, e ''l'Europa'' gli avrebbe pagato diversi miliardi di euro di costi sostenuti per controllare i confini dell'Europa - o più precisamente i confini esterni della Germania.

Ma se i rifugiati sono benvenuti, a condizione che il loro numero sia limitato, perché allora non dovremmo riceverne tanti quanti gli abitanti sono disposti ad accettarne? La legge tedesca sull'immigrazione, nata in un'altra epoca, per ragioni pratiche rende di fatto impossibile respingere qualcuno che è entrato legalmente o illegalmente, nel caso in cui egli richieda asilo. Se l'asilo viene respinto, inoltre, e dopo anni di procedimenti legali, quasi tutti riescono a trovare un modo per evitare l'espulsione. Dato che è politicamente troppo delicato per il governo tedesco proporre agli elettori una revisione della legge sull'immigrazione, Berlino allora cerca il supporto "dell'Europa'' e della "Turchia" per riuscire a tenere i migranti lontani dalla Germania, essenzialmente rinchiudendoli a Moira e in molti altri luoghi simili.

L'immigrazione non può essere regolata senza un limite massimo

Qual'è la logica bizzarra dietro di ciò? Il diritto tedesco e l'umanitarismo secondo lo stile tedesco, dei Verdi in particolare, chiedono che non vi sia alcun limite massimo all'immigrazione, né in Germania né in Europa. Ma senza un limite massimo, l'immigrazione non può essere in alcun modo regolata: in altre parole, non si possono fissare quote, priorità, etc. Dato che prima o poi ciò condurrà ad un contraccolpo politico, l'immigrazione non regolamentata resta fuori dalla discussione.

Per questo motivo ''l'Europa'' deve impedirlo per noi, soprattutto paesi come Grecia e Italia, insieme all'Austria, all'Ungheria e ad altri che stanno sigillando le loro frontiere per rinchiudere i migranti nei campi greci e italiani. In questo modo fanno un favore alla Germania, bloccano una ''soluzione europea'' compatibile con il diritto tedesco, ma non con la situazione politica tedesca. Finché ''l'Europa'' tiene i migranti lontani dal confine tedesco, la Germania potrà mantenere le sue leggi sull'asilo senza doverle mai applicare, rimproverando pubblicamente l'Ungheria, l'Austria, la Polonia e altri paesi, ma lodandoli privatamente per aver rifiutato quote nazionali fisse per la distribuzione di un numero illimitato di migranti.

Questo certo non esclude ''gesti umanitari'' - o, nel linguaggio di Merkel, ''mostrare un volto amichevole''. Subito dopo l'incendio di Moria, infatti, il governo tedesco ha annunciato che avrebbe accolto 150 (!) minori non accompagnati dal campo greco. Pochi giorni dopo, sono arrivati in aggiunta esattamente 1.553 migranti, appartenenti a 408 famiglie, né più né meno. Come si è poi scoperto, nessuno di loro arrivava da Moria, e tutti avevano già ottenuto dalle autorità greche lo status legale di rifugiato, dopo essere stati portati nella Grecia continentale. Si è anche scoperto poi che il governo greco aveva insistito sulla necessità di evitare di dare l'impressione che dando fuoco a un campo profughi greco, si possa poi arrivare in Germania oppure, una volta arrivati in Grecia, ci si possa poi aspettare di essere portati in Germania, invece di far esaminare la propria domanda d'asilo alle autorità greche, per poi aspettare in Grecia una ''soluzione europea'', praticamente senza speranza.

Se è la Grecia a fare la selezione e a trattenere poi le persone non selezionate, la Germania potrà continuare a mantenere la purezza morale della sua legge sull'immigrazione: nessun tetto, nessuna quota, praticamente nessuna espulsione. Il giorno dopo l'invito ufficiale dei 1.533 rifugiati, l'opinione pubblica tedesca aveva già dimenticato i 12.000 detenuti dell'ex campo di Moria, per non parlare poi dei tanti altri abitanti nelle numerose altre Moria in Grecia e in Italia, attirati in Europa dal volto amichevole della Germania e da frontiere così aperte, almeno sulla carta.




mercoledì 22 luglio 2020

Heiner Flassbeck - Perché la Francia non è la Germania

Per Heiner Flassbeck i francesi non devono raccontarsi menzogne pensando di poter fare come i tedeschi, vale a dire risanare le proprie finanze pubbliche impoverendo i vicini a colpi di avanzi commerciali. Chi conosce i saldi settoriali del paese sa che alla Francia questa strada è preclusa, e che pertando l'unica possibilità concreta per uscire dalla trappola del debito post-corona sarà quella di cambiare le stupide regole europee. Una riflessione molto interessante del grande economista tedesco Heiner Flassbeck da Makroskop.de


François Villeroy de Galhau, il presidente della Banca centrale francese, ha scritto una lunga lettera ai suoi Presidenti nella quale illustra la situazione economica francese e sottolinea le sfide che la politica parigina dovrà affrontare nel lungo periodo in merito al debito pubblico e nel quadro dell'unione monetaria. 


La lettera ovviamente è pensata per essere un avvertimento. Sebbene la Banque de France ammetta che nella crisi causata dal Coronavirus sia la politica monetaria che quella fiscale hanno dovuto adottare delle misure anticicliche di ampia portata per evitare il crollo dell'economia, afferma anche che dopo la crisi (dal 2022) sarà necessario intraprendere l'azione opposta. Lo Stato quindi, scrive Villeroy-Galhau, per limitare entro un decennio il debito contratto nel periodo del Coronavirus, dovrà iniziare a ''stabilizzare'' la spesa pubblica. 

Un confronto con la Germania: a cosa serve? 

Probabilmente per illustrare quanto fosse preoccupante lo stato delle finanze pubbliche francesi già prima della crisi del Coronavirus, il Presidente della Banque de France ha voluto aggiungere alla lettera un grafico che confronta Francia e Germania, e nel quale la Francia ovviamente va molto male (Figura qui sotto come l'originale dalla lettera). Nel grafico viene confrontato il debito pubblico in percentuale del PIL per Francia e Germania e per l'unione monetaria nel suo complesso. Il grafico è davvero rivelatore, ma in un senso completamento opposto rispetto a quello proposto dagli autori della lettera. 


In effetti, come sottolinea anche Banque de France, dal grafico si può notare che fino alla fine della crisi finanziaria del 2008/2009, il debito pubblico tedesco e quello francese si sono sviluppati più o meno allo stesso modo. È solo a partire dal 2010 che la Francia ''si stacca'' dalla Germania e cresce senza interruzioni, mentre la Germania ''riesce'' a spingere il suo debito al di sotto della soglia del 60% richiesta dai trattati dell'unione monetaria. È anche interessante notare che Banque de France ritiene che la Germania subito dopo il 2020 possa iniziare a ridurre immediatamente il suo debito allo stesso ritmo con cui l'ha fatto dopo il 2010, mentre la Francia può solo stabilizzarlo all'altissimo livello del 120%. 


Non c'è un macroeconomista alla Banque de France? 

Ci si chiede come è possibile che un'istituzione così importante possa aver fatto un'analisi così assurda e averla poi inviata al Presidente della Repubblica. L'unica cosa che mostra il grafico qui sopra è il fatto che la Germania ha utilizzato il suo enorme surplus di conto corrente con l'estero per consolidare il suo bilancio nazionale. 

Al dipartimento economico della Banque de France non sanno forse che in tutte le economie del mondo quando l'intero settore privato (cioè le famiglie e le imprese) sono dei risparmiatori netti, esiste un legame molto semplice e del tutto innegabile tra il bilancio di uno Stato e il saldo delle partite correnti? Perché il debito pubblico degli Stati Uniti, il paese modello del capitalismo, è aumentato così tanto dopo la crisi finanziaria? Come la Francia, anche gli Stati Uniti hanno un deficit delle partite correnti. 

Di recente ho scritto che il presidente della Bundesbank preferisce tacere sui saldi settoriali, anche se la Bundesbank li calcola da decenni. Si può almeno capire perché il signor Weidmann, per ragioni ideologiche non voglia parlare né dell'eccedenza di conto corrente tedesca né del fallimento del settore delle aziende tedesche. Ma cosa impedisce al suo omologo francese di evidenziare almeno le eccedenze delle partite correnti confrontandole con quelle tedesche? È davvero solo ignoranza? 

Le regole europee sul debito sono superate 

I saldi settoriali francesi (grafico qui sotto), su di un arco di tempo molto lungo, mostrano con chiarezza che per la Francia quasi certamente dopo la crisi causata dal Coronavirus sarà impossibile ridurre il suo debito pubblico. Non ci saranno cambiamenti nel tasso di risparmio delle famiglie (già di per sé non molto elevato), né nel fatto che da trent'anni le aziende francesi non fanno più quello che ci si aspetta da loro, cioè prendere a prestito denaro per investire. Il fatto che la Banque de France, alla luce di questa situazione presente fra le imprese, metta anche in evidenza che il debito lordo del settore aziendale francese "sia cosi' alto", è quasi imbarazzante. 


Un mondo come quello che abbiamo avuto dal 1960 fino all'inizio degli anni '80, quando le aziende erano in tutta evidenza i debitori più importanti e lo Stato riusciva a cavarsela facendo poco nuovo debito, è un ricordo del passato. E' una storia che durerà tanto a lungo, almeno fino a quando ci sarà il neoliberismo a governarci. Poiché le possibilità della Francia di realizzare una significativa inversione di tendenza nel commercio estero e di ottenere un avanzo di conto corrente sono attualmente nulle, l'unica opzione logica è che lo Stato tenga a galla l'economia facendo sempre piu' debito. 

E questo vale indipendentemente da quanto sarà alto il livello di indebitamento alla fine della crisi da Coronavirus. Un fatto confortante per la Francia: sarà inevitabile anche per la Germania. E questo sarebbe un argomento per un'iniziativa franco-tedesca. Mano nella mano, i due paesi dovrebbero mettere in discussione dalle fondamenta le regole europee sul debito secondo il motto: regole impossibili da rispettare, non devono essere rispettate.




sabato 30 maggio 2020

Wolfgang Streeck - Per la politica tedesca è arrivata l'ora della verità

"Chi desidera che l'UE sia sovrana, è libero di chiedere una revisione formale dei trattati, seguita da un referendum laddove questo sia costituzionalmente necessario per rendere efficaci le modifiche ai trattati. Federalismo, perché no - ma per favore alla luce del sole e non come un effetto collaterale delle politiche della BCE, approvate dall'attivismo di un tribunale europeo", scrive il grande intellettuale tedesco Wolfgang Streeck in merito alla sentenza della Corte di Karlsruhe. Per Streeck la sentenza della Corte costituzionale tedesca avrà effetti di vasta portata e per la politica tedesca sta per arrivare l'ora della verità. Un ottimo Wolfgang Streeck da Makroskop

-->

La sentenza sul PSPP (Public Sector Purchasing Program) della Corte costituzionale federale ha mostrato un'altra frattura nella struttura dell'Unione europea, vale a dire quella fra sistemi giuridici con una diversa concezione della Costituzione. Ci sono dei forti parallelismi con il caso del Regno Unito, dove il modello UE, secondo il quale una costituzione viene modificata passo dopo passo da un tribunale di ultima istanza, si è duramente scontrato con la tradizione radicata in Gran Bretagna di una forte governance parlamentare, fatto che ha contribuito alla Brexit.


Nel conflitto fra la Corte costituzionale tedesca e la Corte di giustizia europea (CGE), assistiamo a una battaglia tra due potenti tribunali di ultima istanza, conflitto che riguarda altro essenzialmente una sola questione di fondo, e cioè: l'UE è un'organizzazione internazionale o uno stato federale?

Una posizione di spicco che fa parte del patrimonio politico del dopoguerra

La posizione di forza della Corte costituzionale federale tedesca è una parte essenziale del patrimonio politico del dopoguerra. È paragonabile alle disposizioni previste dalla Legge fondamentale secondo le quali le truppe tedesche, anche se sono sotto un comando internazionale, non possono essere dispiegate senza un mandato parlamentare strettamente definito. Entrambe le disposizioni limitano fortemente il potere discrezionale dell'esecutivo federale ed entrambe non sono facilmente conciliabili con un altro obbligo costituzionale del governo tedesco, vale a dire: perseguire la cooperazione internazionale come un obiettivo nazionale.

In generale i poteri di vasta portata attribuiti alla Corte costituzionale federale possono rappresentare una restrizione alquanto scomoda per la capacità dei governi tedeschi di agire, sia in politica estera che interna. Ed infatti è proprio cosi', anche se a volte considerare la Corte costituzionale come un potenziale guastafeste può migliorare la posizione negoziale internazionale del nostro paese. D'altra parte, la Corte di solito fa del suo meglio per andare incontro ai governi in carica.

E questo è il caso del PSPP, nell'ambito del quale non è stato impedito alla Bundesbank di partecipare al programma di acquisto di obbligazioni della BCE. Ciò su cui la corte insiste, tuttavia, è il suo potere decisionale, in merito al fatto che gli atti degli organi dello stato tedesco, in particolare della Bundesbank, possano violare i diritti democratici e politici di base dei cittadini tedeschi, in quanto non sono coperti né dalla Legge fondamentale tedesca né dal diritto internazionale attraverso dei trattati legalmente ratificati dallo stato tedesco.

Anche sotto la pressione di una crisi, non è possibile ignorare le costituzioni 

Gli effetti sono di vasta portata. Pur aderendo al proprio mandato costituzionale, la Corte tedesca, infatti, insiste sul fatto che l'UE, la BCE e la Corte di giustizia europea non possano in alcun modo estendere la loro giurisdizione ai diritti dei cittadini tedeschi garantiti dalla Costituzione tedesca. Sebbene possa sembrare un argomento banale, implica che l'Unione europea non è (ancora) uno stato federale, ma dipende ancora dal fatto che i suoi Stati membri le abbiano conferito determinati poteri. (Uno dei giudici pochi giorni dopo il verdetto ha dichiarato in un'intervista ad un giornale: "fino a quando non vivremo in uno stato europeo, l'adesione di un paese è soggetta alla legge costituzionale di quel paese").

La sentenza implica anche che le costituzioni - compresa la costituzione di fatto dell'UE - non possano essere modificate incidentalmente. Né possono essere ignorate sotto la pressione di una crisi, secondo il famigerato detto di Carl Schmitt: "l'emergenza è l'ora dell'esecutivo", per non parlare dell'altrettanto famigerato detto tedesco: "la necessità non conosce comandamenti".

Chiunque desideri che l'UE sia sovrana, afferma la corte, è libero di chiedere una revisione formale dei trattati, seguita da un referendum laddove questo sia costituzionalmente necessario per implementare le modifiche ai trattati. Federalismo, perché no - ma per favore alla luce del sole e non come un effetto collaterale della gestione della crisi da parte della BCE, sanzionato da un tribunale europeo attivista. (Naturalmente una revisione in senso federale dei trattati, in realtà di qualsiasi revisione, può essere esclusa sia oggi che nel prossimo futuro - anche a causa dell'eterogeneità degli interessi degli attuali 27 Stati membri, nessuno dei quali, in particolare i paesi del Mediterraneo, vogliono rinunciare alla loro sovranità).

Domande sulla vera natura e la vera finalità dell'UE

È interessante come i commentatori, sia di destra che di sinistra, non capiscano quanto sia stato grande l'imbarazzo per il governo tedesco dopo la decisione sul PSPP della Corte costituzionale federale, proprio nel momento in cui la Germania si appresta ad assumere la presidenza dell'UE nella seconda metà dell'anno. Cosi' per raffreddare l'eccitazione della retorica internazionale sulla presunta parsimonia della Germania, lo stato tedesco, per confermare la sua egemonia europea, finirà per pagare alle casse dell'UE molto piu' di quanto i suoi elettori alquanto preoccupati avrebbero mai concesso. Ancora peggio, la sentenza ha sollevato la questione di tutte le questioni, la domanda che i governi europei hanno imparato a evitare, vale a dire: qual'è la vera natura e la vera finalità dell'UE?

Deve essere enorme, per la classe politica tedesca, la tentazione di usare le proteste europee contro la Corte costituzionale federale per declassarne il suo rango all'interno della costituzione tedesca. Fatto che amplierebbe enormemente la portata politica dell'esecutivo e sarebbe sicuramente coerente con una tendenza generale presente nelle democrazie capitaliste, con notevoli parallelismi simili agli sviluppi in Polonia e Ungheria, ad esempio. Una riduzione dei poteri della Corte costituzionale federale, tuttavia, non sarebbe facile in quanto la sua reputazione nell'opinione pubblica tedesca resta elevata.

La riforma costituzionale come regalo per il Consiglio europeo?

Una modifica costituzionale che trasformi la Corte costituzionale federale in un tribunale di seconda istanza subordinato alla Corte di giustizia, tuttavia, potrebbe avere delle possibilità. Soprattutto se si riuscisse a dare l'impressione che ciò in qualche modo potrebbe aiutare contro il Coronavirus e la successiva catastrofe economica. La maggioranza dei due terzi richiesta, in parlamento si potrebbe anche trovare, con la SPD e i Verdi che sostituiscono i parlamentari della CDU/CSU che si rifiuterebbero di apportare tale modifica. Non sarebbe forse un bel regalo di Merkel al Consiglio europeo, quando la Germania assumerà la presidenza del Consiglio dell'UE il 1 ° luglio 2010?

Un declassamento della Corte costituzionale tedesca dovrebbe essere benvenuto anche per coloro che - come il filosofo tedesco Jürgen Habermas - chiedono l'istituzione di un esercito europeo come veicolo per la creazione di uno stato europeo. La necessità di ricevere un mandato dal Bundestag spesso si è rivelata essere un problema, soprattutto quando alla Germania è stato chiesto di fornire delle truppe per delle "missioni" in luoghi come Iraq, Libia, Siria, Mali o Afghanistan. Senza la Corte costituzionale, almeno per quanto riguarda la politica estera e la cooperazione internazionale, per il governo tedesco sarebbe stato molto più facile ignorare le preoccupazioni dei parlamentari.

Ursula von der Leyen, attualmente alla presidenza della Commissione europea, nella sua precedente posizione come ministro della Difesa tedesco in più di una occasione si sarà trovata nella impossibilità di fare un favore agli americani o ai francesi a causa delle prevedibili obiezioni del Bundestag. Come presidente della Commissione europea, senza la Corte costituzionale tedesca, sarebbe finalmente in grado di costruire una "cooperazione" militare europea, ad esempio per controllare le ex colonie francesi nell'Africa occidentale.

Violazione della "sovranità europea"?

In ogni caso, subito dopo l'annuncio della decisione della Corte, i deputati dei Verdi al Parlamento europeo hanno chiesto alla Commissione di aprire una procedura formale di infrazione contro la Germania - presumibilmente in nome del patriottismo costituzionale tedesco - sebbene il governo tedesco non abbia fatto nulla per attuare la sentenza, e non è nemmeno chiaro se mai lo farà. Von der Leyen, una lealista di Merkel di lunga data, ha seguito l'esempio esprimendo il timore che diversamente, anche altri paesi dell'Europa orientale come la Polonia, potessero sentirsi incoraggiati a non osservare le decisioni della CGE. In quell'occasione, ha descritto la sentenza PSPP come una violazione della "sovranità europea".

Le procedure di infrazione richiedono tempo e, in ogni caso, alcuni Stati membri si chiederanno cosa ciò significherebbe per la loro sovranità se l'UE dovesse riuscire a rivendicare per sé la sovranità. Forse aspetteranno fino all'ultimo minuto, sperando che i tedeschi si facciano carico delle conseguenze del conflitto. Con ogni probabilità, il processo finirà o addirittura non inizierà se, in cambio, la Germania accettasse di versare piu' soldi nel prossimo bilancio europeo, forse dopo aver massacrato la sua Corte costituzionale come un agnello sacrificale sull'altare dell'europeismo.

Qualunque cosa accada, si può scommettere su due cose. Innanzitutto, il governo tedesco troverà un modo per dare alla BCE la possbilità di continuare a "fare tutto il possibile" per mantenere in vita l'euro. (Se ciò alla fine avrà successo è un'altra questione). L'euro è la miniera d'oro per eccellenza dei tedeschi, mentre non è affatto chiaro perché Italia, Spagna e Francia abbiano così tanta voglia di tenerselo, per la Germania in questa lunga fase di stagnazione capitalista è un'ancora di salvezza.

In secondo luogo, anche se la BCE, il bilancio dell'UE, la Banca europea per gli investimenti e tutti gli altri, grazie a delle iniezioni di soldi europei e alla abile messa in scena di una presunta capitolazione tedesca, per diversi anni ancora continuassero a trovare i mezzi necessari per tenere in piedi e foraggiare le classi politiche della periferia meridionale dell'eurozona ormai in declino, ciò non fermerebbe affatto la devastazione economica dei paesi del Mediterraneo. Perché questa è di natura strutturale, ed è radicata nella rinuncia alla sovranità monetaria dei paesi del Mediterraneo ed è così profonda che non può essere risolta attraverso quei trasferimenti che i governi tedeschi potrebbero permettersi sia economicamente che politicamente.

Il risultato sarà una crescente disuguaglianza fra i paesi dell'Unione monetaria e all'interno dei paesi, e sarà accompagnata da un'ostilità internazionale in crescita costante. Si avvicina l'ora della verità per le vuote promesse fatte dai tedeschi in passato, fatte con la irresponsabile speranza che non dovessero essere mai mantenute. La delusione avvelenerà profondamente la politica europea.