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domenica 10 settembre 2023

Rivalità franco-tedesche per il controllo della Romania

 Germania e Francia si contendono l'influenza sulla Romania: un paese che da sempre è luogo di scontro fra le potenze europee in quanto tassello fondamentale per controllare il sud-est europeo e contenere le ambizioni russe e neo-ottomane sulla regione. Ne scrive il sempre ben informato German Foreign Policy

scontro franco-tedesco per il controllo della romania

Le rivalità franco-tedesche accompagnano il rafforzamento militare della Romania nella lotta di potere contro la Russia. La Bundeswehr infatti già da anni collabora strettamente con le forze armate rumene: ha sostenuto la sorveglianza aerea rumena con gli Eurofighter all'inizio dell'anno scorso e sta inviando soldati per costruire il Corpo multinazionale Sud-Est in Romania, attualmente in fase di costituzione. La Francia, da parte sua, sta guidando un gruppo tattico della NATO nel Paese dell'Europa sud-orientale - e sta ora considerando, come recentemente riportato il quotidiano francese Le Monde, di inviare altrii soldati in Romania in caso di un ulteriore ritiro delle truppe dall'Africa occidentale, al fine di rafforzare non solo le posizioni della NATO contro la Russia, ma anche la propria posizione in loco. La rivalità europea per l'influenza sulla Romania è antica. Risale ai primi decenni del XIX secolo, quando ancora non esisteva uno Stato rumeno. Oltre alla Francia e all'economia tedesca o, dal 1871, all'Impero tedesco, anche la Russia e la Gran Bretagna sono state coinvolte nella rivalità. Le lotte di potere si sono poi trascinate fino alla fine della Seconda guerra mondiale.

Protettorato russo

In seguito alla Convenzione russo-ottomana di Akkerman del 1826, lo Zardom russo fu in grado di stabilire un protettorato de facto sui due principati ancora nominalmente ottomani di Valacchia e Moldavia, nell'attuale Romania. Due anni dopo, la Russia occupò i due principati danubiani. [1] Nel 1829, la pace di Adrianopoli pose fine all'ottava guerra russo-ottomana (1828-1899) e garantì alla Russia la possibilità di occupare la Valacchia e la Moldavia per altri anni ancora. I due principati danubiani divennero così protettorati russi per un lungo periodo. Come forma di resistenza al sistema imposto dall'Impero zarista, fiorì il nazionalismo rumeno. [2]

Interessi britannici

Negli anni Quaranta del XIX secolo, il commercio britannico con la regione del Mar Nero subì un cambiamento fondamentale. Fino ad allora, infatti, i commercianti britannici avevano acquistato grano soprattutto in Russia, ma a partire da questo decennio la loro attenzione si spostò sulla Valacchia e sulla Moldavia. In quanto principati autonomi de jure dell'Impero Ottomano, vi si applicavano gli stessi trattati di libero scambio dell'impero ottomano. [3] In Europa occidentale, la domanda di grano aumentava a causa dell'industrializzazione, dell'urbanizzazione e della rapida crescita demografica. Le élite politiche della Gran Bretagna volevano quindi assicurarsi il territorio dell'attuale Romania in quanto fornitore per la popolazione britannica. [4]

Sogni tedeschi

Parallelamente all'incipiente lotta russo-britannica per l'influenza in Valacchia e Moldavia, iniziarono i piani tedeschi per influenzare quella che sarebbe poi diventata la Romania. Nel 1845, sull'Augsburger Allgemeine Zeitung, il più importante quotidiano politico tedesco dell'epoca, apparve un articolo in cui un autore chiedeva che i principi tedeschi fossero elevati al trono principesco della Moldavia e della Valacchia. [5] Anche l'influente professore di economia di Gottinga Wilhelm Roscher (1817-1894) sostenne in un articolo del 1848 che i due principati danubiani avrebbero dovuto diventare "in futuro (...) patrimonio della Germania". Concentrando gli emigranti tedeschi nella regione, "una nuova Germania potrebbe emergere attraverso una loro conquista pacifica". [6] Anche prima della fondazione di un Impero tedesco unificato, c'era l'ambizione di assicurarsi la Romania come retroterra tedesco.

Consiglieri francesi

Nel 1859, la Valacchia e la Moldavia si unirono per formare la Piccola Romania (ufficialmente "Principato di Romania"). Appena un anno dopo, l'imperatore francese Napoleone III decise di inviare una missione militare nel neonato principato, L'obiettivo, secondo un diplomatico di Baden, era quello di trasformare il Paese dell'Europa sud-orientale in un "[terribile] [strumento] alle spalle dell'Austria". [Nel 1865, un consorzio franco-britannico fondò la Banca di Romania, che divenne una delle banche più importanti del Paese. [9] Gran Bretagna e Francia si trovavano anche in competizione per l'accesso alle materie prime rumene. [10] Insieme alla Russia, due potenze dell'Europa occidentale si stavano contendendo l'influenza nel Paese dell'Europa sud-orientale.

Monarca tedesco

Nell'aprile del 1866, Carlo di Hohenzollern-Sigmaringen assunse la corona principesca rumena e si fece chiamare Carol I. Dopo il suo arrivo in Romania, dichiarò di essere d'ora in poi romeno; politicamente, tuttavia, rimase fedele alla Germania. [11] Il principe Carol I era considerato il "bastione prussiano in Oriente", al quale la Romania eveniva solitamente annoverata nel XIX secolo. [12] Con la trasformazione del principato in regno nel 1881, Carol I salì al rango di re. Il reggente di origine tedesca del Paese dell'Europa sud-orientale cercò continuamente di stringere relazioni con l'Impero tedesco, fondato nel 1871 sotto la guida della Prussia. [13] Nel 1883 la Romania aderì alla Triplice Alleanza con la Germania e l'Austria-Ungheria. Il governo e il re rumeno, tuttavia, mantennero segreto l'accordo, poiché la maggior parte dei politici e dell'opinione pubblica del Paese era favorevole alla Francia. [14]

Prima guerra mondiale

Dopo l'inizio della Prima Guerra Mondiale, il governo tedesco cercò di portare la Romania dalla parte delle Potenze Centrali. Al governo di Bucarest fu promesso che la Romania sarebbe stata autorizzata ad annettere la Bessarabia; in futuro, un Granducato di Ucraina sarebbe servito da cuscinetto per il Paese nei confronti della Russia. [15] Tuttavia, ciò non fu sufficiente per l'élite politica di Bucarest e nell'agosto del 1916 la Romania entrò nella Prima guerra mondiale al fianco dell'Intesa. Una missione militare francese guidata dal generale Henri Berthelot (1861-1931) raggiunse la Romania e addestrò le truppe rumene. [16] Le offensive dell'esercito rumeno e le controffensive delle Potenze Centrali si conclusero con un disastro per la Romania; già nel dicembre 1916, le Potenze Centrali riuscirono a occupare tutta la Valacchia, compresa Bucarest. [Nel dicembre 1917, con l'armistizio di Focșani, la Romania uscì dalla Prima guerra mondiale. [18] Le ostilità terminarono e iniziarono i negoziati per un trattato di pace. Nel maggio 1918, i rappresentanti di entrambe le parti conclusero il Trattato di Bucarest, che tuttavia fu successivamente annullato.

Periodo interbellico

Dopo l'armistizio della fine del 1918, il Ministero degli Esteri sviluppò una strategia secondo la quale l'Ucraina e la Romania avrebbero dovuto formare un blocco filotedesco sul Mar Nero. Questo era il modo con il quale Berlino intendeva mantenere la propria influenza nella regione. [19] Dopo la perdita delle colonie tedesche a seguito della prima guerra mondiale, l'economia tedesca si concentrò più di prima sul raggiungimento dell'egemonia economica nell'Europa sud-orientale.[20] Nei primi anni del dopoguerra questa strategia non ebbe successo, ma già a metà degli anni Venti la situazione cambiò. Nel 1925, il rappresentante diplomatico tedesco in Romania dichiarò che "le possibilità economiche dell'industria tedesca in Romania" erano "maggiori (...) che in qualsiasi altro Paese dell'Europa orientale"[21].

La rinnovata concorrenza francese

Come i due principati danubiani di Moldavia e Valacchia nel XIX secolo, anche la Francia cercò di espandere la propria influenza in Romania. Negli anni Venti, infatti, diversi governi rumeni si orientarono politicamente verso la Francia e la Gran Bretagna come pilastri dell'ordine di pace di Versailles. [22] Il Paese faceva allora parte della Piccola Intesa anti-revisionista con la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Nel 1925, gruppi francesi parteciparono alla fondazione del gruppo rumeno Industria Aeronautică Română (IAR), punto fermo nello sviluppo dell'industria aeronautica rumena. [23] Soprattutto nelle forze armate rumene, la Francia acquisì un'"influenza onnipresente (...)".[24] 

Influenza offensiva

In una dichiarazione governativa del 1928, il cancelliere tedesco Hermann Müller (SPD) dichiarò che era un "compito essenziale" del governo della Repubblica di Weimar dell'epoca sviluppare le relazioni della Germania con i paesi dell'Europa sudorientale, compresa la Romania. [Nel 1931 iniziò una metamorfosi dell'organizzazione lobbistica Mitteleuropäischer Wirtschaftstag (MWT), che si concluse con la nascita di "una nuova organizzazione con il vecchio nome". [26] Da quel momento in poi, l'MWT gettò le basi per una "politica (fascista) dell'Europa sudorientale di grande successo". [27] Nell'MWT, i principali rappresentanti dell'economia lavoravano insieme al personale del Ministero degli Esteri. Per garantire l'approvvigionamento alimentare tedesco, a partire dal 1933 la IG Farben iniziò a coltivare sempre più soia in Romania. [28] Il Reich tedesco continuò a espandere la propria influenza in Romania.

L'"ariete" tedesco

Il giorno dopo il ritiro dell'esercito rumeno dalla Bessarabia e dalla Bucovina settentrionale, nell'estate del 1940, il governo rumeno dichiarò ad Adolf Hitler che la Romania cercava una "stretta collaborazione con la Germania in tutti i campi". [29] Sempre nell'estate del 1940, la Kontinentale Öl-Aktiengesellschaft tedesca iniziò a rilevare l'industria petrolifera rumena. [30] Sebbene il governo rumeno fosse inizialmente riuscito a mantenere gran parte dell'economia del Paese sotto il controllo rumeno, [31] le società tedesche potevano essere utilizzate come "ariete" per accrescere l'influenza tedesca: Dopo l'annessione dell'Austria e la disgregazione della Cecoslovacchia, le società tedesche rilevarono le aziende e le banche del Paese assumendo quindi il controllo su parti importanti dell'industria pesante rumena. Inoltre, il governo di Berlino esercitò pressioni affinché il governo rumeno vendesse l'industria pesante alle società tedesche. [32]

"Operazione Barbarossa

D'ora in poi, il Reich tedesco poteva contare sulla Romania non solo economicamente, ma anche militarmente: il Paese dell'Europa sud-orientale fornì il secondo contingente di truppe più grande dopo la Germania per l'invasione dell'Unione Sovietica, l'Operazione Barbarossa. [33] Le truppe rumene riconquistarono la Bessarabia e presero anche la Bucovina settentrionale e la regione di Odessa. Quest'ultima divenne una colonia rumena con il nome di Transnistria. In essa, le truppe rumene commisero vari crimini di massa e uccisero oltre 200.000 ebrei rumeni. [34] Insieme ai soldati tedeschi, i soldati rumeni combatterono anche a Stalingrado. [35] Dopo le ritirate del 1943 e della prima metà del 1944, un colpo di Stato pose fine al governo del primo ministro filofascista Ion Antonescu; la Romania passò agli Alleati. Da quel momento in poi, l'influenza tedesca si ridusse al minimo. Solo a partire dalla fine dell'era del socialismo reale la Repubblica Federale è riuscita a riconquistare una maggiore influenza in Romania.


Leggi gli altri articoli sulla crisi dell'asse franco-tedesco-->>


[1] Barbara Jelavich: Russia and the Formation of the Romanian National State, 1821–1878, Cambridge 1984, S. 28.

[2] Victor Taki: Russian Occupation of Moldavia and Wallachia and the Plans for a “People's War” in the Balkans, in: Candan Badem (Hg.): The Routledge Handbook of the Crimean War, London 2023, S. 85–102 (hier: S. 97).

[3] Paul Hehn: Capitalism and the Revolutionary Factor in the Balkans and Crimean War Diplomacy, in: East European Quarterly, Jg. 18 (1984), Nr. 2, S. 155–184 (hier: S. 158).

[4] Ebenda, S. 155/156.

[5] Klaus Thörner: »Der ganze Südosten ist unser Hinterland« – Deutsche Südosteuropapläne von 1840 bis 1945, Freiburg 2008, S. 46.

[6] Klaus Thörner: „Der ganze Südosten ist unser Hinterland“ – Deutsche Südosteuropapläne von 1840 bis 1945, Diss., Oldenburg 2000, S. 21.

[7] Jonathan A. Grant: Rulers, Guns, and Money – The Global Arms Trade in the Age of Imperialism, Cambridge (MA) 2007, S. 39.

[8] Martin B. Winckler: Bismarcks Rumänienpolitik und die europäischen Großmächte 1878/79, in: Jahrbücher für Geschichte Osteuropas, Jg. 2 (1954), Nr. 1, S. 53–88 (hier: S. 58).

[9] Keith Hitchins: A Concise History of Romania, Cambridge 2014, S. 110.

[10] Ebenda, S. 87.

[11] Sorin Arhire: The Russian-Romanian Diplomatic Negotiations between 1914 and 1916 for Romania’s Entry into the First World War, in: Russian Historical Journal Bylye Gody, Jg. 54 (2019), Nr. 4, S. 1907–1917 (hier: S. 1912Fn1).

[12] Winckler: Bismarcks Rumänienpolitik und die europäischen Großmächte 1878/79, S. 59.

[13] Mayerhofer, Lisa: Zwischen Freund und Feind – Deutsche Besatzung in Rumänien 1916–1918, München 2010, S. 23–28.

[14] Hitchins: A Concise History of Romania, S. 149.

[15] Arhire: The Russian-Romanian Diplomatic Negotiations between 1914 and 1916 for Romania’s Entry into the First World War, S. 1910/1911.

[16] Glenn E. Torrey: Romania in the First World War: The Years of Engagement, 1916–1918, in: The International History Review, Jg. 14 (1992), Nr. 3, S. 462–479 (hier: S. 465).

[17] Glenn E. Torrey: The Entente and the Rumanian Campaign of 1916, in: Rumanian Studies, Jg. 4 (1976–1979), S. 174–191 (hier: S. 174).

[18] Glenn E. Torrey: Romania Leaves the War: The Decision to Sign an Armistice, December 1917, in: East European Quarterly, Jg. 23 (1989), Nr. 3, S. 283–292.

[19] David X. Noack: Germany’s Influence along the Black Sea Rim in the Wake of the First World War: Official German foreign policy views on the Black Sea Region in the “Shadow of Versailles“ November 1918–March 1921, in: Sorin Arhire/Tudor Roşu (Hgg.): The Paris Peace Conference (1919–1920) and Its Aftermath: Settlements, Problems and Perceptions, Newcastle upon Tyne 2020, S. 133–158 (hier: S. 142/143).

[20] Thörner: »Der ganze Südosten ist unser Hinterland«, S. 320/321.

[21] Thörner: „Der ganze Südosten ist unser Hinterland“, Diss., S. 372.

[22] Hitchins: A Concise History of Romania, S. 160.

[23] Alexander Statiev: Antonescu's Eagles against Stalin's Falcons: The Romanian Air Force, 1920–1941, in: The Journal of Military History, Jg. 66 (2002), Nr. 4, S. 1085–1113 (hier: S. 1086).

[24] Ebenda, S. 1089.

[25] Hans-Jürgen Schröder: Deutsche Südosteuropapolitik 1929–1936 – Zur Kontinuität deutscher Außenpolitik in der Weltwirtschaftskrise, in: Geschichte und Gesellschaft – Zeitschrift für historische Sozialwissenschaft, Jg. 2 (1976), S. 5–32 (hier: S. 10).

[26] Martin Seckendorf: Entwicklungshilfeorganisation oder Generalstab des deutschen Kapitals? Bedeutung und Grenzen des Mitteleuropäischen Wirtschaftstages, in: 1999 – Zeitschrift für Sozialgeschichte des 20. und 21. Jahrhunderts, Jg. 8 (1993), Nr. 3, S. 10–33 (hier: S. 13).

[27] Ebenda, S. 25.

[28] Roswitha Berndt: Wirtschaftliche Mitteleuropapläne des deutschen Imperialismus (1926–1931) – Zur Rolle des Mitteleuropäischen Wirtschaftstages und der Mitteleuropa-Institute in den imperialistischen deutschen Expansionsplänen, in: Gilbert Ziebura (Hg.): Grundfragen der deutschen Aussenpolitik seit 1871, Darmstadt 1975, S. 305–334 (hier: S. 333).

[29] Alexander Statiev: When an army becomes ‘merely a burden’: Romanian defense policy and strategy (1918–1941), in: The Journal of Slavic Military Studies, Jg. 13 (2000), Nr. 2, S. 67–85 (hier: S. 75).

[30] Anand Toprani: Germany’s Answer to Standard Oil: The Continental Oil Company and Nazi Grand Strategy, 1940–1942, in: Journal of Strategic Studies, Jg. 37 (2014), Nr. 6–7, S. 949–973 (hier: S. 961).

[31] R. J. Overy: Göring’s ‘Multi-national Empire’, in: Alice Teichova/P. L. Cottrell (Hgg.): International Business and Central Europa, 1918–1939, New York (NY) 1983, S. 269–298 (hier: S. 279).

[32] Richard J. Overy: German multinationals and the Nazi state in occupied Europe, in: Alice Teichova/Maurice Lévy-Leboyer/Helga Nussbaum (Hgg.): Multinational enterprise in historical perspective, Cambridge u.a. 1989, S. 299–325 (hier: S. 311).

[33] Grant T. Harward: “To the End of the Line”: The Romanian Army in Operation Barbarossa, in: The Journal of Slavic Military Studies, Jg. 34 (2021), Nr. 4, S. 599–618 (hier: S. 617).

[34] Wolfgang Benz: Der „vergessene Holocaust“ – Der Sonderfall Rumänien: Okkupation und Verfolgung von Minderheiten im Zweiten Weltkrieg, in: Mariana Hausleitner/Brigitte Mihok/Juliane Wetzel (Hgg.): Rumänien und der Holocaust – Zu den Massenverbrechen in Transnistrien 1941–1944, Berlin 2001, S. 9–13 (hier: S. 10).

[35] Grant T. Harward: Romania’s Holy War – Soldiers, Motivation, and the Holocaust, Ithaca (NY)/London 2021, S. 161–168.




domenica 29 marzo 2020

Perché anche nel pieno della crisi Berlino rifiuta l'aiuto della Cina

Nonostante una evidente mancanza di materiale protettivo e di mascherine, il governo di Berlino rifiuta categoricamente ogni aiuto da parte della Repubblica popolare cinese, mentre sulla stampa che conta parte una campagna per stigmatizzare gli aiuti e gli interventi cinesi nell'Europa del sud. Anche nel pieno della crisi causata dal coronavirus, il governo di Berlino si percepisce come un attore geopolitico autonomo in grado di sfidare i cinesi sul terreno dell'egemonia mondiale. Ne scrive il sempre ben informato German Foreign Policy


(...) Offerta ignorata

Secondo quanto riportato dalla stampa, il presidente cinese Xi Jinping, nell'ambito della lotta al virus Covid 19, avrebbe offerto il suo aiuto anche alla cancelliera Angela Merkel. Lo sfondo è quello di un paese, la Germania, con il terzo maggior numero di infezioni in Europa, dopo Italia e Spagna. Se nella Repubblica Federale ce ne fosse "necessità", Pechino ovviamente sarebbe "pronta ad aiutare, nei limiti delle nostre capacità", avrebbe detto Xi: le crisi sanitarie sono "sfide comuni per l'umanità"; "unità e cooperazione" sono "le armi più potenti" contro di esse. [3] La Repubblica popolare cinese potrebbe anche immaginare di cooperare con la Germania in altri campi, come ad esempio lo sviluppo di vaccini. Finora da Berlino non è arrivata alcuna risposta all'offerta. La Germania è l'unico paese in Europa ad aver effettivamente rifiutato il sostegno di Pechino, almeno fino ad oggi.

"Non una singola mascherina"

Ciò è ancora piu' degno di nota perché in Germania c'è una palese carenza di materiali e di dispositivi di protezione. Nel frattempo, oltre l'80 percento dei medici tedeschi si lamenta della mancanza di dispositivi di protezione come mascherine respiratorie o tute protettive. Dato che il mercato mondiale si è praticamente svuotato, la sua organizzazione già diverse settimane fa si era rivolta al governo federale per avere supporto, spiega Walter Plassmann, presidente dell'Associazione delle casse mediche di Amburgo, il quale recentemente ha dichiarato: "non è successo nulla. Non abbiamo ottenuto nessuna mascherina". [4] La situazione negli ospedali è simile, anche lì mancano mascherine respiratorie e tute protettive. Il ministro della sanità del Nord Rhein-Westfalia, Karl-Josef Laumann, recentemente ha ordinato un milione di mascherine; tuttavia ne sarebbero arrivate solo 20.000, riferiva la stampa alla fine della scorsa settimana. Il Nordrhein-Westfalen è lo stato più colpito dalla pandemia; nella sola Heinsberg, l'epicentro dell'epidemia di Covid 19 della regione, sarebbero necessarie giornalmente almeno 7.500 mascherine protettive per bocca e naso e 2.200 maschere FFP2 [5]. C'è anche una carenza di attrezzature speciali come i ventilatori, ma anche di materiali semplici come i disinfettanti. I produttori stanno esaurendo le materie prime per la loro fabbricazione. [6]

"Ben preparato"

Da tempo vengono formulate gravi accuse nei confronti del governo federale, in particolare contro il ministro della sanità Jens Spahn. Spahn alla fine di gennaio e anche in seguito aveva ripetutamente dichiarato che il governo federale era "ben preparato" per tutti i casi immaginabili e possibili. Il suo ministero tuttavia non ha fatto nulla per ovviare alla prevedibile carenza di indumenti protettivi, nei confronti della quale l'Organizzazione mondiale della sanità aveva ufficialmente messo in guardia già il 7 febbraio. Documentato, ad esempio, è il caso di un imprenditore la cui azienda produce mascherine e indumenti protettivi per gli ospedali. L'uomo con diverse lettere aveva fatto presente al Ministero della Salute il rischio di una imminente carenza. Nell'occasione l'imprenditore aveva offerto al ministero la possibilità di riservare 1,5 milioni di mascherine facciali e 200.000 maschere respiratorie per gli ospedali tedeschi, nonostante l'enorme domanda globale, aveva concluso la sua lettera con una nota: "Mi appello a Lei, non sottovaluti il problema di questo virus". [7] L'imprenditore afferma di non aver ricevuto alcuna risposta da Berlino. A sua volta, il Ministero respinge qualsiasi responsabilità: "L'approvvigionamento di dispositivi di protezione individuale" in Germania è coordinato attraverso l'ufficio acquisti della Bundeswehr.

Campagna di propaganda

Mentre il governo federale continua a ignorare l'offerta di aiuto cinese nonostante la palese mancanza di dispositivi di protezione, i principali media tedeschi hanno iniziato a screditare sistematicamente le consegne di aiuti da parte di Pechino agli altri paesi europei. Un importante quotidiano tedesco, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, ad esempio, afferma che "l'aiuto fornito con dei grandi gesti" semplicemente fa "parte di una campagna di propaganda" con cui Pechino vuole distrarre dal fatto che in realtà la Cina è stata "la causa della crisi". [8] Un altro giornale (Tagesspiegel) afferma: "L'immagine di paese causa della pandemia, ora dovrebbe essere sostituita dall'immagine del paese soccorritore." [9] I partner della cooperazione cinese in Europa vengono deliberatamente presi di mira dalla stampa. Ad esempio, WirschaftsWoche scrive che se "la narrazione della Cina come grande soccorritore... dovesse prevalere", è "perché i cinesi trovano alleati in Europa a cui piace lavorare su questo mito". Uno di questi "alleati" sarebbe il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio, che "nel suo paese" è già stato ridefinito il  "Ministro cinese" [10].

Lotta per il potere contro Pechino

In effetti, i commenti dei media citati e il precedente rifiuto di Berlino di accettare aiuti dalla Cina fanno parte della grande lotta globale per l'egemonia mondiale, a cui la Repubblica Federale non si sottrae nemmeno durante la crisi causata dal coronavirus. Il governo federale invece vi si sta preparando, a prescindere dalla crisi.
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[1] Michael Peel, Tom Hancock, Valerie Hopkins, Miles Johnson: China ramps up coronavirus help to Europe. ft.com 18.03.2020.
[2] Alan Crawford, Peter Martin: 'Health Silk Road:'ssx China showers Europe with coronavirus aid as both spar with Trump. fortune.com 19.03.2020.
[3] Stuart Lau: Coronavirus: Xi Jinping calls leaders of France, Spain, Germany and Serbia with offers of support. scmp.com 21.03.2020.
[4] Cornelia Stolze: "Wir haben gemahnt, und keiner hat uns gehört". spiegel.de 19.03.2020.
[5] Lukas Eberle, Hubert Gude: "Liefert irgendwas!" spiegel.de 20.03.2020.
[6] Hersteller von Desinfektionsmitteln starten Hilferuf: Ethanol wird knapp. rnd.de 22.03.2020.
[7] Cornelia Stolze: "Wir haben gemahnt, und keiner hat uns gehört". spiegel.de 19.03.2020.
[8] Friederike Böge, Stephan Löwenstein, Michael Martens, Matthias Rüb: Vom Verursacher der Krise zum Retter in der Not? Frankfurter Allgemeine Zeitung 18.03.2020.
[9] Gloria Geyer: Wie sich China in der Corona-Krise Einfluss in Europa sichert. tagesspiegel.de 19.03.2020.

[10] Silke Wettach: China wirft die Propaganda-Maschine an. wiwo.de 19.03.2020.
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mercoledì 27 novembre 2019

Perché quella tedesca resta un'egemonia a metà

"La Germania rimane in una posizione problematica di semi-egemonia: il paese ha la forza sufficiente per imporre le sue regole, ma non per farle rispettare. Mentre gli altri stati sono abbastanza forti per infrangere le regole, ma non per cambiarle", scrive l'ottimo Hans Kundnani sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Per uscire da questa condizione semi-egemonica i tedeschi dovrebbero ripensare il loro modello economico ed eliminare la loro dipendenza dall'export e quindi dai loro mercati di sbocco. Per un paese che ha fatto dell'export un vanto nazionale e un elemento della propria identità, una rinuncia del genere sembra alquanto improbabile. Ne scrive Hans Kundnani sulla FAZ


Con lo scoppio dell'eurocrisi nel 2010, il futuro della Germania è diventato alquanto incerto. La crisi ha innescato un rinnovato dibattito sull'egemonia tedesca in Europa, dibattito che si è intensificato in seguito alla crisi dei rifugiati del 2015. Dopo l'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel 2016, il futuro dell'alleanza transatlantica e lo stesso "ordine internazionale liberale" sono diventati alquanto incerti. Come si muoverà la Germania in una fase in cui tutto sembra cambiare - che gli analisti come Wolfgang Streeck definiscono un "interregno" nel senso gramsciano del termine?

Gli analisti di politica estera hanno regolarmente ignorato i problemi emersi durante la crisi dell'euro. Ma ciò non significa che i problemi siano stati risolti. Mentre il caos britannico ha provocato un rinnovato impegno retorico nei confronti del progetto europeo, l'integrazione europea è finita su di un binario morto. Nel frattempo la Germania rimane in una posizione problematica di semi-egemonia. Ciò significa in pratica che il Paese ha la forza sufficiente per imporre le proprie regole, ma non per farle applicare. Mentre gli altri stati sono abbastanza forti per infrangere le regole, ma non per cambiarle.

La serie di crisi che a partire dal 2010 hanno afflitto l'UE potevano rappresentare una oportunità di cambiamento. Durante la crisi dell'euro, i paesi dell'Europa meridionale, infatti, hanno accusato la Germania di non mostrare una "solidarietà" sufficiente. Durante la crisi dei rifugiati è stata la Germania invece a chiedere a sua volta "solidarietà" agli altri stati membri. Questa opportunità avrebbe potuto essere la base per un accordo complessivo basato su una comprensione comune dei diritti e degli obblighi fra gli Stati che fanno parte sia dell'area dell'euro che di Schengen, di fatto un "nucleo europeo". Ma invece di collegarle fra loro, la Germania ha cercato di separare entrambe le questioni. L'Europa è in trappola, come diceva Claus Offe.

L'elezione di Donald Trump potrebbe trasformarsi nel più grande shock strategico per l'intera Europa. Per Berlino emerge un dilemma particolarmente difficile: la posizione di semi-egemonia della Germania in Europa dipende da una particolare configurazione dell'ordine internazionale liberale sul quale la Germania ha viaggiato con un biglietto gratuito. Con ciò si intendono in particolar modo gli impegni in termini di sicurezza degli Stati Uniti, che in linea di principio hanno reso irrilevante la questione del potere militare nelle relazioni intraeuropee e hanno trasformato l'America in un consumatore di beni sempre disponibile. Oggi Washington è meno disposta a farlo rispetto al passato e potrebbe anche rinunciare a una parte della propria egemonia.

Le incertezze in merito agli impegni americani in materia di sicurezza  in Europa , negli ambienti geo-politici tedeschi hanno portato a una divisione fra atlantisti e post-atlantisti. Mentre gli atlantisti tendono a sottostimare il cambiamento strutturale nella politica estera degli Stati Uniti, i post-atlantisti non riconoscono l'entità delle difficoltà che l'Europa deve affrontare nello sviluppare autonomamente una strategia alternativa alle garanzie di sicurezza americane. Il problema è che anche gli stessi passi prudenti dell'Europa in direzione dell'autonomia strategica potrebbero ulteriormente indebolire l'impegno degli Stati Uniti.

I tedeschi non si sentono minacciati

Ma mentre sia gli atlantisti che i post-atlantisti parlano della necessità di rispondere alle nuove minacce in un mondo sempre più pericoloso, i tedeschi sembrano essere sempre piu' preoccupati dalla possibilità di perdere la loro identità di paese di pace. Nonostante le incertezze relative alla garanzia militare americana, i tedeschi semplicemente non si sentono minacciati. Molti oggi, ifnfatti, ritengono che l'assunzione di una maggiore "responsabilità", e in particolar modo un drastico aumento della spesa per la difesa, sarebbe una concessione a Trump e alle sue politiche.

Il futuro delle relazioni fra Germania e Cina dipende dal ruolo della Germania in Europa e dalle sue relazioni con gli Stati Uniti. Negli ultimi dieci anni la Germania è diventata sempre più dipendente dalla Cina come mercato di esportazione, soprattutto dopo che la domanda europea nel corso della crisi dell'euro è calata. Di conseguenza si è sviluppata una stretta relazione politica tra Berlino e Pechino. La crisi ha diviso l'Occidente fra paesi in surplus e paesi in deficit, avvicinando Cina e Germania.

Mentre la Cina sotto Xi Jingping iniziava ad acquistare società di medie dimensioni e diventava sempre più autoritaria, la Germania invece sembrava essere sempre più scettica ed incline ad un approccio fondato su un maggiore coordinamento transatlantico. Ma l'elezione di Donald Trump ha dato nuovo slancio all'idea di un'Europa come polo indipendente in un mondo multipolare nell'ambito di un triangolo con la Cina e gli Stati Uniti. In Cina, molti ritengono si tratti del partner più promettente, soprattutto in materia di cambiamenti climatici - e recentemente il governo tedesco è sembrato addirittura aver perso interesse nei confronti di un corso politico piu' severo in Europa.

La Germania deve ripensare il suo modello economico

Dietro queste difficili sfide di politica estera resta l'impegno costante da parte della Germania nei confronti di un modello economico basato sulle esportazioni che, nonostante le debolezze diventate ben visibili nell'ultimo decennio, può essere considerato senza dubbio un successo. Ma questo modello economico rende difficile la correzione degli squilibri macroeconomici all'interno dell'area dell'euro e ostacola nel lungo periodo l'esistenza di una moneta unica. Inoltre fa arrabbiare gli americani rendendo la Germania particolarmente vulnerabile agli attacchi di Trump e quindi dipendente dalla Cina autoritaria.

Ripensare il proprio modello economico è forse la sfida più grande per la Germania. Ciò sarebbe positivo non solo per i partner della NATO e dell'UE, i quali trarrebbero beneficio dall'aumento della domanda interna tedesca, ma anche per la Germania stessa: l'ossessione per la competitività della Germania ha promosso la disuguaglianza e l'insicurezza politica. L'infrastruttura fatiscente del paese richiede investimenti urgenti. Il forte consenso politico sull'identità della Germania come nazione esportatrice, tuttavia, vieta un tale ripensamento.

La domanda è se la Germania sia in grado o meno di ripensare questo modello prima che sia troppo tardi. Lentamente gli Stati Uniti si ritirano dal loro ruolo egemonico, che detengono dalla seconda guerra mondiale. Sembrano sempre meno disposti a fornire merci globali come la sicurezza e la domanda di beni, specialmente per l'Europa, che giustamente ritengono dovrebbe essere in grado da sola di prendersi cura di sé stessa. Mentre tutto, intorno a loro, si muove, i tedeschi pensano di poter ancora andare avanti come prima.

Molti vedono in ciò un'espressione dell'impegno della Germania nei confronti del liberalismo - e persino di una leadership tedesca in una situazione in cui il paese si vede sempre più circondato da forze "illiberali". Ma un tale pensiero binario in bianco e nero è un errore. Se la Germania vuole davvero salvare l'ordine liberale internazionale, il paese dovrà cambiare il proprio ruolo all'interno di questo ordine. A livello economico, ciò significa piu' che altro un aumento della domanda interna e una riduzione della dipendenza dalle esportazioni. In termini di sicurezza, significa fare molto di più per la sicurezza dell'Europa, oppure, se la Germania non fosse disposta a farlo, chiedersi allora quale prezzo il paese è disposto a pagare agli altri stati in cambio di questa sicurezza.



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lunedì 8 aprile 2019

Il ritorno della questione tedesca

La NATO festeggia i 70 anni di vita ma per la stampa tedesca non si tratterebbe di una festa fra amici, sarebbero ormai troppe infatti le divergenze fra gli americani e gli europei: Nord stream 2, la spesa militare troppo bassa, il multilateralismo franco-tedesco e il riaprirsi della questione tedesca. Per German Foreign Policy lo scenario europeo attuale sarebbe molto simile a quello del 1871 e le élite politiche americane iniziano ad essere preoccupate. Ne scrive il sempre ben informato German Foreign Policy


"Non è una festa tra amici"

La celebrazione del 70 ° anniversario della fondazione della NATO è stata accompagnata da notevoli tensioni interne all'alleanza nord-atlantica. I commentatori sui media tedeschi vicini al governo di Berlino (Deutsche Welle) scrivono che il "compleanno della NATO" non sembra essere "una festa tra amici". [1] Diversamente dalla maggior parte delle alleanze militari terminate in tempi relativamente brevi, la NATO ha già raggiunto un'età quasi "biblica", scrivono invece i giornali apertamente transatlantici (FAZ), i quali parlano di festeggiamenti con il "freno a mano tirato" [2]. L'alleanza militare occidentale è stata rinominata “l‘alleanza degli svogliati", e si trova "nella più grave crisi dalla sua fondazione". [3] Fra le élite politiche americane cresce "la frustrazione nei confronti di Berlino", ha detto un ex ambasciatore USA presso la Nato: la Germania deve "assumersi le responsabilità che le spettano" e "riempire il vuoto" lasciato dall'amministrazione Trump nelle relazioni transatlantiche.


Le spese militari

Apparentemente lo scontro tra Berlino e Washington, tornato ad accendersi nei giorni delle celebrazioni, riguarderebbe il bilancio militare tedesco, che l'amministrazione Trump in piu' occasioni ha criticato pubblicamente in quanto considerato troppo basso. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump insiste affinché Berlino aumenti le spese militari fino al 2% del PIL, obiettivo fissato dalla NATO nel 2014 come parametro per gli Stati membri. Berlino a sua volta si è impegnata ad aumentare il budget della difesa fino all'1,5 % del PIL entro il 2024, per poi aumentarlo ulteriormente negli anni successivi [4]. Gli Stati Uniti nel 2018 per le proprie forze armate hanno speso 643 miliardi di dollari, due volte e mezzo la spesa di tutti i paesi europei della NATO i cui bilanci per la difesa ammontano a 264 miliardi di dollari. La Germania, la più grande economia della zona euro, ha speso per la difesa 45 miliardi di dollari, la Francia 53 miliardi, la Gran Bretagna addirittura 56 miliardi [5]. L'affermazione secondo cui l'aumento della spesa sarebbe necessaria per difendersi dalla minaccia di potenziali attacchi da parte degli avversari è smentita dalle dimensioni della loro spesa per la difesa: il bilancio militare russo, con un volume di 63 miliardi di dollari, è solo leggermente più grande dei singoli bilanci di Francia o Gran Bretagna, e anche la spesa militare della Cina nel 2018, con un equivalente di 168 miliardi di dollari, è rimasta ben al di sotto della spesa totale dei paesi europei della NATO.


"L'aggressione russa"

Nell'ambito delle celebrazioni per il 70° anniversario della NATO, il vice presidente degli Stati Uniti, Mike Pence, alla critica sulla inadeguatezza dello sforzo della Germania in termini di spesa militare, ha aggiunto un nuovo attacco relativo alla cooperazione energetica fra Berlino e Mosca [6]. Non si può "garantire la difesa dell'Occidente", ha dichiarato Pence, riferendosi al gasdotto Nord Stream 2, il quale rafforza le forniture dirette di gas dalla Russia verso la Germania, "se i nostri alleati sono sempre più dipendenti dalla Russia." La Germania, "la più grande economia europea", non dovrebbe "ignorare il pericolo di un’aggressione russa" e quindi "trascurare la sua autodifesa e la nostra difesa comune". Washington da tempo ha intensificato la pressione in merito a Nord Stream 2 e chiede al suo posto una maggiore disponibilità ad acquistare Fracking-gas liquefatto americano [7]. Se Berlino dovesse aderire al Nord Stream 2, "l'economia tedesca si trasformerebbe letteralmente in un ostaggio della Russia", ha detto Pence durante le celebrazioni della NATO.


"Multilateralismo" tedesco

A Washington le aperte ambizioni egemoniche di Berlino nella UE vengono registrate con una certa preoccupazione, come del resto i crescenti sforzi tedesco-europei per raggiungere l’autonomia strategica "nei confronti degli Stati Uniti”. Grazie a Nord Stream 2, infatti, la Germania in definitiva otterrebbe il ruolo di distributore centrale del gas naturale russo in Europa occidentale [8]. Ciò vale, ad esempio, per l'iniziativa franco-tedesca finalizzata a rafforzare il "multilateralismo" in diversi ambiti politici, annunciata all'inizio di aprile. [9] Berlino e Parigi stanno dimostrando che "il multilateralismo e le Nazioni Unite" sono sostenuti da una maggioranza di Stati, hanno dichiarato i ministri degli Esteri di Germania e Francia dando cosi' una stoccata alla politica unilaterale dell'amministrazione Trump. Stiamo combattendo "insieme" contro il cambiamento climatico, l'ineguaglianza e le conseguenze negative delle nuove tecnologie. Si tratta di "mostrare al mondo quali sono le conseguenze dell’unilateralismo, dell’isolazionismo e del nazionalismo", ha affermato il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian.


I motivi fondativi della NATO

In considerazione di ciò, le élite della politica estera americana - anche quella parte che si pone criticamente nei confronti dell'amministrazione Trump, formulano delle importanti riserve [10]. Sulla rivista "Foreign Affairs", la principale rivista di politica estera degli Stati Uniti, pochi giorni fa si parlava infatti del ritorno della "questione tedesca". Sin dalla fondazione del Reich tedesco nel 1871, infatti, la Germania è sempre stata una potenza troppo grande e troppo popolosa nel cuore d'Europa; ciò al'epoca aveva distrutto l'equilibrio dei poteri interno all'Europa e prodotto "due guerre mondiali", scrive "Foreign Affairs". La NATO nasce non solo a causa della "sfida sovietica", ma anche per risolvere la "questione tedesca": si trattava di mantenere "l’Unione Sovietica al di fuori, gli americani dentro, e la Germania sotto". Il processo di integrazione europea sotto l'egemonia statunitense sarebbe stata "l'unica soluzione convincente al problema delle relazioni tedesche con l'Europa". Un'Europa che si integra, che mette al bando i nazionalismi, deve essere in primo luogo un'Europa che mette al bando il "nazionalismo tedesco" – perché questo notoriamente ha avuto un importante "ruolo distruttivo nel sanguinoso passato europeo."


La costellazione del 1871

L’erosione dei pilastri su cui si fondava l’ordine sorto nel dopoguerra e il crescente nazionalismo, ripropongono in Europa la stessa costellazione del 1871, scrive "Foreign Affairs" - questa volta però ad un livello "geo-economico" [11]. Dopo lo scoppio della crisi dell'euro, si sono sviluppati dei fronti simili a quelli presenti alla fine del 19° secolo, perché “l’egemonia economica ha dato alla Germania la possibilità" di imporre la sua politica di austerità "al resto d'Europa". In molte parti dell'UE è cresciuto il risentimento nei confronti della Repubblica federale. Fuori dalla Germania “si è parlato spesso di costituire un comune fronte anti-tedesco", mentre in Germania si è fatto largo un "sentimento di vittimismo" - la Repubblica Federale infatti ritiene di essere circondata da "economie deboli". In passato si era riusciti a seppellire in profondità la "questione tedesca" grazie ad una favorevole costellazione storica: prosperità e libero scambio, egemonia degli Stati Uniti, integrazione europea. Di fronte alla crisi e al nazionalismo, quelle "circostanze favorevoli" tuttavia non esistono piu’. La domanda è: "quanto tempo ancora potrà resistere la quiete se il resto del mondo e gli Stati Uniti continueranno sulla rotta attuale?" L'UE attualmente, secondo la rivista statunitense, può essere descritta come una bomba della seconda guerra mondiale inesplosa. In questa analogia, il presidente degli Stati Uniti Trump si comporterebbe come un "bambino con il martello", che vivace e spensierato continua a colpire un dispositivo esplosivo. Quella stessa bomba che dal punto di vista di Washington, indipendentemente da Trump, rappresenta un problema.


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[1] NATO-Geburtstag: Kein Fest unter Freunden. dw.com 04.04.2019.
[2] Lorenz Hemicker: Feiern ohne Trump. faz.net 04.04.2019.
[3] Robert Birnbaum, Malte Lehming, Susanne Güsten, Claudia von Salzen: Allianz der Unwilligen. tagesspiegel.de 03.04.2019.
[4] Daniel Brössler, Hubert Wetzel: Maas: "Wir beabsichtigen, unser Wort zu halten". sueddeutsche.de 03.04.2019.
[5] Lucie Béraud-Sudreau: On the up: Western defence spending in 2018. iiss.org 15.02.2019
[6] Pence calls Germany stance in NATO "unacceptable". yahoo.com 03.04.2019.
[7] S. dazu Die Macht der Röhren.
[8] S. dazu Berlins Kampfansage
[9] Edith M. Lederer: France and Germany launch alliance to back multilateralism. foxnews.com 04.04.2017
[10], [11] Robert Kagan: The New German Question. foreignaffairs.com 02.04.201
9.

giovedì 31 gennaio 2019

La "Lex Audi" e il dominio dell'industria dell'auto tedesca in Ungheria

Nel paese che non fa entrare i migranti e che grazie al Fiorino ha ancora il cambio flessibile, i lavoratori dell'Audi di Győr dopo appena 3 giorni di sciopero hanno portato a casa un aumento salariale del 18%. Le aziende tedesche tuttavia restano di gran lunga il principale investitore estero nel paese e le case automobilistiche continuano ad imporre i propri interessi suggerendo ad Orban la famosa legge sulle 400 ore di straordinario, ribattezzata anche "Lex Audi". Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy


Lotta dei lavoratori a Győr

Continua l'azione dei lavoratori negli stabilimenti Audi di Győr, in Ungheria. Gli operai lo scorso giovedì hanno iniziato uno sciopero di una settimana per ottenere un aumento salariale del 18%. Attualmente all'assemblaggio di Győr il salario medio è di 1.100 euro lordi al mese; secondo i sindacati si tratta del 28 % in meno rispetto allo stipendio medio presso lo stabilimento Audi in Slovacchia e il 39 % in meno rispetto a quanto guadagnano in media i dipendenti Audi in Polonia, mentre i lavoratori Audi in Belgio guadagnano in media 3,6 volte i loro omologhi in Ungheria - nonostante un costo della vita che nelle città ungheresi come Győr non è significativamente inferiore rispetto all'Europa occidentale. I lavoratori chiedono un aumento salariale del 18%, almeno 75.000 fiorini (circa 236 euro). Pur restando i dipendenti Audi peggio pagati di tutto il continente, la controllata del gruppo Volkswagen si rifiuta di cedere alle loro richieste. Ecco perché nella sede di Audi a Ingolstadt, in Germania, il lavoro è fermo da lunedì: mancano i motori prodotti a Győr.

Ungheria paese di produzione dell'industria dell'auto

Audi Ungheria è il più grande investimento diretto estero in Ungheria con un volume di quasi nove miliardi di euro investiti a partire dal 1993. A Győr non solo vengono prodotte più di 100.000 auto all'anno, ma anche circa due milioni di motori installati nei veicoli dei marchi Audi e VW. Lo stabilimento nel suo genere è considerato il più grande di tutto il mondo. Oltre ad Audi, anche Daimler dal 2012 gestisce uno stabilimento in Ungheria; a Kecskemét, dove nel 2017 sono stati assemblati circa 190.000 veicoli, più che in qualsiasi altro sito di produzione ungherese. Mentre Daimler a Kecskemét sta costruendo un secondo stabilimento con un investimento di circa un miliardo di euro, anche BMW, la terza casa automobilistica tedesca, ha annunciato di voler costruire uno stabilimento in Ungheria. Nel nuovo sito vicino a Debrecen sarà realizzato un investimento da circa un miliardo di euro. Parallelamente alle tre principali case automobilistiche tedesche, anche diversi fornitori tedeschi si sono stabiliti in Ungheria, fra questi Bosch, Continental, Schaeffler e ZF Friedrichshafen. Alcuni di questi stanno anche espandendo le loro attività; Bosch, ad esempio, ha annunciato di voler ampliare il proprio centro di ingegneria a Budapest con un investimento da 120 milioni di euro. FAG Magyarország, una filiale del gruppo tedesco Schaeffler, ha appena aperto un nuovo stabilimento produttivo a Debrecen.

Dominio tedesco

Gli investimenti in costante crescita da parte dell'industria automobilistica tedesca, che si avvantaggiano dei bassi salari ungheresi, hanno portato a un duplice effetto. Da un lato l'industria automobilistica domina l'economia del paese: attualmente rappresenta quasi il 30 % della produzione manifatturiera. Un settore egemonizzato dalle società straniere, mentre le piccole e medie imprese nazionali, come illustrato in una presentazione austro-tedesca dell'IHK, "agiscono più a livello locale e sono poco coinvolte nella filiera dei produttori internazionali".[1] Fra le aziende straniere a dominare è l'industria tedesca. Oltre ad Audi, Daimler e BMW c'è Suzuki che ad Estzergom produce circa 176.000 vetture l'anno, mentre Opel a Szentgotthárd produce circa 500.000 motori all'anno; entrambe restano significativamente indietro rispetto alla produzione complessiva delle aziende tedesche in Ungheria. Secondo i dati dell'agenzia di commercio estero Germany Trade & Invest (gtai), quasi un quarto (22,9%) dello stock degli investimenti diretti esteri in Ungheria arriva dalla Germania; l'ipotesi secondo cui anche l'investitore numero due (Paesi Bassi con il 18,6%) e numero tre (Austria con il 10,6%) nascondano imprese parzialmente tedesche è plausibile; entrambi i paesi sono noti come postazioni per il rilancio degli investimenti esteri tedeschi. 

La "Lex Audi"

L'espansione delle fabbriche automobilistiche tedesche in Ungheria è dovuta non solo ai bassi salari, ma anche alla debolezza dei sindacati, almeno fino ad ora, e alle altre condizioni molto favorevoli per i gruppi industriali presenti nel paese. Ad esempio nel 2017 il governo del primo ministro Viktor Orbán ha ridotto i contributi per la sicurezza sociale dal 27,5% al 19,5% e abbassato l'aliquota dell'imposta sulle società al 9%; il secondo valore più basso dell'UE. La produzione totale dovrebbe aumentare da poco meno di 500.000 automobili nel 2015 a più di 710.000 nel 2025, fino ad oltre 780.000 nel 2027. La forza lavoro tuttavia scarseggia. E dato che il governo di Orbán non vuole l'immigrazione - compresa l'immigrazione di forza lavoro [2] - ha scelto una strada diversa e a dicembre ha approvato una legge che aumenta drasticamente l'orario di lavoro come sostituto dell'immigrazione. In futuro le aziende potranno obbligare i propri dipendenti a fare non 250 ore di straordinario, ma bensì fino a 400 ore di straordinario all'anno; la compensazione non dovrà avvenire entro un anno, ma entro tre anni. Gli osservatori concordano sul fatto che la legge entrata in vigore, di fatto consente la reintroduzione della settimana di sei giorni. Poiché la legge difende principalmente l'interesse delle case automobilistiche tedesche, in Ungheria è stata ribattezzata non solo la "legge schiavitù", ma anche come "Lex Mercedes" o "Lex BMW" o "Lex Audi". [3] 

Il sistema Orbán

La gestione dell'Ungheria secondo gli interessi delle aziende tedesche di fatto permette al primo ministro ungherese di portare avanti il corso repressivo dello Stato [4]. ​​I siti automobilistici danno al paese un ruolo importante nel sistema dell'economia continentale - mentre la crescente volontà di cooperare da parte dell'industria tedesca garantisce ad Orbán un certo livello di supporto presso la potenza centrale dell'UE.

Messo in discussione

A causa delle recenti proteste in Ungheria, per la prima volta questo modello tuttavia viene messo in discussione. L'opposizione era già scesa in piazza contro la nuova legge sugli straordinari con una forza e una unità mai viste prima in Ungheria. A dicembre i lavoratori dello stabilimento Daimler di Kecskemét, lottando hanno ottenuto un aumento salariale del 22% per quest'anno, e di un altro 13% per il prossimo anno. L'attuale sciopero presso la Audi di Győr aumenta la pressione per ridurre i super-profitti delle aziende tedesche nell'Ungheria di Orban.
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sabato 26 gennaio 2019

Bisogna aver paura degli artigli dell'Aquila?

"Non ci sono due Germanie, una buona e una cattiva...la Germania cattiva, è solo il fallimento di quella buona, il buono nella sfortuna, nella colpa e nella rovina", scrive German Foreign Policy nel suo editoriale di gennaio. Bellissima riflessione storico-politica del direttore di GFP, Hans-Rüdiger Minow, in occasione della recente firma del trattato di Aachen con il partner francese.




Sicuramente conoscerete l'Aquila tedesca che ancora oggi si può vedere sulle bandiere issate davanti ai giardini privati ​​tedeschi - e che è anche l'icona di stato della Repubblica Federale.

Ciò che normalmente sventola in modo innocuo tra le aiuole tedesche è anche il simbolo di un'egemonia che proietta ombre pesanti su tutta l'Europa.

Queste ombre (economiche, politiche e culturali) però non si riescono sempre a vedere, perché nei racconti ufficiali vengono continuamente ritoccate.

Il ritocco non è una censura:

i racconti ufficiali perdono cosi' i loro contorni piu' problematici. Ci vengono risparmiate le realtà piu' oltraggiose. I contorni diventano più morbidi, diventano un'abitudine, fino al momento in cui nessuno sentirà piu' il bisogno di alzare la voce.

Nella realtà, nell'ombra quotidiana fatta di condizioni di vita profondamente disuguali, mentre alcuni in Europa continuano a cercare bottiglie riutilizzabili nei contenitori dei rifiuti, altri invece, nella luce del sole se la passano piuttosto bene. Ma dire che se la passano bene in questo caso non è abbastanza. Sprecano, scialacquano - e in una misura tale da rendere la ricchezza qualcosa di non piacevole: a guardarla sembra davvero un'oscenità.

Ed è proprio il dominio tedesco sull'Europa a stabilizzare queste condizioni - dal punto di vista economico, politico e culturale.

L'icona dell'Aquila che distende le ali, raffigurata sulle bandiere tedesche, risale all'idea di un "impero" continentale. Per questo nella tedesca Aachen ogni anno viene assegnato un premio che porta il nome di un sovrano medievale, un re che secondo i nostri standard attuali dovremmo considerare un barbaro. Il suo "impero", a cui è legato il cosiddetto premio Karlspreis, era un impero che espandeva costantemente la sua base economica attraverso continue guerre.

L'idea del Reich, dopo Carlo, il cosiddetto "Magno", nella storia nazionale tedesca è sempre stata una forte tentazione e un immenso pericolo per i vicini dei tedeschi in Europa ...

Dopo le guerre perse, "l'aquila imperiale" veniva raffigurata con le ali appese - come nel simbolo di stato della Repubblica di Weimar ...

... in tempi di ambizioni egemoniche e di dominio sull'Europa, queste ali sono cresciute di nuovo e gli artigli sono tornati minacciosi - come nell'emblema nazionale di ogni"Reich" tedesco, nel 1945 martoriato militarmente....militarmente...ma economicamente e politicamente è rimasto intatto. L'aquila continua a volteggiare.

Lo stato tedesco di oggi pensa di essere "identico al Reich tedesco". L'icona dell'aquila nello stemma della Repubblica Federale sottolinea questa ambizione "imperiale". Come un' ombra cupa che non si proietta solo sull'Europa:

Berlino è diventata egemone sul continente.

Appena riunificata, ha condotto una guerra in violazione del diritto internazionale (almeno una), per la distruzione della Repubblica di Jugoslavia...la Germania si è presentata sulla scena internazionale come una potenza in grado di ristabilire l'ordine. Berlino la chiama "Weltpolitik".

I diritti umani sono il pretesto per questa "politica mondiale". Berlino persegue la tutela dei cosiddetti diritti umani soprattutto nell'Europa dell'est, proprio nel luogo in cui milioni di persone sono state derubate dei loro più elementari diritti umani all'ombra dell'Aquila: hanno perso la loro vita e la loro umanità mentre morivano sotto gli stivali dei soldati tedeschi.

Berlino nel frattempo ha iniziato a immischiarsi anche in Cina, meno per i diritti umani, molto di piu' per la pressione economica e geopolitica che può esercitare su di essa... Berlino cerca di riorganizzare l'Africa...Berlino invia truppe tedesche.

L'ampliamento e la radicalizzazione del colpo d'ala tedesco sta prendendo proprio quelle forme tanto temute quando i confini dell'Europa centrale e orientale sono crollati.

Le conseguenze della leadership tedesca nell'Europa dell'UE da molto tempo ormai sono un tema quotidiano nei paesi dell'Europa meridionale e sud-orientale. L'aquila anche se in una forma graficamente rivista, ma con ali decisamente aperte e gli artigli chiaramente visibili, è nuovamente riconoscibile.

Questa sensazione di déjà-vu e di aver già visto qualcosa di simile, rende l'icona dell'aquila nell'emblema di stato della Repubblica Federale un simbolo minaccioso.

La minaccia si fonda sull'eccezionale potere economico tedesco - e sulle esercitazioni militari alle quali si sono uniti anche i governi neoliberisti dei vicini paesi dell'Unione europea. A Berlino si discute apertamente di armi nucleari - con l'obiettivo di una "compartecipazione tedesca".

Bisogna aver paura della Repubblica Federale Tedesca? Dipende.

Chi ha fiducia nei risultati raggiunti dalla cultura tedesca dirà di no. Chi ha conosciuto la freddezza e la mancanza di scrupoli dei tedeschi starà in guardia.

Thomas Mann nel 1945 ha detto:

"non ci sono due Germanie, una buona e una cattiva...La Germania cattiva, è solo il fallimento di quella buona, il buono nella sfortuna, nella colpa e nella rovina."

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