venerdì 19 febbraio 2021

Heiner Flassbeck - Buona fortuna, Mario!

"Non illudiamoci, con questa Germania non è possibile fare l'Europa. Come potrebbe il primo ministro italiano riuscire a fare quello che il presidente della BCE non è riuscito a fare, cioè lanciare una discussione calma e razionale sulla politica economica... in cui i tedeschi capiscano da subito che non se la caveranno con i loro soliti vecchi luoghi comuni neoliberisti e monetaristi e le loro ambizioni mercantiliste. Tutti quelli che hanno ancora la testa sul collo non possono che tifare per Mario Draghi", scrive il grande economista tedesco Heiner Flassbeck. Per Flassbeck il potenziale politico di Mario Draghi in Europa è enorme, ma anche le resistenze che incontrerà sul suo percorso saranno molto forti, soprattutto nel nord del continente. Ne scrive Heiner Flassbeck su Makroskop.de

Pover'uomo, ho pensato immediatamente quando ho sentito che Mario Draghi aveva accettato il mandato da Presidente del consiglio per formare il nuovo governo italiano. Ma riflettendo, invece, mi sono poi reso conto che Mario, che conosco da più di 20 anni, e dal mio punto di vista può anche essere povero - e forse anche dal suo - probabilmente per l'Italia rappresenta invece un'opportunità unica.

Quale paese può dire di avere un primo ministro che non solo ha ricevuto un ampio sostegno dai partiti rappresentati in Parlamento, sia di destra che di sinistra, ma che ha anche collezionato un'esperienza unica sia in campo interno che internazionale. Mario Draghi sin dai primi anni '90 ha fatto parte (e si è assunto la responsabilità) di tutti i principali organismi che si occupano di economia globale, europea ed italiana. Ha assunto la più importante posizione in materia di politica economica all'interno dell'eurozona in un momento in cui l'Unione Monetaria (UEM) era sull'orlo del collasso, offrendole un appiglio in una fase cruciale.

Nulla di tutto ciò, naturalmente, può garantire che sarà anche in grado di partecipare agli intrighi e ai complotti tipici della politica, e di portare a termine e con successo anche questo incarico. Ma il potenziale della sua ambizione politica è enorme, data la sua vasta esperienza e conoscenza sulle questioni cruciali. E in ogni caso è molto più grande di quello di qualsiasi altro politico a cui è stato permesso di prendere il timone a Roma, almeno negli ultimi trent'anni.



L'Italia e l'unione monetaria

Chiunque abbia avuto a che fare con l'Italia, al di là dei soliti pregiudizi molto diffusi - soprattutto in Germania -, saprà bene che la questione italiana, il problema italiano, diciamo così, è un problema essenzialmente legato all'ingresso dell'Italia nell'unione monetaria. A causa della particolare posizione di partenza dell'Italia, che ho descritto in dettaglio nel numero tematico di MAKROSKOP - "Debito ed espiazione", sin dagli esordi dell'euro, il paese è sempre stato sulla difensiva. La ragione più semplice è che l'Italia e gli altri paesi membri dell'eurozona morivano dalla voglia di rinunciare alla loro "sovranità monetaria" (che in realtà non avevano mai posseduto) e per farlo erano pronti a ingoiare un certo numero di rospi (tedeschi) molto grassi.

La speranza di poter avere, grazie ad una grande area monetaria europea, una politica economica che, come negli Stati Uniti, sarebbe stata orientata soprattutto alle esigenze interne di un'economia grande e relativamente chiusa e di conseguenza, avrebbe messo la domanda interna e l'occupazione al centro degli  sforzi della banca centrale, all'inizio non era affatto infondata. Alla fine però, la Bundesbank, da sempre concentrata sulla stabilizzazione dei prezzi, era stata sostituita da un'istituzione che, per essere sicuri, nella interpretazione letterale dei trattati (e naturalmente su veemente insistenza tedesca) era ancora più votata al contenimento dell'inflazione come suo unico obiettivo centrale. Ma chiunque abbia preso seriamente in considerazione le "soluzioni" europee, all'epoca sapeva bene che in questa Europa, appunto, le pietanze non potevano essere "mangiate così calde come venivano cucinate".

Anche fra i firmatari del trattato di Maastricht, infatti, nessuno poteva immaginare che subito dopo l'avvio dell'unione monetaria il paese più grande avrebbe cominciato a "olandesizzare" se stesso, cioè a vivere a spese dei suoi vicini, come aveva già fatto "con un certo successo" l'Olanda negli anni '80 grazie alla sua politica di dumping salariale. Che a farlo invece sia stato proprio un governo tedesco rosso-verde, tra tutti, un governo inciampato su questa "via d'uscita" a causa della sua completa incompetenza economica, è stata una coincidenza. Ma il fatto che in questo modo abbia bloccato lo sviluppo economico di tutta l'Europa, può essere considerata un'esperienza davvero unica in Europa.

La Germania, tra le altre cose, nonostante i suoi successi alquanto superficiali, ha rovinato per sempre il proprio sistema economico di successo, che dagli anni '70 era diventato l'ancora di tutte le alleanze monetarie europee, in quanto di fatto ha reso impossibile al paese raggiungere un elevato livello di occupazione senza un surplus delle partite correnti.



Per l'Italia questo processo è stato senza dubbio fatale, perché firmando il Trattato di Maastricht si è messa addosso un vestito fiscale che sarebbe stato sopportabile solo se l'Italia avesse avuto un grande successo nelle esportazioni e/o se la crescita fosse stata spinta dagli investimenti delle imprese in un'Europa complessivamente fiorente. La Germania, tuttavia, con la sua condotta ha bloccato il primo e il secondo percorso perché la sua politica di dumping salariale ha di fatto sbarrato la strada dell'export agli altri paesi dell'unione monetaria e allo stesso tempo ha soffocato la propria domanda interna e quella europea. Tutti gli altri paesi dell'unione monetaria, infatti, per non affondare in maniera irrimediabile nei loro mercati di esportazione, hanno dovuto seguire questo modello insensato.


Il margine di manovra di Mario Draghi e il suo più grande avversario

Mario Draghi lo sa bene, e già solo per questo è fondamentalmente diverso da praticamente tutti gli altri politici europei. Sa che ha bisogno di una politica fiscale espansiva (senza condizionalità europea) per far uscire l'economia italiana dalla profonda depressione in cui si trova. E sa che c'è bisogno di un cambiamento nell'equilibrio competitivo in Europa, soprattutto se Italia e Francia nel lungo periodo vorranno avere qualche speranza di successo. Sa anche che ogni suo passo sarà sotto esame e che da un momento all'altro nel nord del continente potrebbe scoppiare una tempesta che lo spazzerebbe via anche politicamente.

Il grande vantaggio di Draghi è la sua profonda conoscenza delle istituzioni. Non combatterà sul fronte sbagliato. Dopo tutto, data la sua lunga esperienza in un numero infinito di commissioni, sa bene che il suo avversario più importante non è a Bruxelles, ma a Berlino. E' soprattutto è qui che si differenzia dagli ingenui di destra e di sinistra che siedono nelle loro stanzette e scrivono e blaterano sull'Europa neoliberista e sulla Commissione europea, senza però aver mai visto un'istituzione europea o internazionale da vicino e i veri equilibri di potere al loro interno.

Il più grande avversario di Draghi sarà il "nocciolo duro della CDU/CSU", che per il dopo crisi ha già in mente la reimposizione delle vecchie regole sul debito e pensa a delle condizioni dure da imporre a chiunque voglia prendere in prestito anche un solo euro da Bruxelles.



Draghi sa anche fin troppo bene, dopo aver trascorso molto tempo a Francoforte, che i sentimenti profusi dagli oppositori dichiarati della BCE in Germania (compresa la Corte costituzionale federale con la sua assurda sentenza sulla proporzionalità della politica monetaria europea), indirizzati a qualsiasi cosa assomigli a un trattamento equo dei paesi europei da parte della BCE, per l'Italia saranno particolarmente problematici. L'Italia potrà sempre trovarsi nella posizione di dover contare sul sostegno diretto o indiretto della BCE, visto l'umore assolutamente irrazionale dei "mercati". Di conseguenza, dovrà fare molta attenzione quando discuteterà la questione, alla fine inevitabile, cioè se e in che modo il mandato della BCE potrà essere adattato ai tempi moderni, anche dopo il Coronavirus.

Draghi ha bisogno di amici

Chiunque debba affrontare un avversario forte avrà bisogno di amici forti. Il nuovo presidente del consiglio italiano non porterà a termine la sua impresa, se non riuscirà a fare quello in cui tutti coloro che nell'unione monetaria hanno cercato di cambiare qualcosa finora hanno fallito. Ha bisogno di una forte coalizione di paesi che siano pronti a sfidare apertamente e dichiaratamente il dominio e la ristrettezza di vedute della Germania. Proprio in questi giorni possiamo assistere al modo in cui il presidente bavarese, il ministro federale della sanità e il ministro federale dell'interno sul tema dell'apertura delle frontiere si rifiutino di accettare qualsiasi avvertimento da Bruxelles, e come il presidente tedesco della Commissione, invece di battere i pugni sul tavolo, preferisca restare nobilmente in silenzio.

Non illudiamoci, con questa Germania non è possibile fare l'Europa. Come potrebbe il primo ministro italiano riuscire a fare quello che il presidente della BCE non è riuscito a fare, cioè lanciare una discussione calma e razionale sulla politica economica in questa grande e autoreferenziale Europa? Una discussione in cui i tedeschi si rendano conto sin da subito che questa volta non se la caveranno con i loro soliti vecchi luoghi comuni neoliberisti e monetaristi e le loro ambizioni mercantiliste. Tutti quelli che hanno ancora la testa sul collo non possono che tifare per Mario Draghi. Da parte mia, non posso che augurargli con tutto il cuore buona fortuna!




martedì 16 febbraio 2021

Dalla concorrenza sulla qualità al dumping salariale

"Oggi il vero progresso tecnologico avviene principalmente negli Stati Uniti e in Cina. L'economia tedesca, fondata sull'export, d'altro canto, fino ad ora è riuscita a tenere la testa fuori dall'acqua solo grazie alla moderazione salariale e alla bassa pressione fiscale. Nel breve periodo (e nella concorrenza intra-europea) questa competizione sul prezzo fondata sul dumping salariale può ancora funzionare, ma nel lungo periodo (e a livello globale) difficilmente funzionerà" scrive il grande intellettuale tedesco Andreas Nölke, che su Makroskop propone una rilfessione molto interessante sulla principale malattia che da almeno due decenni affligge l'economia tedesca, l'Esportismo, vale a dire la profonda dipendenza dall'export. Andreas Nölke da Makroskop.de


Chi difende gli avanzi commerciali tedeschi, spesso sostiene che in fondo non è colpa nostra se il mondo è così interessato ai nostri meravigliosi prodotti. Il mondo adora le auto e le macchine tedesche.

Ora questo potrebbe anche essere vero in alcuni casi, se consideriamo le nostre esportazioni nel settore dell'ingegneria meccanica di punta o delle automobili di lusso. Ma se si dà un'occhiata più sistematica allo sviluppo delle esportazioni tedesche, si noterà che una parte crescente di queste esportazioni viene venduta essenzialmente perché è "a buon mercato".

In linea di principio, l'acquisto di un prodotto riguarda sempre entrambi gli aspetti: qualità e prezzo. Nel caso delle esportazioni tedesche, tuttavia, c'è uno spostamento alquanto problematico verso questo secondo aspetto. Su questo argomento ormai è già disponibile un grande numero di studi empirici.


Dalla concorrenza sulla qualità al dumping

Negli ultimi cinque decenni l'economia tedesca si è trasformata da un'economia forte nell'export, ma relativamente equilibrata, in un'economia estremamente dipendente dalle esportazioni. Colpisce il fatto che l'intensificazione "patologica" dell'orientamento all'export tedesco non sia stato accompagnato da innovazioni tecnologiche di rilievo, ma sempre più da una spinta alla concorrenza sui prezzi. Il successo nelle esportazioni tuttavia non è da considerarsi un segno di potenza industriale, ma di debolezza - anche se questa debolezza è solo quella dei nostri vicini europei ("troppo cari").


Arndt Sorge e Wolfgang Streeck, ad esempio, facendo riferimento al loro concetto di "produzione di qualità diversificata", tipica dell'industria tedesca, notano che questa in termini di caratteristiche fondamentali resta ancora in parte intatta, come ad esempio la differenziazione di prodotto, anche se ora fondamentalmente non si basa piu' sui "beneficial constraints" del salario elevato e delle innovazioni che ne conseguono, ma si fonda sempre piu' spesso sui dei vantaggi legati al costo.

Dopo un primo crollo iniziale avvenuto intorno al 1980, sin dalla metà degli anni '90, l'industria tedesca ha interrotto la sua tendenza di lungo periodo finalizzata ad un "upgrading" verso una qualità maggiore, e da allora h puntato sempre di piu' sui vantaggi legati al prezzo. Lucio Baccaro ha mappato quantitativamente questo sviluppo calcolando il rapporto tra i prezzi delle esportazioni e quelli delle importazioni. Al più tardi a partire dal 1995, questo rapporto - come indicatore dell'upgrading - non è piu' cresciuto, in netto contrasto con lo sviluppo osservato nei decenni precedenti. L'argomento secondo il quale le esportazioni tedesche a partire da metà anni '90 sono diventate più competitive in termini di prezzi viene confermato anche dalla Bundesbank, indipendentemente dagli indicatori scelti.

La rilevanza del prezzo delle esportazioni diventa particolarmente chiara se si fa un confronto con l'Italia, un concorrente tradizionalmente molto competitivo nei settori chiave dell'export tedesco, tra questi la produzione di automobili e di macchinari. Nel frattempo, però, in termini di performance dell'export la Germania ha nettamente superato l'Italia, anche se, stando ad uno studio del Fondo Monetario Internazionale, questo successo per circa la metà sarebbe da attribuire ad un accrescimento della produttività tedesca - in parte dovuto anche alla moderazione salariale praticata in Germania.

L'OCSE riporta che, soprattutto nel primo decennio del millennio, vi è stata una chiara tendenza dell'economia tedesca a raggiungere i suoi successi nell'export non più attraverso la qualità dei propri prodotti, ma sempre più spesso grazie al contenimento dei prezzi, in contrasto con le fasi precedenti in cui erano soprattutto le innovazioni - misurate, per esempio, dal numero di domande di brevetto - a garantire tali successi.


Un'analisi dettagliata sul "commercio internazionale di beni ad alta intensità di ricerca" mostra anche che i vantaggi comparativi della Germania restano prevalentemente e relativamente stabili nelle "tecnologie ad alto valore" (veicoli a motore, ingegneria meccanica), ma non nelle attuali "tecnologie d'avanguardia", con alcune eccezioni nel settore della tecnologia medica, della misurazione e del controllo. La Cina, invece, ha notevolmente ampliato le sue quote di mercato in entrambi i segmenti, soprattutto nelle tecnologie di punta.

E anche nelle tecnologie di fascia alta del settore automobilistico e della componentistica, il successo dell'export si basa sempre di più sulla concorrenza di prezzo, invece che su quella fondata sulla qualità, sempre stando a questo studio. Dopo tutto, in Germania non si producono solo veicoli di lusso per i quali - in quanto status symbol - il prezzo ha relativamente poca importanza. Baccaro e Benassi giungono a conclusioni simili, misurando una maggiore sensibilità al prezzo delle esportazioni tedesche nel settore automobilisitico e dell'ingegneria meccanica negli anni a partire dal 1990, in contrasto con i decenni precedenti.

Questi risultati sono ulteriormente confermati da un recente studio di Sebastian Dullien, Heike Joebges e Gabriel Palazzo. Lo studio evidenzia l'importanza della competitività di prezzo per le esportazioni tedesche, comprese le esportazioni di beni "high-tech". Questa competitività basata sui costi è stata notevolmente migliorata nei primi anni '80 da un lato e in seguito tra il 1995 e il 2012, vale a dire dopo le 2 grandi crisi dell'economia tedesca.

La fine dello stallo

Queste osservazioni, tuttavia, non sono di buon auspicio per lo sviluppo di lungo periodo dell'economia tedesca. Da tempo, infatti, questa ha smesso di essere alla frontiera del progresso tecnologico, ad esempio nelle biotecnologie o nell'economia digitale. È innovativa in alcune sue aree, ma solo per quanto riguarda lo sviluppo incrementale di innovazioni tecnologiche che nelle loro caratteristiche di base sono già vecchie di molti decenni, specialmente nella chimica, nell'ingegneria meccanica e nell'industria automobilistica, basata sui motori a combustione.

Oggi il vero progresso tecnologico avviene principalmente negli Stati Uniti e in Cina. L'economia tedesca, fondata sull'export, d'altro canto, fino ad ora è riuscita a tenere la testa fuori dall'acqua solo grazie alla moderazione salariale e alla bassa pressione fiscale. Nel breve periodo (e nella concorrenza intra-europea) questa competizione di prezzo basata sul dumping salariale può ancora funzionare, ma nel lungo periodo (e a livello globale) difficilmente funzionerà.

In altre parole: aver salvato i posti di lavoro attraverso la moderazione salariale e l'austerità nelle recenti crisi economiche può aver contribuito a stabilizzare questo modello. Nel frattempo, però, questa strategia sembra essere arrivata al capolinea.

Nel lungo periodo, un'economia con un elevato costo del lavoro, come quella tedesca, può sopravvivere solo se si investe molto di più nella ricerca, nella tecnologia e nelle competenze della forza lavoro - e se la crescita economica e i posti lavoro non dipenderanno solo dagli sviluppi incerti dei mercati di esportazione esteri, ma anche, in modo complementare, da una domanda interna stabile.

In questo contesto, sarebbe un errore molto grande reagire alla recessione del 2021 causata dal Coronavirus continuando a spingere il modello di export basato sulla compressione dei costi, ad esempio attraverso l'austerità e la moderazione salariale collettiva. Questo non farebbe altro che intensificare ulteriormente una disuguaglianza di per sé già molto  pronunciata.

Affinché le esportazioni possano avere un ruolo cruciale, ma all'interno di una struttura economica più equilibrata, sarebbe utile se queste esportazioni fossero realizzate grazie a prodotti di qualità e non solo attraverso una concorrenza basata su dei prezzi sempre piu' bassi. Quest'ultima è incompatibile con la necessaria stimolazione della domanda interna fatta attraverso l'aumento dei salari e la spesa pubblica. Anche nel lungo periodo, non si può vincere contro i paesi a basso salario.

La qualità superiore dei prodotti - oppure un loro posizionamento piu' alto come oggetti di status - permetterebbero d'altra parte anche di strappare prezzi più alti e sarebbero quindi compatibili con la necessità di aumentare i salari e quindi riequilibrare l'economia tedesca. Sono necessari anche maggiori investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle aziende, che a loro volta serviranno ad aumentare la domanda interna. I salari più alti fungono quindi da "beneficial constraints" (Wolfgang Streeck), e costringono le imprese a fare il loro bene, cioè a fare gli investimenti.


In Germania ci sono ancora i presupposti per fare export di qualità e ad alto prezzo

Ribilanciare l'economia con una strategia di alti salari non è fattibile con ogni struttura dell'export. Quando i salari e i prezzi aumentano, i paesi con una struttura dell'export elastica al prezzo, come ad esempio quelli legati al tessile di base, devono fare i conti con un brusco crollo delle loro esportazioni, dato che i compratori possono facilmente passare ad altri fornitori.

Non è così facile, inoltre, per un paese passare da beni semplici a beni più evoluti e a livelli di tecnologia piu' elevati. Ci sono inoltre notevoli ostacoli, che in particolare nel lungo periodo possono ostacolare una ripresa delle economie dell'Europa meridionale, come dimostrano Jakob Kapeller, Claudius Gräbner e Philipp Heimberger. L'economia tedesca, d'altra parte, in un confronto interno all'UE occupa ancora una posizione di primo piano per quanto riguarda il concetto di "complessità economica", un importante indicatore della capacità tecnologica di un paese, un concetto sviluppato da un gruppo di ricercatori dell'Università di Harvard.

La Germania ha ancora dei presupposti tutto sommato buoni per poter riequilibrare con successo la sua economia nell'ambito di un confronto europeo. Certo, abbiamo visto che la quota di esportazioni tedesche elastiche rispetto al prezzo negli ultimi decenni è aumentata - uno sviluppo molto problematico. Ma se confrontiamo la posizione relativa della Germania con quella degli altri classici paesi più industrializzati sia all'interno dell'UE (Francia, Italia, Spagna) che all'esterno (Regno Unito, Giappone, Stati Uniti), vedremo che la Germania mantiene una quota relativamente più alta del suo export in termini di beni sofisticati e meno sensibili al prezzo rispetto a questi paesi, stando ad uno studio realizzato dall'Istituto di ricerca economica della Bassa Sassonia.

Per la Germania - come accade all'orbo in mezzo ai ciechi, per così dire - nel confronto internazionale, dovrebbe essere ancora più facile mantenere un alto livello di esportazioni anche a fronte di una ridotta competitività di prezzo dovuta a dei salari più alti, diversamente da quanto accade in Italia, ad esempio, dove negli ultimi decenni ci sono state notevoli perdite in termini di quote di mercato causate da beni maggiormente sensibili al prezzo, ad esempio il tessile e i mobili, come risultato dell'ascesa della Cina.

Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale citati in precedenza, non esiste nessun'altro paese al mondo il cui profilo dei beni esportati negli ultimi decenni abbia avuto cosi' tanta somiglianza con quello della Cina, piu' di quanto è accaduto all'Italia. L'Italia è stato quindi il paese che negli ultimi decenni piu' di tutti ha sofferto a causa del "miracolo economico cinese".

Lo stesso destino nel prossimo futuro potrebbe toccare anche alla Germania - dato il "miglioramento" del portafoglio dell'export cinese. Non è ancora troppo tardi per cercare di difendere il vantaggio competitivo tramite investimenti maggiori nella ricerca, nello sviluppo e nella formazione di lavoratori altamente qualificati e ben pagati.

Ma questo riequilibrio sarà un adattamento doloroso per alcune parti significative dell'industria tedesca. E questo è particolarmente vero per quelle aziende che negli ultimi decenni hanno investito sempre meno in innovazione e produttività e si sono invece sempre piu' adagiate sulla moderazione salariale e su di una moneta sottovalutata. In molti casi, senza il sostegno attivo dello Stato, tutto questo non sarà possibile, specie nell'area della politica per lo sviluppo tecnologico

venerdì 12 febbraio 2021

Cosi' la stampa tedesca ha sostenuto la formazione del governo Draghi

La stampa tedesca che conta sta accompagnando con un certo ottimismo e un discreto supporto mediatico la formazione del governo Draghi. Per i commentatori tedeschi, infatti, il nuovo governo dovrà salvare l'Italia dal fallimento finanziario e in questo modo difendere gli interessi geostrategici della potenza dominante all'interno dell'eurozona. Ne scrive il sempre ben informato German Foreign Policy




...e rapidamente".

I principali media tedeschi stanno accompagnando con un certo ottimismo la formazione di un nuovo governo in Italia, in alcuni casi stanno dando anche istruzioni dettagliate per l'azione. L'ex presidente della BCE Mario Draghi, con la prospettiva di diventare il nuovo Presidente del Consiglio, dovrà governare un'economia in uno stato miserabile, riferisce ad esempio Der Spiegel: "debito record, nessuna crescita, ricchezza in calo, demografia in declino." [1] Draghi deve affrontare "due compiti principali": accelerare la campagna di vaccinazione e "spendere in maniera saggia" i fondi UE anti-crisi che ammontano a oltre 200 miliardi di euro e che dall'estate inizieranno ad affluire. E questo dovrà essere fatto nel quadro di un programma che soddisfi i requisiti dell'UE - "e in maniera rapida". L'Italia ha attraversato "un decennio e mezzo molto brutto" iniziato con l'introduzione dell'euro, durante il quale il paese "è diventato più povero". In Germania, invece, "il prodotto interno lordo per abitante è aumentato di circa un ottavo", stando ad un commento che si astiene dal menzionare il ruolo fatale avuto dall'enorme surplus commerciale tedesco nei confronti degli stati meridionali dell'eurozona. L'Italia ora è minacciata nientemeno che dalla "rovina", e potrebbe trasformarsi in una "Argentina europea", scrive invece Manager Magazine [2]. Ma questo non è un destino inesorabile; Draghi sarà chiamato ad usare i miliardi dell'UE in modo "abile e produttivo", a stimolare gli investimenti privati e ad avviare un "programma di rinnovamento necessario" per stimolare un "cambio di umore".


Seguendo l'esempio dell'UE

Draghi tuttavia in quanto futuro primo ministro ha un "grande vantaggio", riporta il commento: gli avversari politici in Italia potranno essere messi a tacere indicando la necessità di rispettare i "requisiti indicati da Bruxelles" e necessari per l'ottenimento dei fondi contro la crisi. Se l'Italia intende ricevere gli oltre 200 miliardi di euro del fondo, il paese dovrà necessariamente "adeguarsi alle linee guida indicate dall'UE". Il nuovo capo del governo potrà usare questa "leva" nelle prevedibili lotte per il potere. Chiunque si opporrà a Draghi rischia di non incassare i soldi del fondo anti-crisi da Bruxelles e di avere "un brusco risveglio da uno stato di limbo alquanto precario", scrive sempre Manager Magazin. Altri commentatori, invece, notano che l'Italia soffre di un enorme "arretrato in termini di riforme non fatte" che Draghi dovrà rapidamente smaltire in quanto primo ministro, scrive invece la FAZ [3]. Il paese dell'Europa del sud ha bisogno di investire nell'istruzione e nelle tecnologie legate al futuro; inoltre restano in sospeso le riforme strutturali "del sistema giudiziario, nell'amministrazione pubblica, e nella politica" che Draghi deve attuare in quanto "salvatore dell'Italia", scrive invece Deutschlandfunk [4]. L'ex-capo della banca centrale dovrà affrontare un "compito erculeo"; i fondi dell'UE contro la crisi rappresentano una "opportunità storica" che dovrà essere colta. I media conservatori tedeschi chiedono anche "l'innalzamento dell'età pensionabile" e la "rimozione degli ostacoli alla crescita"; questi provvedimenti dovranno essere attuati nell'ambito di un "grande" pacchetto di riforme, scrive Die Welt [5]. L'ex-capo della banca centrale si trova ora ad affrontare un "compito erculeo"; i fondi anti-crisi dell'UE rappresentano una "opportunità storica" che dovrà essere colta.


La posta in gioco è alta, anche per la Germania

Dai media conservatori allo stesso tempo si leva anche qualche voce cauta. Se l'ex capo della BCE in futuro dovesse essere alla guida dell'Italia e trovarsi a "capo di un governo di tecnocrati", non solo plasmerebbe la terza economia dell'eurozona, ma in una certa misura anche "l'intera Unione Europea", scrive Die Welt; e questo anche per la Germania significherebbe mettere molto in gioco. [6] Draghi, infatti, come capo della BCE dal 2012 con la sua politica monetaria espansiva ha difeso l'euro "a tutti i costi", salvando l'eurozona e "salvando l'Italia dal crollo". Ma questo ha avuto anche delle "conseguenze negative e gravi": gli ampi acquisti di titoli di stato da parte della BCE al culmine della crisi dell'eurozona hanno portato a "un rallentamento dello zelo nel fare le riforme necessarie nei paesi maggiormente indebitati - soprattutto in Italia". Nei "paesi creditori", specialmente in Germania, invece, i risparmiatori hanno pagato un "prezzo elevato" a causa della politica dei tassi a zero della BCE. Draghi ancora una volta in una fase decisiva si trova in una posizione importante, mentre l'UE è di nuovo in "modalità di crisi" e per la prima volta si sta facendo carico di "un debito comune su larga scala". L'ex banchiere centrale quindi "ancora una volta sarà proprio lì, dove si prendono le decisioni più importanti per il futuro dell'Europa", nel ruolo di primo ministro italiano.

"Rapporti eccellenti in tutte le capitali".

Tutto questo solleva la questione, si dice nei circoli conservatori di destra, se "i 750 miliardi di euro del fondo saranno sufficienti" per far fronte all'attuale crisi dell'eurozona. Ci sono già state richieste da "più parti" per introdurre un "sistema permanente di trasferimenti" in modo da contrastare gli enormi squilibri dell'unione monetaria, i quali sono essenzialmente il risultato degli avanzi commerciali tedeschi. Sono in corso, inoltre, discussioni sul patto di stabilità dell'UE, che ora dovrà essere "ammorbidito" in quanto il debito pubblico nell'area monetaria nel corso della lotta contro la pandemia è salito a più del 100 % del PIL. In Italia, "si prevede addirittura un aumento dal 130 a oltre il 150 %", scrive Die Welt [7]. Poiché il governo tedesco in Europa del sud a causa del suo corso di austerità durante la crisi dell'euro viene "considerato come il grande dittatore dell'austerità", gli "ottimi rapporti di Draghi con le capitali e la Commissione UE, nonché la presidente della BCE Christine Lagarde", potrebbero rivelarsi "un capitale prezioso" nei conflitti futuri.

"Retorica anti-tedesca"

Un problema significativo, tuttavia, è che il gabinetto di tecnocrati sotto Draghi potrebbe dipendere dall'appoggio dei partiti di ultradestra. Alcune componenti del Partito Democratico (PD), infatti, si sarebbero finora rifiutate di sostenere un governo che coinvolga anche i membri del partito di destra e razzista della Lega Nord. [8] Senza i Cinque Stelle, usciti come i grandi vincitori dalle elezioni parlamentari del marzo 2018 e che ancora oggi restano il gruppo più forte in Parlamento, i numeri per Draghi potrebbero essere stretti, si dice. È peraltro vero che nel frattempo anche il Movimento Cinque Stelle avrebbe segnalato la propria disponibilità a collaborare con Draghi. Fino a poco tempo fa, tuttavia, la figura principale del movimento, l'ex comico televisivo Beppe Grillo, considerava l'ex-banchiere centrale come un "servo dell'alta finanza", scrive la FAZ [9]. Le forze intorno a Grillo, inoltre, tra tutte quelle in Parlamento, si erano opposte con forza ai tentativi tedeschi di influenzare la politica fiscale, economica e finanziaria dell'Italia. Nell'aprile 2020, ad esempio, i membri del Movimento Cinque Stelle avevano minacciato di rompere con la coalizione se l'allora governo guidato dal primo ministro Giuseppe Conte avesse accettato un pacchetto di prestiti messo insieme da Bruxelles e Berlino e basato sul denaro del Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM) [10]. L'ESM, ampiamente plasmato dall'ex ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, viene considerato come uno strumento per interferire negli affari interni dei potenziali riceventi dei prestiti, in quanto può essere utilizzato per imporre condizioni severe entrando dalla porta di servizio, per così dire. I critici in Italia lo vedono come lo strumento di un sistema repressivo che ha già affondato l'economia della Grecia negli anni della crisi finanziaria a partire dal 2010. Un influente quotidiano tedesco, la FAZ, ha recentemente liquidato le critiche al MES espresse nel parlamento italiano come "un grande momento di retorica anti-europea e anti-tedesca" [11].





1] Henrik Müller: Italiens schleichender Niedergang. spiegel.de 07.02.2021.
[2] Henrik Müller: Ich - oder der Untergang. manager-magazin.de 07.02.2021.
[3] Nikolas Busse: Was Draghis Mission wäre. faz.net 04.02.2021.
[4] Elisabeth Pongratz: Der Retter Italiens? deutschlandfunk.de 03.02.2021.
[5], [6], [7] Dorothea Siems: Italien retten, die EU prägen - "Super-Draghi" ist zurück im Zentrum der Macht. welt.de 04.02.2021.
[8] Fünf-Sterne-Bewegung und Lega signalisieren Unterstützung für Draghi. spiegel.de 07.02.2021.
[9] Matthias Rüb: Draghi gewinnt Grillo und die Fünf Sterne. faz.net 07.02.2021.
[10] Jörg Seisselberg: Italien sagt Nein zu 39 Milliarden der EU. tagesschau.de 14.04.2020
[11] Tobias Piller: "Die Deutschen klauen auch noch unser Familiensilber". faz.net 10.12.2020.

giovedì 11 febbraio 2021

Perché l'UE e la Germania stanno perdendo la battaglia geopolitica per il controllo dell'Europa del sud-est

La débacle dell'UE sui vaccini corrisponde anche ad una grave sconfitta geopolitica di Bruxelles e Berlino nell'Europa del sud-est, una sconfitta che lascia sempre piu' spazio alla Cina, ormai la principale potenza economica dell'area. Nei palazzi del potere europeo c'è molta preoccupazione, il sempre ben informato German Foreign Policy ci racconta gli ultimi sviluppi



17+1

Da quando nel 2012 il formato è stato lanciato, la cooperazione con la Cina nell'ambito del "17+1" ha portato significativi benefici economici ai dodici Stati dell'UE e ai cinque paesi non UE dell'Europa orientale e sudorientale che vi prendono parte. Ad esempio, il volume del commercio tra questi paesi e la Repubblica Popolare da allora è aumentato in media dell'8% annuo. L'anno scorso, il commercio bilaterale è aumentato dell'8,4 % per un volume complessivo di 103,45 miliardi di dollari, nonostante la crisi da Coronavirus, che in altri ambiti invece ha causato un crollo dell'economia. Ci sono cifre variabili sugli investimenti diretti cinesi nella regione; secondo il think tank berlinese Merics (Mercator Institute for China Studies), tra il 2010 e il 2019 ammonterebbero a 8,6 miliardi di euro solo nei dodici Stati dell'Unione europea che partecipano al "17+1" [1]. Ci sono inoltre progetti finanziati e prestiti erogati anch'essi per un valore di diversi miliardi di euro. Importanti investimenti cinesi sono stati realizzati anche in Grecia e Ungheria, tra gli altri. In Grecia, da quando è stato rilevato dalla China Ocean Shipping Company (COSCO), il porto del Pireo è passato dal 17° al 4° posto tra i porti container europei; ora è il più grande porto europeo per container sul Mediterraneo. [2] In Ungheria, le imprese cinesi, invece, stanno lavorando in particolare sul tratto della linea ferroviaria ad alta velocità fra Budapest e Belgrado.

"Il terzo paese più importante"

I cinque stati non UE dell'Europa sud-orientale (Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia settentrionale, Albania) stanno cooperando in maniera particolarmente stretta con la Cina nell'ambito del "17+1". La Serbia, ad esempio, è diventata destinataria di importanti investimenti cinesi; nel 2016, Hesteel Group, uno dei più grandi produttori di acciaio di tutto il mondo, ha acquistato l'acciaieria di lunga data di Smederevo, una delle più grandi aziende in Serbia. L'acciaieria, precedentemente di proprietà della U.S. Steel, era caduta in crisi accumulando pesanti perdite, ed era stata quindi venduta dal gruppo americano. Già ad inizio 2019, le cronache raccontavano che Hesteel non solo stava portando l'impianto fuori dalla crisi, ma la stava trasformando nell'acciaieria piu' redditizia d'Europa. [3] Senza dubbio ci sono state molte polemiche sulla presenza di Hesteel a Smederevo: da qualche tempo, infatti, i residenti locali protestano contro i danni ambientali causati dall'acciaieria. Le proteste vengono attualmente utilizzate dal deputato verde Reinhard Bütikofer e dalla sua Alleanza interparlamentare sulla Cina (IPAC) per fomentare il sentimento anti-Pechino. [4] La Repubblica Popolare sta comunque espandendo la sua influenza in Serbia e nei vicini stati non UE; un recente studio dell'European Council on Foreign Relations (ECFR) ha concluso che Pechino è "diventato il più importante paese terzo" in quella regione. [5] L'European Council on Foreign Relations (ECFR) attualmente sta lavorando su questo tema insieme alla Commissione europea.



Pressione da Bruxelles e Washington

Allo stesso tempo gli stati UE nell'ambito del "17+1" devono affrontare una massiccia pressione da parte di Bruxelles, ma anche di Washington, con l'obiettivo di far ridimensionare la loro cooperazione con Pechino e far loro abbandonare il formato della cooperazione indipendente. Berlino e Bruxelles tuttavia ripetono che l'UE non deve farsi dividere - un argomento che viene respinto dal gruppo dei "17+1" i quali fanno invece notare che gli stati più potenti dell'Europa occidentale, soprattutto la Germania, da parte loro cooperano già in maniera indipendente con la Cina; ad esempio, l'ex-ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski recentemente ha affermato: "Gli europei occidentali hanno già relazioni commerciali di lunga data con la Cina, e non permettono a noi paesi dell'Europa centrale di partecipare a queste relazioni". Se il formato "17+1" dovesse essere abbandonato, allora anche "il resto dell'UE" dovrebbe smettere di muoversi da solo. Ma questo colpirebbe soprattutto la Germania. La pressione di Bruxelles e Washington, inoltre, è diretta contro i singoli progetti cinesi in Europa orientale e sudorientale. La Croazia, ad esempio, recentemente ha dovuto annullare la gara d'appalto per l'unico porto d'acqua profonda del paese in quanto le aziende cinesi avevano buone possibilità di vincere il contratto. In Romania, invece, il governo ha deciso di escludere le imprese della Repubblica Popolare dalla costruzione di strade e collegamenti ferroviari. [7] Anche la partecipazione cinese alla costruzione di un tunnel da Helsinki alla capitale dell'Estonia Tallinn viene aspramente osteggiata. [8]



L'iniziativa dei tre mari

Nella lotta per l'influenza sull'Europa orientale e sud-orientale, le grandi potenze occidentali restano fra loro divise. Berlino considera la regione come una sua sfera d'influenza esclusiva, e ha cercato di allineare l'intera UE - tuttavia con poco successo finora - nell'ambito di un blocco coeso anche in termini di politica estera, cercando quindi di mantenere la sua influenza primaria sui cinque stati non UE dell'Europa sudorientale. Washington, da parte sua, negli ultimi anni invece ha cercato di rafforzare la sua influenza nell'est e nel sud-est dell'UE attraverso l'"Iniziativa dei tre mari" - a spese della Germania. L'iniziativa risale a un'offensiva di Washington nata durante l'amministrazione Obama; lanciata nel 2015 dal presidente polacco Andrzej Duda e dall'allora presidente croato Kolinda Grabar-Kitarović, l'iniziativa è stata formalmente fondata durante un summit del 25-26 agosto 2016 a Dubrovnik, in Croazia [9]. L'obiettivo, tra l'altro, era anche quello di migliorare i collegamenti fra i paesi partecipanti attraverso la costruzione di infrastrutture. Come del resto gli sforzi di cooperazione del "17+1" della Cina, la cosiddetta "iniziativa dei tre mari" si basa sul fatto che negli ultimi 30 anni, l'est e il sud-est dell'Europa sono stati ampiamente trascurati dai paesi piu' ricchi dell'Europa occidentale, specialmente la Germania, in quanto questi paesi erano concentrati sul perseguimento dei loro interessi economici. Questa condotta ha offerto alle potenze esterne, grazie alla cooperazione economica, la possibilità di assicurarsi un'influenza sulla regione.

La Cina come fornitore di vaccini

Anche nell'ambito della lotta contro la pandemia da Covid-19, la situazione non è cambiata di molto. Già nella primavera del 2020, infatti, l'UE aveva in pratica tagliato il sostegno ai cinque paesi non UE dell'Europa sud-orientale, vietando l'esportazione di attrezzature mediche di protezione. La Cina è poi intervenuta, almeno parzialmente, fornendo alla Serbia gli aiuti necessari. Berlino e Bruxelles hanno quindi reagito a questa mossa accusando Pechino di essere impegnata in una "diplomazia mascherata". [10] Lo sviluppo è stato simile anche per quanto riguarda i vaccini contro il Covid-19. Anche se l'UE pomposamente ha annunciato la sua intenzione di rifornire il mondo con i suoi vaccini, in realtà non è stata nemmeno in grado di fornire le dosi di vaccino necessarie ai propri Stati membri [11]. Per la seconda volta, la Cina è venuta in aiuto della Serbia ed ha fornito al paese un milione di dosi di vaccino; la Serbia ha così potuto effettuare otto vaccinazioni ogni cento abitanti e si trova al terzo posto in Europa dopo Gran Bretagna (18,86 vaccinazioni ogni cento abitanti) e Malta (8,89) (Germania: 3,91 vaccinazioni ogni cento abitanti). Recentemente, l'Ungheria è diventata il primo paese dell'UE a ordinare i vaccini anche dalla Cina e già questo mese ci si aspetta l'arrivo della prima parte di cinque milioni di dosi, sufficienti per immunizzare circa un quarto della sua popolazione. Al vertice del "17+1" di ieri, il presidente cinese Xi Jinping ha promesso ulteriori spedizioni. [12]




[1] Grzegorz Stec: Central and Eastern Europe and Joint European China Policy: Threat or Opportunity? merics.org 01.10.2020.
[2] Beth Maundrill: Piraeus becomes top Mediterranean port. porttechnology.org 21.05.2020.
[3] Vedran Obućina: Incredible rise of Serbian steel industry. obserwatorfinansowy.pl 19.03.2019.
[4] MEPs concerned over increasing Chinese influence in Serbia. emerging-europe.com 20.01.2021. Zur IPAC s. auch Der grüne Kalte Krieg.
[5] Vladimir Shopov: Decade of Patience: How China Became a Power in the Western Balkans. ECFR Policy Brief. February 2021.
[6] Grzegorz Stec: Central and Eastern Europe and Joint European China Policy: Threat or Opportunity? merics.org 01.10.2020.
[7] Andreas Mihm: Chinas Charme-Offensive im Osten. Frankfurter Allgemeine Zeitung 08.02.2021.
[8] Mette Larsen: Chinese-backed Finnish venture of world's longest undersea rail tunnel back on agenda. scandasia.com 27.01.2021.
[9] S. dazu Osteuropas geostrategische Drift.
[10] S. dazu Die "Politik der Großzügigkeit".
[11] S. dazu Das Impfdesaster der EU.
[12] China bietet Osteuropa Impfstoff an. n-tv.de 09.02.2021.



mercoledì 10 febbraio 2021

La vera ragione dietro la profonda disuguaglianza sociale in Germania

Il grande economista tedesco Marcel Fratzscher, dati alla mano, ci spiega perché in Germania le donazioni e le eredità sono la vera ragione dietro la grande disuguaglianza in termini di patrimoni e ricchezza privata. Un articolo molto interessante di Marcel Fratzscher zu Die Zeit


In Germania una parte significativa di tutta la ricchezza privata non è stata ottenuta con il lavoro delle proprie mani, ma tramie le eredità o le donazioni. E questi patrimoni stanno crescendo significativamente, dato che le generazioni del dopoguerra sempre più speso stanno passando parte della loro ricchezza ai figli e ai nipoti, come del resto mostra un nuovo studio. Nella nostra società, tuttavia, a beneficiarne sono in pochi e di solito sono persone già molto privilegiate. Le eredità possono essere una grande fortuna, ma possono esacerbare anche le disuguaglianze in termini di ricchezza e di opportunità. Ecco perché abbiamo bisogno di una discussione fattuale su questo importante argomento e non di un dibattito fondato sull'invidia sociale.

Un nuovo studio condotto dal DIW di Berlino, in collaborazione con altri istituti e università, sottolinea la crescente importanza delle eredità e delle donazioni nella nostra società. Negli ultimi 15 anni, infatti, il 10% di tutti gli adulti ha avuto la fortuna di ricevere un'eredità oppure delle donazioni importanti. Negli ultimi anni, in particolare, la dimensione delle eredità è aumentata significativamente: mentre l'eredità media negli anni tra il 1986 e il 2001 corretta per l'inflazione era ancora di 72.000 euro, negli anni 2002-2017 è salita a 85.000 euro.

Tassa di successione iniqua

Le eredità e le donazioni sono distribuite in maniera molto ineguale, anche in termini di dimensioni. La metà delle eredità è inferiore ai 33.000 euro. Se la cosiddetta mediana è molto più bassa della media, significa che pochi ereditano grandi quantità di denaro. E in effetti, il 10% dei beneficiari riceve la metà di tutte le eredità e di tutte le donazioni. L'altro 90% condivide la metà restante.

Il quadro generale in termini di economia complessiva è sorprendente: studi precedenti del DIW di Berlino stimavano in Germania l'importo totale delle eredità e delle donazioni a 300-400 miliardi di euro ogni anno, vale a dire poco meno del 10% del PIL annuo tedesco. Non è quindi sorprendente che una gran parte degli oltre 10.000 miliardi di euro di ricchezza privata in Germania sia stato ottenuto grazie alle eredità o alle donazioni e non attraverso il lavoro delle proprie mani.



Ciò che stupisce, invece, è quanto poco di tutto ciò lo Stato abbia incassato attraverso l'imposta di successione: tra i sei e i sette miliardi di euro all'anno, cioè poco meno del due per cento della somma totale che si stima venga trasmessa attraverso le eredità e le donazioni. E ciò è dovuto principalmente alle generose esenzioni sull'imposta di successione che permettono oggi come ieri di trasmettere alla generazione successiva delle grandi eredità aziendali, spesso completamente esenti da tassazione. Uno studio precedente del DIW di Berlino, ad esempio, aveva dimostrato che i cittadini che ricevono in eredità tra i 250.000 e 500.000 euro pagano in media più del 10% di tasse di successione, mentre quelli con un'eredità di più di 20 milioni di euro devono pagare in tasse poco meno del 2% di questo importo. L'obiettivo dovrebbe essere quello di evitare di tassare il capitale delle imprese al fine di proteggerle.

Mediamente piu' anziano, tedesco occidentale e ricco

Chi sono gli eredi in Germania? La risposta breve è: per lo più persone che sotto molti aspetti sono già privilegiate. La risposta più lunga è: ad ereditare sono soprattutto persone nella seconda parte della loro vita, cioè tra i 55 e i 74 anni; della Germania ovest, che in media ricevono il doppio dell'eredità rispetto a chi vive nell'est - e quelle con i redditi piu' alti: quasi il 25 % delle eredità, infatti, vanno a persone collocate nel 10% piu' alto di coloro che hanno i redditi più elevati. E si tratta per lo più di persone che sono già molto ricche anche senza aver incassasto un'eredità: due terzi di tutte le eredità e di tutte le donazioni vanno a persone che appartengono al 20 % di coloro che hanno la maggiore ricchezza privata.

La conseguenza è che le eredità e le donazioni hanno un effetto estremo sulla distribuzione e la disuguaglianza in termini di ricchezza e di redditi. Nel dibattito sugli effetti delle eredità, si fa spesso notare che le eredità e le donazioni dopo tutto avrebbero ridotto la disuguaglianza in termini di ricchezza. Questo è vero se si guarda alla disuguaglianza relativa misurata, ad esempio, dal coefficiente di Gini, la misura della disuguaglianza più comune, ma non è nemmeno sorprendente: di solito una persona trasmette la sua eredità a più persone. E già questo di per sé porta in maniera meccanica a una migliore redistribuzione e quindi a un coefficiente di Gini più basso.

Ma in questo modo viene oscurata la distribuzione assoluta in termini di ricchezza e di reddito. Pertanto, guardare alla disuguaglianza assoluta, cioè misurata in euro, è molto più rilevante. Il divario in termini di ricchezza tra chi eredita e chi invece resta a mani vuote aumenta enormemente. E poiché le persone con redditi bassi e piccoli patrimoni hanno molte più probabilità di andarsene a mani vuote o di ricevere solo somme molto piccole, per le loro vite e le loro prospettive future cambia poco.

Nessun dibattito sull'invidia sociale

E' anche vero che un'eredità o una donazione rappresentano una grande opportunità per molte persone. Possono compensare un basso reddito mensile, possono rendere possibile l'acquisto di beni immobili o aiutare a cambiare carriera. È bello quando le persone possono cambiare la loro vita in meglio attraverso l'eredità o le donazioni e ottenere più libertà e maggiore responsabilità personale. Il dibattito quindi non dovrebbe essere in termini di invidia sociale.

La questione dovrebbe essere piuttosto come fare affinché le grandi eredità e le donazioni possano essere tassate più equamente e come è possibile fare in modo che il maggior numero possibile di persone possa beneficiare di eredità e donazioni, specialmente nelle fasi piu' critiche della loro vita, come ad esempio quando si crea una famiglia oppure all'ingresso nella vita professionale. La distribuzione più equa delle detrazioni fiscali, di cui non beneficerebbero solo i coniugi e i figli biologici, ma - in linea con la nuova diversità delle forme familiari - anche altri parenti stretti come i figliastri o i partner civili, potrebbe ridurre la disuguaglianza. Oppure l'abolizione del limite dei dieci anni, che permette in particolare agli individui ad alto patrimonio di trasmettere una parte dei loro beni esentasse ogni dieci anni.

Nelle colonne precedenti, avevo anche proposto un'eredità come opportunità per la vita, grazie alla quale tutti i giovani avrebbero ricevuto una donazione di 30.000 euro dallo Stato dopo aver ottenuto la loro prima qualifica professionale, soldi che avrebbero potuto usare per investire nel loro futuro professionale e privato. Sarebbe anche auspicabile arrivare ad avere una aliquota unica sulle eredità, cioè una tassazione uguale, diciamo, al 10 %, senza eccezioni per i grandi patrimoni, ma con generose indennità per le piccole eredità e le donazioni (che già esistono oggi). Questo significherebbe maggiore equità e aiuterebbe gli eredi a partecipare di più al bene comune.


martedì 9 febbraio 2021

Le nuove armi della Commissione Europea

"L'unico modo sensato di affrontare queste aberrazioni dell'integrazione europea è quello di minimizzarle ed eliminarle. Per il Recovery Fund, ciò significa che tutte le condizionalità che nulla hanno a che fare con l'effettivo uso dei fondi dovranno essere totalemente respinte", scrive il grande intellettuale tedesco Martin Hoepfner. La Commissione attraverso il Recovery Fund, secondo Hoepfner, intende mostrate tutto il lato autoritario del potere europeo, collegando l'erogazione dei fondi all'applicazione delle condizionalità dettate dalla stesssa Commissione, ovviamente al di fuori del processo democratico. I burocrati di Bruxelles, nel frattempo, tramite delle raccomandazioni hanno voluto mostrare i muscoli anche alla Germania, per Hoepfner tuttavia alla Cancelleria e nei ministeri tedeschi nessuno passerà notti insonni. Una riflessione molto interessante di Martin Hoepfner sul lato autoritario del potere europeo, da Makroskop.de


La settimana scorsa la stampa ha riportato una notizia importante. La Commissione europea ha comunicato alla Cancelleria e ai ministeri delle finanze e dell'economia che per poter ricevere i circa 24 miliardi di euro del Fondo per la ricostruzione ai quali avrebbe accesso, la Germania deve migliorare il suo programma di riforme. In particolare, Handelsblatt (25.1.21, pp. 8-9) e la FAZ (26.1.21, p. 16) riportano che la Germania dovrebbe riformare il suo sistema fiscale troppo progressivo, rafforzare la sostenibilità finanziaria del suo sistema pensionistico, liberalizzare le professioni regolamentate e abolire la separazione dei coniugi in ambito fiscale (Ehegattensplitting).

Ma tutto ciò sembra un po' strano. Condizioni per ottenere il denaro dal fondo di ricostruzione: non si trattava invece di discutere dell'uso concreto dei fondi, della digitalizzazione, della protezione del clima e dei meccanismi relativi allo stato di diritto? Il sistema tedesco di separazione fiscale fra i coniugi fa parte forse delle competenze dell'UE? Oppure, senza che ce ne fossimo accorti, contribuisce per caso a quegli squilibri interni all'Europa che hanno effettivamente bisogno di essere corretti e quindi rientrano nell'ambito delle procedure di controllo e di correzione macroeconomica gestite tramite il mecccanismo delle sanzioni?

Anche se questo fosse il caso (ma non è così ovviamente), cosa ha a che fare tutto ciò con il fondo per la ricostruzione? Scomponiamo e valutiamo i fatti.



Le condizionalità si spostano verso il fondo per la ricostruzione

Come è noto, la maratona negoziale del Consiglio europeo del luglio 2020 ha portato alla decisione di istituire un fondo per la ricostruzione da finanziare con dei prestiti comuni, fondo che dovrà fornire nei prossimi tre anni sovvenzioni a fondo perduto per 312,5 miliardi di euro e prestiti per 360 miliardi di euro (qui una valutazione economica). Un quinto del denaro è destinato ad accelerare la digitalizzazione e un terzo alla protezione del clima. I fondi saranno distribuiti tra i paesi partecipanti sulla base di un calcolo derivante dalla gravità del crollo del PIL causato dal Coronavirus lo scorso anno e il tasso di disoccupazione.

Tali fondi, tuttavia, non potranno essere spostati da una parte all'altra del continente senza condizionalità e controlli. Gli obiettivi dovranno essere ben definiti e non vi è alcun dubbio che dovranno essere effettuati dei controlli per assicurarsi che i fondi non finiscano in qualche pantano di corruzione. Tutti almeno sono d'accordo su questo punto. Ma la Commissione, il Parlamento europeo (PE) e alcuni Stati membri - soprattutto i "Cinque paesi Frugali" del nord volevano di più, mentre la Germania a causa della sua presidenza di turno sull'argomento è stata più moderata. In particolare si trattava di collegare il fondo a dei requisiti che nulla hanno a che fare con gli obiettivi e le procedure del fondo. Il Parlamento europeo, in particolare, voleva un meccanismo rigido fondato sullo Stato di diritto per poter agire contro Polonia e Ungheria (Andreas Nölke qui), e la Commissione, in particolare, chiedeva un collegamento con le raccomandazioni specifiche per i paesi del semestre europeo.

I negoziati su queste condizionalità si sono trascinati per quasi 6 mesi. L'accordo nell'ambito della cosiddetta "procedura del trilogo" fra la Commissione, il Consiglio e il PE è stato raggiunto solo poco prima di Natale, il 17 dicembre 2020. Purtroppo, il racconto che ne è stato fatto al termine era quasi esclusivamente incentrato sul meccanismo riguardante lo stato di diritto. Perché questo significava lasciare nascosto un fatto cruciale: vale a dire, che la Commissione aveva vinto su tutta la linea nel collegare il fondo ai requisiti specifici per ogni paese previsti dal semestre europeo (ecco il documento). La Commissione ha ottenuto esattamente quello che fin dall'inizio desiderava.

Il semestre europeo

Il semestre europeo esiste, almeno sotto questo nome, dal 2011, e riunisce diverse procedure sulla base delle quali l'UE può dare raccomandazioni di riforma ai suoi membri con diversi livelli di cogenza, senza bisogno di disporre di un proprio potere legislativo. Ne fanno parte le raccomandazioni generali specifiche per ogni singolo paese rivolte ai membri dell'UE a partire dal lancio della strategia Europa 2020; la procedura per i disavanzi eccessivi basata su sanzioni per i membri dell'eurozona, nata e cresciuta nell'ambito del Patto di stabilità e crescita del 1997, a sua volta radicato nei criteri di convergenza previsti dal trattato di Maastricht del 1992; e la procedura di sorveglianza e correzione macroeconomica introdotta nel 2012, in base alla quale le sanzioni possono anche essere imposte come ultima risorsa in caso di non osservanza. In altre parole una complicata proliferazione di procedure, giustamente accorpata al ciclo annuale dei semestri - se non altro, affinché le raccomandazioni delle singole procedure non si contraddicano grottescamente tra di loro.



Il semestre europeo di per sé non è una brutta cosa. Per quale motivo la Commissione non dovrebbe confrontare fra loro le politiche dei paesi dell'UE, identificarne gli obiettivi e, se possibile, le pratiche migliori, esaminare la generalizzabilità e la trasferibilità delle pratiche identificate e formulare consigli? E perché non dovrebbe anche essere garantito che almeno dopo averle "lette, derise e prese a pugni" - i governi non siano quindi chiamati ad affrontare seriamente le raccomandazioni e a formulare una risposta alla Commissione? Anche se naturalmente le raccomandazioni che escono dal semestre non sempre piacciono (per non dire altro), l'UE non dovrebbe astenersi dal perseguire tali forme di coordinamento "soft", oltre alla comune attività di legislazione.

Ma attenzione: se, con un processo graduale le raccomandazioni si appoggiano sempre di piu' alla possibilità di applicare sanzioni, a un certo punto non saranno più raccomandazioni, ma indicazioni per il legislatore costituitosi nell'ambito del processo democratico. Anche le direttive e i regolamenti europei alla fine sono delle istruzioni. Nell'ambito del Semestre, tuttavia, stiamo parlando di aree sulle quali l'UE non approva alcuna legge che sia vincolante per tutti, anzi, per le quali all'interno dei trattati spesso l'UE non ha avuto alcun potere normativo. Questo è esattamente il tipo di processo in cui siamo attualmente impegnati. Una procedura che doveva servire a un coordinamento morbido, sempre piu' spesso invece viene dotata del morso che trasforma le raccomandazioni non vincolanti in istruzioni obbligatorie sostenute da sanzioni.

La Commissione da molto tempo si sforza di individuare delle possibilità che vadano al di là della legislazione europea - con successo (Annika Holz qui). La storia recente dell'integrazione europea non è precisamente una storia fatta di ampliamento delle competenze legislative europee, ma una storia di irrigidimento delle direttive che vanno al di là della legislazione. L'UE ha fatto un grande passo in avanti durante e dopo l'eurocrisi introducendo delle procedure di correzione macroeconomica basate su delle sanzioni. È andata ancora piu' in là nel 2014, quando l'UE ha creato la possibilità di non erogare i fondi strutturali in caso di mancato rispetto delle raccomandazioni del semestre europeo. Ora continua su questa strada con delle ampie condizionalità previste nell'ambito del fondo per la ricostruzione. Sarà quindi necessario applicare un sottoinsieme significativo di raccomandazioni per poter prelevare denaro dal fondo (vedi pagine 12, 33 e 53 qui).

La strana scelta delle richieste fatte alla Germania

La minaccia fatta alla Germania di voler trattenere il denaro dal fondo per la ricostruzione è prima di tutto un atto simbolico. La Commissione vuole dimostrare i suoi nuovi strumenti di tortura e ovviamente dice a se stessa: se deve essere fatto, allora facciamolo per bene. Per la sua dimostrazione di potere, ha scelto raccomandazioni politiche particolarmente controverse, come l'abolizione del sistema di separazione coniugale in ambito fiscale, per il quale è davvero necessario usare una lente d'ingrandimento per poter individuare una qualche relazione a questioni di natura transnazionale.

Ecco una selezione di raccomandazioni per il 2019 (cioè un riferimento agli squilibri macroeconomici dell'eurozona) chiaramente più vicina ad una serie di problemi transnazionali a cui sarebbe stato opporturno ricorrere in relazione al fondo di recupero: la crescita troppo moderata dei salari (paragrafo 2), il tasso di investimenti pubblici troppo basso soprattutto a livello comunale (paragrafi 3 e 7), la spesa per l'istruzione troppo bassa (paragrafo 8), la costruzione di case al di sotto degli obiettivi (paragrafo 13) e l'ulteriore diminuzione della copertura della contrattazione collettiva (come se la Commissione esattamente su questo punto in Europa meridionale non avesse dichiarato guerra  - paragrafo 18).

La Commissione avrebbe anche potuto scegliersi delle raccomandazioni politicamente meno controverse, come ad esempio la correzione del basso livello di tasse ambientali in Germania (paragrafo 15) o ad esempio, il rafforzamento del personale docente nelle scuole (paragrafo 19). E nel contesto della pandemia, che in definitiva è stato l'impulso per il fondo di ricostruzione, un richiamo per aumentare l'attrattività delle professioni infermieristiche sarebbe stato abbastanza comprensibile (questa richiesta si trova anche nelle attuali raccomandazioni del 2020, paragrafo 19).

La provocazione della Commissione tuttavia non farà passare ai funzionari della Cancelleria e ai ministeri coinvolti notti insonni. Si può in pratica escludere che la dimostrazione di forza alla fine porti la Commissione a trattenere dei fondi nell'ambito del Recovery Fund a cui la Germania avrebbe diritto. In ogni caso, il piano tedesco di ricostruzione e resilienza, al quale la Commissione ha risposto, è un documento preliminare (si può leggere qui, alle pagine 14-15 ci sono le informazioni sulla compatibilità con le raccomandazioni del semestre). Il piano definitivo e corretto dovrà essere inviato alla Commissione entro l'aprile di quest'anno, dovrà poi essere valutato e, ci si aspetta che il Consiglio gli dia il via libera per lo sblocco dei fondi. Questo tuttavia però non dovrebbe oscurare la china scivolosa che l'integrazione europea ha preso su questo tema.

L'integrazione europea sulla strada sbagliata

Per chiarezza distinguiamo due modi di fare politica europea. Nella prima modalità, gli stati membri definiscono i campi politici nei quali vogliono agire congiuntamente sulla base di costellazioni di problemi transnazionali. Sulla scelta tra le alternative della decisione ha luogo a livello europeo una discussione comune. Tanto più queste discussioni paneuropee verranno condotte, tanto più si svilupperà una sfera pubblica europea - attualmente debole nel migliore dei casi. In questo modo, potrà gradualmente emergere uno spazio politico comune con veri partiti europei, mentre la politica europea potrà essere controllata democraticamente attraverso le elezioni.

Questa è più o meno la visione positiva della politica europea. Al momento, tuttavia, non c'è molto che suggerisca che questa possa diventare realtà. L'errata introduzione dell'euro, purtroppo, ha reso un cattivo servizio alla nascita di uno spazio politico comune, in quanto ha rafforzato le linee di conflitto che non corrono tra i partiti europei, ma tra i paesi. E questo è l'esatto contrario di uno spazio politico comune; il modo in cui i conflitti vengono risolti non può essere democratizzato (i partiti, non i paesi, possono essere eletti). Da buoni europei, tuttavia, non desideriamo forse che le possibilità di realizzare questa visione in futuro possano tornare a crescere?

Le direttive specifiche di Bruxelles, che differiscono da paese a paese, tuttavia, sono qualcosa di completamente diverso. In linea di principio non possono essere democratizzate a livello europeo, cioè non possono essere controllate per mezzo di elezioni democratiche a livello europeo, perché hanno non uno, ma 27 contenuti diversi. E a livello degli Stati membri hanno l'effetto di distruggere la democrazia.

Esse non tracciano la visione di una marcia verso una lontana Europa democratica, ma l'incubo di un approfondimento dell'Europa tecnocratica e autoritaria già esistente. Allo stesso modo, segnano l'arroganza da parte di Bruxelles di voler sapere meglio dei cittadini dei singoli paesi, cosa deve accadere nella politica degli stati membri. Il bilancio finale di questa arroganza è disastroso. Purtroppo, anche nello spazio progressista, le reazioni rimangono per lo piu' di accettazione. La tentazione di unirsi a loro è ovvia; dopo tutto, le risorse di potere che giacciono dormienti nell'Europa autoritaria sono inesauribili e allettanti. A chi non piacerebbe avere qualche briciola?

Tutto questo, ci si chiede da piu' parti, non sarebbe in qualche modo sostenibile se solo il Parlamento europeo oppure le parti sociali si mettessero di traverso? O forse il Comitato delle Regioni? Posso solo mettere in guardia dal tentativo di fare la pace con le modalità autoritarie tipiche della politica europea. L'unico modo sensato di affrontare queste aberrazioni dell'integrazione europea è quello di minimizzarle e abolirle. Per il Fondo di ricostruzione, questo significa che tutte le condizionalità che non hanno nulla a che fare con l'uso effettivo dei fondi dovranno essere fondamentalmente respinte.






lunedì 8 febbraio 2021

Nella trappola dei minijob

"Se mai fosse stata necessaria una prova ulteriore del fatto che i minijob sono dei lavori di seconda categoria che nella loro forma attuale devono essere aboliti, la pandemia ce l'ha fornita", scrive il sociologo tedesco Markus Kruesemman. Una riflessione molto interessante sulla trappola dei minijob ai tempi della pandemia, da Makroskop.de



Le misure prese nel corso del 2020 per combattere la pandemia da Coronavirus hanno lasciato il segno sul mercato del lavoro. Per la prima volta dopo anni di costante crescita, l'anno scorso il numero delle persone occupate è sceso. Contemporaneamente, il numero di disoccupati e inoccupati è aumentato. Il fatto che le cose fino ad ora non siano ancora peggiorate, probabilmente è dovuto al regime della cassa integrazione (Kurzarbeitergeld).

Se grazie a questa forma di proseguimento parziale del pagamento dei salari è stato steso un ombrello protettivo sui dipendenti soggetti ai contributi sociali, per molto tempo invece i lavoratori autonomi sono stati lasciati fuori e al freddo ad aspettare. Ma anche i cosiddetti impieghi marginali sono stati colpiti in maniera dura.



Basta un lockdown e i mini-job spariscono

"Gli occupati con un contratto di mini-job sono i veri perdenti della recessione indotta dal coronavirus", è questa la conclusione a cui giunge uno studio dell'Istituto tedesco per la ricerca economica (DIW) del novembre 2020. Come mostrano i dati, infatti, nel giugno 2020 c'erano circa 850.000 minijob in meno, vale a dire il 12% in meno rispetto all'anno precedente. Nello stesso periodo, l'occupazione soggetta a contributi sociali obbligatori si è ridotta però solo dello 0,2%. Le persone piu' colpite sono state proprio quelle che avevano un mini-job come lavoro principale. Il 45% degli occupati che nel 2019 aveva esclusivamente un minijob, nella primavera del 2020 non aveva più un lavoro. Per i mini-jobber che svolgevano il lavoro come impiego secondario, questa proporzione invece era "solo" del 18%.


E queste sono state le conseguenze solo del primo blocco di marzo/aprile 2020. Si sa ancora poco dell'impatto che avrà il blocco invernale. Ma probabilmente è corretto ipotizzare che la situazione dei mini-jobber, che si era un po' ripresa in autunno, tornerà a peggiorare. Gli ultimi dati estrapolati dall'Agenzia federale del lavoro mostrano già una tendenza negativa in corso nel novembre 2020.

In questo contesto, le dichiarazioni ottimiste su di un mercato del lavoro che in questa fase di crisi sarebbe robusto, e che avrebbe dimostrato di essere a prova di crisi, sembrano alquanto fuori luogo. Mostrano solo che i minijobber non contano. Non vengono nemmeno presi in considerazione dalle statistiche sulla disoccupazione, e si ha l'impressione che vengano ignorati o semplicemente dimenticati anche ora che siamo in crisi.

Male e peggio

Nessun dubbio sul fatto che anche per i lavoratori dipendenti che hanno un lavoro soggetto a contributi sociali, i tagli subiti in molti casi sono stati massicci. Grazie allo schema del Kurzarbeit, tuttavia, in molti almeno sono stati protetti dalla disoccupazione, anche se la riduzione dello stipendio per tanti lavoratori a basso reddito significa dover affrontare gravi problemi finanziari. E quelli che sono diventati disoccupati, nella maggior parte dei casi, almeno hanno diritto al sussidio di disoccupazione (ALG 1), in modo da potersi risparmiare l'umiliante viaggio al centro per l'impiego, sempre che il loro salario sia abbastanza alto da ricevere un sussidio di disoccupazione sopra il livello Hartz IV.

In confronto, i minijob sono "un sottomondo". Indennità di cassa integrazione? Niente del genere. Sussidio di disoccupazione? Neanche per sogno. È proprio qui che l'esenzione dalle assicurazioni sociali obbligatorie si fa sentire. L'equazione apparentemente attraente secondo la quale "il guadagno lordo corrisponde al salario netto", con la quale i datori di lavoro amano pubblicizzare i minijob, in tempi di crisi non funziona più. Chi viene mandato a casa e improvvisamente riceve solo uno zero lordo, non avrà niente di netto in tasca.

E solo come un inciso, per coloro che sono stati in grado di mantenere il loro minijob, ma ora hanno bambini in età scolare seduti a casa: poiché un'occupazione marginale non garantisce la copertura assicurativa sanitaria, i minijobber non hanno diritto all'indennità di malattia per i bambini, che recentemente è stata aumentata a un massimo di 20 giorni per bambino.

Un altro fattore che contribuisce alla crisi dei minijobs, naturalmente, è il fatto che il lavoro svolto dai minijobber non è generalmente adatto ad essere svolto in home-office. Ancora più grave, però, è il fatto che i minijobs si concentrano in quei settori che sono stati particolarmente colpiti dalle misure di lockdown.

I minijob sono una trappola occupazionale

Il ricorso allo strumento della flessibilizzazione del lavoro e dei minijob come strumento per il taglio dei salari nei settori particolarmente colpiti dal Coronavirus è un aspetto che da solo non può spiegare la crisi dei minijob. In realtà, non fa altro che esacerbare un problema fondamentale, la cui causa è strutturale: i minijob sono una forma di occupazione precaria e soggetta alle crisi. Una occupazione marginale non è adatta a garantire il sostentamento, per non parlare di una pensione in vecchiaia, e non è nemmeno un ponte verso un'occupazione regolare. Invece di affrontare la tanto attesa ri-regolamentazione della politica del mercato del lavoro, la coalizione di governo preferisce discutere sull'aumento da 450 a 600 euro della soglia massima di guadagno.

Se mai fosse stata necessaria un'ulteriore giustificazione in merito al fatto che i mini-job sono dei lavori di seconda categoria che nella loro forma attuale devono essere aboliti, la pandemia ce l'ha fornita.