giovedì 18 giugno 2020

Jens Südekum: "Niente panico, il debito pubblico italiano è ancora gestibile"

"Il debito pubblico non è certo un problema così grande come spesso viene rappresentato nel dibattito pubblico tedesco", oppure "il rappporto debito-PIL al 60 % è stato definito in modo del tutto arbitrario" o ancora "la BCE non sta facendo nulla che non le sia permesso di fare...e non sta togliendo nulla ai risparmiatori tedeschi", ma anche: "è il momento giusto per cambiare il mandato della BCE". A dirlo non è un politico dell'Europa del sud, ma il grande economista tedesco Jens Südekum, voce sempre piu' influente nel dibattito tedesco e soprattutto consigliere economico molto apprezzato dal ministro Olaf Scholz. Jens Südekum intervistato da T-Online


t-online.de: Herr Südekum, si metta una mano sul cuore: comprerà più latte a partire da luglio grazie ai due centesimi di risparmio sull'Iva per ogni litro?

Jens Südekum: Probabilmente no. Però, come funzionario pubblico, la crisi economica causata dal Coronavirus non mi ha colpito direttamente. Non ho bisogno di cambiare eccessivamente le mie abitudini di consumo. Resta da vedere se davvero la gente farà più acquisti grazie alla riduzione dell'iva.

E' stato fra i primi a lodare il pacchetto di stimoli della Grande Coalizione. Pensa davvero che tre punti percentuali di Iva in meno siano un grande incentivo a fare piu' acquisti?

Non è del tutto vero. All'inizio anche io sono rimasto alquanto sorpreso dal taglio delle tasse. Come la maggior parte delle persone, anche nella mia lista delle cose da fare non c'era questa misura. In precedenza erano stati discussi altri strumenti. Ad esempio gli incentivi per l'acquisto di automobili, che fortunatamente non ci sono. E' stata una vittoria contro le forze dei lobbisti. La Grande coalizione invece ha deciso di ridurre l'IVA. Ci sono luci ed ombre. La questione del passaggio ai consumatori finali resta problematica. E' positivo il fatto che sia intersettoriale e limitata nel tempo. In questo modo, lo Stato incoraggia i consumatori ad anticipare gli acquisti che avrebbero comunque previsto di effettuare. Chiunque quest'anno voleva acquistare un nuovo smartphone, ora sarà più propenso a farlo - sapendo che nel nuovo anno potrebbe costare dai 50 ai 60 euro in più. È un effetto positivo.

Ma questo effetto scomparirà non appena la riduzione verrà meno, giusto?

Si', c'è da aspettarselo. Gli acquisti diminuiranno a partire da gennaio. Perché dopo che avrò comprato la prima lavatrice, è probabile che non abbia bisogno della seconda. Ma questa è l'ironia di aver posto un limite temporale. Dopo tutto la speranza è che prima di allora l'economia sia ripartita e che gli stimoli supplementari alla domanda non siano più necessari.

Tutto questo presuppone che i commercianti trasferiscano la riduzione dell'imposta ai consumatori. Pensa che lo faranno?

In realtà se guardiamo a quello che è successo negli altri paesi, dovremmo essere alquanto scettici. Gli studi dimostrano che laddove c'è stata una riduzione dell'aliquota IVA, i commercianti non hanno quasi mai adeguato i prezzi per i consumatori. Anche se non era mai avvenuto nell'ambito di un pacchetto di stimoli economici. Ora c'è tutt'altro tipo di pressione pubblica. Sono quindi ottimista sul fatto che, dopo tutto, la riduzione dell'imposta alla fine in molti casi venga trasferita ai clienti.

Sembra un elogio nei confronti dei partiti della Grande coalizione - e lei non è il solo a farlo. Molti economisti, che normalmente hanno opinioni molto diverse, la vedono in maniera simile. Da dove arriva questa nuova unità nella vostra corporazione solitamente cosi' divisa?

Prima di tutto sono d'accordo con questa valutazione. È vero che in questo momento c'è un ampio consenso - almeno per quanto riguarda la progettazione del pacchetto di stimolo per l'economia tedesca. È chiaro a tutti gli economisti: questa crisi sta colpendo l'economia come nessun'altra crisi aveva fatto finora. Ed è quindi altrettanto chiaro che lo Stato deve intervenire in modo massiccio per contrastarne gli effetti. Ma se le lodi sono così unanimi è dovuto anche al fatto che la politica non ha ripetuto alcuni errori fondamentali del passato. La grande coalizione non ha messo insieme un semplice pacchetto pensato per le lobby, ma un pacchetto molto sensato che sarà efficace non solo nel breve termine, ma anche nel lungo. Le spese per gli investimenti futuri ammontano a circa 50 miliardi di euro. È difficile essere contrari a priori. E un ultimo motivo è che, a differenza dei tempi della crisi finanziaria, la crisi causata dal Coronavirus è caratterizzata da legami molto stretti fra scienza e politica. A quei tempi, dieci anni fa, c'erano due mondi fra loro separati: la politica faceva il suo compito, gli economisti facevano poi a pezzi quelle stesse misure. Ora si potrebbe dire che i decisori politici e gli economisti parlano molto di piu' fra di loro.

Per finanziare il pacchetto, lo Stato si indebiterà in una dimensione storica. Cosa le fa pensare che questo non sia un problema?

Dire che non è affatto un problema, sarebbe esagerato. Ma il debito pubblico non è certo un problema così grande come spesso viene rappresentato nel dibattito pubblico tedesco. Frasi come "le prossime generazioni dovranno pagare per i nuovi debiti", non riesco proprio piu' nemmeno ad ascoltare. E' una rappresentazione completamente distorta e limitata. Il debito pubblico non è fatto per essere ripagato, è fatto semplicemente per restare li'. Il punto è piuttosto fare in modo che il prodotto interno lordo, cioè la produzione economica, cresca più rapidamente dei debiti. In questo modo, il rapporto debito pubblico/PIL, si ridurrà automaticamente. È così che si è fatto dopo la crisi finanziaria ed è così che possiamo fare un'altra volta. Il fatto che dal 2013 in poi una parte del debito sia stata effettivamente rimborsata, cioè estinta, storicamente è un'eccezione assoluta, un fatto che non era mai accaduto prima nella storia della Repubblica Federale.



E allora perché i tedeschi ci credono veramente?

Perché nella politica economica, purtroppo, si raccontano molte favole. Queste possono sembrare plausibili ai non addetti ai lavori perché sembra in qualche modo logico che gli stati funzionino come le famigle. Se lo zio Ernst o la zia Frieda prendono in prestito dei soldi, ovviamente devono restituirli. Ma il debito pubblico funziona in modo completamente diverso. Se a scuola si insegnasse una materia chiamata economia, ci sarebbero anche piu' persone in grado di capirlo.

Il metro di valutazione del debito pubblico è il cosiddetto rapporto debito/PIL, di cui lei ha parlato poco fa. L'UE stabilisce che nel lungo termine non debba superare il 60 %. Si tratta di una dimensione ragionevole dal punto di vista economico?


No, il rappporto debito-PIL al 60 % è stato scelto in modo del tutto arbitrario. Per questo motivo non dobbiamo farci prendere dal panico se un paese ha un rapporto di indebitamento più elevato. Gli Stati Uniti sono al 130 %, mentre in Giappone è il rapporto è pari al 250 % del PIL. Questa cifra indica semplicemente l'entità del debito rispetto al prodotto interno lordo. Ad essere decisivo per la valutazione del debito pubblico, tuttavia, è un altro numero.
Quale?

Molto più importante del rapporto debito pubblico/PIL è la sostenibilità del debito, vale a dire se possiamo permetterci di pagare i tassi di interesse per il servizio del debito. E per valutarlo, prima di tutto dobbiamo guardare all'evoluzione futura dei tassi di interesse. La regola è: fino a quando la crescita percentuale dell'economia sarà superiore rispetto al tasso d'interesse, non ci sono problemi. Al momento siamo fortunati perché i tassi di interesse sono ad un livello storicamente basso. Lo Stato tedesco può indebitarsi a tasso zero, i tassi d'interesse sui titoli di stato tedeschi sono addirittura negativi - i nostri debitori ci pagano anche qualcosa per avergli permesso di darci i loro soldi a prestito.

Cosa significa esattamente?

In concreto, ciò significa: anche se la crescita economica dovesse essere molto bassa, ad esempio, solo dell'uno per cento, possiamo permetterci di fare dei nuovi debiti. La sostenibilità del debito è quindi possibile. Possiamo crescere riducendo il debito. Direi che invece di parlare del rapporto tra debito pubblico e PIL, dovremmo parlare un po' di più del cosiddetto rapporto tra interessi e entrate dello stato. Che del resto risponde a una domanda: quanto deve spendere la generazione attuale per pagare gli interessi passivi? All'inizio degli anni '90 questo tasso era del 16 %. Era ad un livello problematico, perché limitava le possibilità della spesa pubblica. Attualmente, tuttavia, questa cifra è solo al 4%. La Germania si trova in una situazione estremamente confortevole. Anche l'Italia per quanto riguarda il rapporto fra interessi sul debito ed entrate pubbliche si trova all'8 %. E' gestibile. Non dobbiamo farci prendere dal panico a causa dei debiti.

Il ministro dell'Economia Peter Altmaier a quanto pare non ne ha ancora sentito parlare. Dice che il debito pubblico deve scendere al 60% entro "una generazione". E' una sciocchezza?

No, sono certo che il signor Altmaier capisce molto bene il concetto e non interpreterei la sua dichiarazione in questo senso. Penso anche che sarebbe molto positivo se la crescita economica tornasse ad essere di nuovo così forte da far scendere il rapporto debito pubblico/PIL al 60% entro dieci anni. Ma dico anche: se non succede, non è un disastro. Questo significa che non dobbiamo risparmiare ad ogni costo e con ogni mezzo, al solo scopo di liberarci dai debiti - al contrario: sarebbe fatale se iniziassimo troppo presto a risparmiare e soffocassimo immediatamente lo stimolo economico che ora invece viene innescato. Sarebbe come se in un'auto premessimo contemporaneamente sia l'acceleratore che il freno. Ciò di cui abbiamo bisogno è la crescita.

La domanda chiave è: avremo questa crescita?

Ne sono convinto, sì. Non c'è motivo per cui l'economia non debba tornare a crescere anche dopo la crisi da Coronavirus. Certo, alcune cose cambieranno, ad esempio il nostro comportamento in relazione ai viaggi. Altri beni invece - ad esempio i software per le videoconferenze - saranno più richiesti. E anche se l'economia non crescesse così tanto, probabilmente non sarebbe un problema, perché allora la Banca Centrale Europea (BCE) non avrebbe alcun motivo per rialzare i tassi di interesse, in modo che noi potremmo continuare a permetterci di finanziare il debito.

La parola chiave corretta: un presupposto importante per avere un onere derivante dai tassi d'interesse permanentemente bassi è anche il fatto che la stessa BCE acquisti i titoli di Stato senza indugio. Lo fa già indirettamente, anche se ufficialmente non le è permesso di farlo. È un problema?

In primo luogo, serve un chiarimento: la BCE non sta facendo nulla che non le sia permesso di fare. Attualmente la BCE non acquista direttamente il debito degli Stati. Questo lo fanno le banche commerciali, ad esempio Commerzbank. Quest'ultima vende i titoli di debito alla BCE. E questo entro certi limiti è consentito. E per sfatare un altro mito: la BCE non è la sola responsabile dei bassi tassi d'interesse, non sta togliendo nulla ai risparmiatori tedeschi. I tassi di interesse sono in calo a causa della minore domanda di denaro. Questa tendenza è presente sin dagli anni '80. E ora passiamo al problema da lei citato: è vero che la BCE ha un insieme di regole molto più stringenti rispetto a quello delle altre banche centrali, ad esempio della Banca del Giappone o della Federal Reserve statunitense. Queste sono autorizzate a supportare direttamente i loro Stati, facendo partire la stampante delle banconote. E già lo stanno facendo.

La BCE dovrebbe essere autorizzata a fare lo stesso?

Se è necessario, allora anche con tutti i mezzi disponibili. E ora sarebbe il momento giusto per un cambio di mandato. E' inaccettabile che la BCE con i suoi programmi di acquisto dei titoli di Stato sia sempre sul banco degli imputati. E' il momento di essere onesti e ammettere che la costruzione dell'euro aveva dei difetti. Non avremmo mai dovuto introdurre una moneta comune senza una politica finanziaria e fiscale comune guidata da Bruxelles per tutti gli Stati membri. E non avremmo mai dovuto mettere tutte queste catene alla BCE. Non funziona. Se vogliamo preservare l'euro, e io lo voglio, dobbiamo anche discutere dell'architettura dell'eurozona. La mia speranza è che la crisi attuale ci porti a parlare dei fondamenti del sistema in cui ci troviamo.



Molti tedeschi non vogliono che questo accada perché temono di dover pagare il conto per gli altri paesi. E la loro paura dell'inflazione è altrettanto grande. Secondo lei, quante probabilità ci sono che l'euro si deprezzi, data la quantità di denaro che la BCE sta pompando sui mercati?

Prima di tutto, non credo che molti tedeschi abbiano paura del più Europa. Si tratta solo di alcuni gruppi specifici. Anche tra gli economisti non sono più la maggioranza. E per quanto riguarda l'inflazione, è vero che negli ultimi tempi la quantità di base monetaria è aumentata notevolmente e continua a crescere. Ma i miliardi di euro non entrano neanche nel ciclo monetario. Il denaro viene accumulato. La gente risparmia e le aziende ne hanno bisogno in misura molto minore - perché, ad esempio, gli investimenti in algoritmi informatici oggi sono più economici rispetto alla costruzione di una nuova acciaieria di 100 anni fa. Proprio per questo motivo i tassi di interesse, in quanto prezzo del denaro, sono cosi' bassi. Non sono quindi preoccupato per l'inflazione nel prossimo futuro. Ho più paura della deflazione.

Parliamo del suo campo specialistico, l'economia internazionale. Le esportazioni tedesche hanno subito un crollo storico. Quanto cambierà il commercio internazionale a seguito della pandemia causata dal coronavirus?

Quello che abbiamo visto nei giorni scorsi, in merito alle statistiche ufficiali sulle esportazioni, è l'onda d'urto di breve termine proveniente dal Coronavirus, che sta colpendo l'intero globo. La domanda di beni e servizi è crollata drammaticamente in tutto il mondo. Nella situazione attuale, chi dovrebbe comprare un'auto tedesca? Al contrario, stiamo acquistando molto meno dall'estero, anche perché le catene di approvvigionamento si sono interrotte. Nel medio e nel lungo termine ci sarà un allentamento della situazione. Mi aspetto che il commercio internazionale, almeno in parte, si riprenda a partire dalla seconda metà dell'anno.

Ne è sicuro? Dopotutto, anche prima della crisi da Coronavirus c'erano segnali che la globalizzazione in parte stesse regredendo. Il Coronavirus non ha accelerato questa tendenza?

E' possibile. Grazie alle nuove tecnologie, molti si chiedono se la globalizzazione sia ancora necessaria, se il mondo abbia davvero bisogno di restringersi ancora. Ad esempio, abbiamo davvero bisogno di produrre tessuti o scarpe in paesi a basso salario come il Vietnam? Potremmo anche farli produrre in maniera economicamente vantaggiosa da fabbriche completamente automatizzate in Europa - e allora avremmo bisogno di meno commercio internazionale. Il Coronavirus ci mostra anche quanto sia fatale dipendere dall'estero per i beni vitali, come le mascherine. Tuttavia, vorrei mettere in guardia dal voler riportare a casa ogni tipo di produzione.

Perché?

Perché anche se producessimo tutto in Germania o nelle vicinanze, non saremmo comunque protetti al 100% dalle crisi future. Immagini cosa accadrebbe se la prossima pandemia virale non scoppiasse in Cina, ma in Nordreno-Vestfalia. Ne saremmo colpiti allo stesso modo. Quello che probabilmente accadrà, tuttavia, è che in futuro le aziende opereranno su più binari. Renderanno le loro catene di approvvigionamento più larghe in modo da non dipendere da un solo sito di produzione in Estremo Oriente - anche se ciò sarà un po' costoso. Ma lo faranno autonomamente. Metto in guardia i politici dal voler alimentare questo fenomeno e dal tentativo di riportare a casa qualsiasi produzione.

Ma potrebbero diventare molto popolari tra la gente. La maggior parte dei tedeschi ormai è scettica nei confronti della globalizzazione. I politici non dovrebbero forse spiegare alla gente che con meno globalizzazione molte cose saranno più costose?

Assolutamente sì. E anche qui è vero che molte persone sono sopraffatte dai temi economici. Non capiscono i vantaggi del commercio estero.

Allora, per favore, ce li spieghi lei!

Per farlo dobbiamo guardare un po' al passato. Nel 1960, il tedesco medio doveva lavorare 43 giorni per potersi permettere un televisore a tubo. Oggi ci vuole meno di una settimana per un moderno televisore a schermo piatto. Si tratta di un declino drammatico - e lo dobbiamo molto al commercio, alla globalizzazione, che ha fatto sì che i televisori possano essere prodotti a prezzi molto più bassi in Cina. Anche il viaggio low cost a Maiorca è un prodotto della globalizzazione. Chiunque dica di voler tornare indietro dalla globalizzazione, deve anche rendersi conto che ciò per la gente potrebbe significare un'enorme perdita di prosperità. Non dovremmo commettere questo errore, soprattutto perché noi, come economia tedesca, siamo estremamente dipendenti dal commercio internazionale. Ma dovremmo fare un lavoro migliore per riuscire a plasmare la globalizzazione, soprattutto in vista del cambiamento climatico.

Per combattere il cambiamento climatico, tuttavia, molti pensano, che dovremmo viaggiare di meno, soprattutto volare meno. L'Austria ha persino introdotto un prezzo minimo per i biglietti aerei. Un'idea sensata?

I prezzi minimi dei biglietti non sono il miglior strumento per proteggere il clima. Per questo abbiamo bisogno di un prezzo più alto per la CO2. Questo lo si può fare sia attraverso una tassa sulla CO2, che attraverso dei certificati sulla CO2, che tutte le compagnie aeree dovrebbero acquistare per compensare le conseguenze negative per il clima dei voli aerei. L'ideale sarebbe un commercio mondiale di tali certificati sulla CO2, in tutti i continenti, in tutti i paesi. Poiché ciò in tempi prevedibili non è molto realistico, dovremmo almeno attuarlo nell'UE. Per tutte le importazioni dai paesi terzi, tuttavia, dovremmo applicare un'imposta supplementare sul contenuto di CO2 alla frontiera esterna dell'UE, simile alla sovrattassa IVA sulle merci importate, per le quali il produttore in patria non ha dovuto pagare l'imposta. Questo non è protezionismo, ma è necessario e anche giusto per preservare l'industria in Europa.

Herr Südekum, la ringrazio per l'intervista




lunedì 15 giugno 2020

Come hanno fatto i grandi discount tedeschi a invadere il mercato con la loro carne di maiale a prezzi stracciati?

Dietro c'è una storia di animali maltrattati, di sfruttamento dei lavoratori nei grandi macelli del nord e una guerra dei prezzi che ha fatto arricchire a dismisura i signori della carne di maiale a basso costo. Questa storia molto interessante ce la racconta Jürgen Glaubitz, sindacalista del grande sindacato tedesco Ver.di

discount tedeschi con carne di maiale a prezzi stracciati


Pochi giorni dopo che centinaia di dipendenti della Westfleisch di Coesfeld sono risultati positivi al test per il Covid-19, e la stampa (ancora una volta!) ha riferito delle scandalose condizioni in cui versano molte fabbriche tedesche per la lavorazione della carne, Aldi ha avviato una nuova trattativa per ottenere dei ribassi sul prezzo della carne di maiale. Indipendentemente dalla discussione in corso sull'industria della carne, Aldi chiede una rapida riduzione dei prezzi della carne suina.

Così, in concomitanza con l'avvio della stagione delle grigliate, sul mercato viene lanciata della carne ancora piu' economica. Dopo tutto, sostengono i supermercati, è nell'interesse del consumatore. Al tedesco piace grigliare, ha speso molti soldi per il suo nuovo barbecue, ma vuole spendere il meno possibile per quello che ci deve mettere sopra. E' fondamentale che sia economico.

Le cose stanno davvero così? I tedeschi vogliono veramente avere sempre piu' carne a buon mercato - ad ogni costo? Aldi, Lidl & Co. vogliono davvero viziare il "re cliente" con dei prezzi sempre piu' bassi? Oppure hanno obiettivi completamente diversi, diciamo meno nobili?


Qual'è il vero "prezzo" da pagare per avere questa carne cosi' economica? Ad essere colpiti non ci sono solo i poveri maiali negli allevamenti per l'ingrasso e gli operai nelle fabbriche di Tönnies, Vion, Westfleisch & Co. A subirne le conseguenze alla fine sono anche i consumatori, perché il consumo di carne a basso costo è tutt'altro che salutare...

Povero maiale

I bassi prezzi nella grande distribuzione hanno anche un lato oscuro. I maiali da ingrasso vivono in stallini angusti con pavimenti di tavole. Nell'ingrasso convenzionale dei suini, gli animali vengono fatti crescere senza tregua e senza pietà. Lesioni e disturbi comportamentali come i morsi alle orecchie e alla coda ne sono spesso le conseguenze. Particolarmente negativa è l'immobilità degli animali nelle piccole casse.

discount tedeschi in Italia



L'allevamento in batteria tipico dela carne a basso costo spesso implica un'indicibile tortura per gli animali. In Germania un maiale su cinque nato per alimentare l'industria della carne "non raggiunge nemmeno l'età di macellazione perché si ammala o si ferisce prima". Più di 13 milioni di suini, infatti, vengono uccisi prematuramente "per necessità" (spiegel.de del 22.10.2019).

L'anno scorso in questo paese sono stati macellati 55 milioni di maiali. La maggior parte di loro proviene da allevamenti sul territorio nazionle. Un maiale su tre viene macellato dall'azienda Tönnies, a Rheda-Wiedenbrück


Tutto per il benessere degli animali?

Quando vengono criticate queste condizioni vergognose, spesso si fa riferimento all'etichetta sul benessere degli animali. Si tratta di un marchio di garanzia che ha lo scopo di aiutare a valutare le condizioni in cui gli animali vengono allevati, trasportati e macellati. È stata presentata per la prima volta nel 2018, e poi in seguito modificata.

L'etichetta sul benessere degli animali viene criticata sin dalla sua introduzione. Stern l'ha definita "una delle più grandi bugie create negli ultimi anni dalle pubbliche relazioni" (stern.de 29.5.2017). I critici hanno parlato di una "etichetta come un alibi". E anche la nuova versione non apporta alcun reale miglioramento in merito all'allevamento degli animali. Un maiale del peso di 110 kg avrebbe a disposizione 0,90 metri quadrati di spazio, invece degli 0,75 metri quadrati di cui disponeva finora. I critici considerano l'etichetta di "benessere degli animali" come un altro marchio di qualità che non apporta nessun miglioramento concreto. La partecipazione all'etichettatura, inoltre, resta volontaria. 

"La carne di maiale a basso costo è il risultato di una politica agricola che non introduce un'etichetta vincolante per il benessere degli animali. Con la carne industriale pompata grazie ai farmaci, non dobbiamo nemmeno porci la domanda: è questo il benessere degli animali? La domanda piuttosto è un'altra: "è un bene per gli animali?" (extra 3, dal 23.1.2020)



Il duro lavoro di manovalanza nelle fabbriche per la produzione di carne

Per qualche giorno c'è stata una grande indignazione in merito alle condizioni scandalose in cui i lavoratori stranieri a basso salario sono costretti a lavorare e vivere nel nostro Paese. Del resto non è un argomento nuovo. Già nel 2016 Die Zeit scriveva: "Dormono in quattro su dei materassi sottili, lavorano più di 12 ore al giorno e guadagnano poco più di 1.000 euro al mese" (zeit.de dal 3.4.2016). Tre anni fa, lo stesso giornale riportava su Clemens Tönnies, il più grande macellatore di maiali in Germania (e part-time ancora presidente dello Schalke 04): "Migliaia di lavoratori provenienti da Polonia, Romania e Ungheria lavorano appena sopra gli zero gradi, e guadagnano solo pochi euro l'ora. Queste persone hanno reso ricco Tönnies".

"Il re dei maiali" (zeit.de, dal 5.11.2017).

Il Süddeutsche scriveva un anno dopo: "Vengono dalla Bulgaria, dalla Romania o dall'Ucraina, lavorano nei macelli, scannano e sezionano maiali o bovini a cottimo. Con questo esercito di lavoratori, la ricca Germania è diventato un paese con manodopera a basso costo per i macelli" (SZ del 13.12.2018).

A proposito, le prime critiche massicce all'industria della carne sono arrivate proprio dall'America. Upton Sinclair nel suo romanzo bestseller "La giungla" del 1906 parlava delle scandalose condizioni igieniche nei macelli americani e del destino degli immigrati europei costretti a sgobbare come schiavi nelle fabbriche di carne di Chicago. Il protagonista è Jurgis Rudkus, un immigrato lituano... sostanzialmente non sembra essere cambiato molto da allora.

Le condizioni di lavoro e di vita precarie dei lavoratori stranieri sono note da anni e ricordano in gran parte gli albori del capitalismo. Il sindacato NGG critica i datori di lavoro dell'industria della carne per "lo sfruttamento degli animali e degli esseri umani". Questa rovinosa guerra dei prezzi si sta svolgendo sulle spalle degli animali e degli esseri umani. E' dal 2013 che la NGGG richiama l'attenzione sull'abuso dei contratti d'opera. Questi contratti vengono "siglati con aziende spesso dubbie, allo scopo di poter liquidare i dipendenti stranieri con dei bassi salari". Il subappalto è la radice del male...

Il governo federale finalmente ha reagito e a partire dal 2021 ha deciso di vietare i contratti d'opera nel settore della carne. Secondo il ministro del lavoro Hubertus Heil (SPD), in Germania non ci potrà piu' essere alcuna tolleranza per un modello di business che si rassegna e accetta lo sfruttamento e la diffusione delle pandemie

Secondo la NGGG si tratta comunque di un buon inizio per porre fine all'abuso dei contratti d'opera nell'industria della carne e allo sfruttamento dei lavoratori in subappalto. Tuttavia, ora saranno necessari dei controlli più severi (NGG, comunicato stampa del 20.5.2020).



"Carne a buon mercato": la guerra dei prezzi 

Ad essere corresponsabili di questi abusi sono i Big Four della grande distribuzione: Aldi, Lidl, Edeka e Rewe. Insieme controllano l'85% dell'intera distribuzione di prodotti alimentari. Con il loro enorme potere d'acquisto, infatti, controllano l'intera catena di approvvigionamento, mettono i fornitori e i produttori sotto una enorme pressione riuscendo in questo modo a ridurre i prezzi d'acquisto.

Si tratta - nel vero senso della parola - della salsiccia! L'obiettivo è quello di espandere sempre di piu' la loro quota di mercato. Lo strumento più importante a tal fine è il prezzo. Aldi e Lidl si battono per la leadership di prezzo nel segmento dei discount. Un importante "campo di battaglia" è la carne, mentre le cotolette a prezzo stracciato e i bratwurst oscenamente economici sono le esche.

Le conseguenze per i terzi non interessano quasi a nessuno! Le procedure sono sempre le stesse: non appena uno fa un passo in avanti, gli altri tre seguono. E in questo modo si apre un nuovo round nella guerra dei prezzi. L'obiettivo è quello di guadagnare quote di mercato. E un modo per farlo è la carne a basso prezzo.

Alla grande distribuzione piace prendere come pretesto il consumatore finale, il quale chiederebbe semplicemente delle offerte a basso prezzo. Ma non è il cliente a fare il prezzo, sono Aldi, Lidl & Co. E sono anche responsabili delle conseguenze di questa politica! Fare una concorrenza fondata sul dumping dei prodotti a base di carne di maiale è una porcata. Tali guerre di prezzo si svolgono solo a scapito di uomini e animali.

Ultimo ma non meno importante: probabilmente non è un caso che le tre persone più ricche in questo paese siano i proprietari di Aldi-Nord, Aldi-Süd e Lidl. Insieme, i due clan di Aldi piu' Dieter Schwarz (Lidl), hanno accumulato una fortuna di oltre 70 miliardi di dollari (forbes list 2020).

Un'enorme fortuna, creata attraverso una rigorosa gestione dei costi, una brutale e spietata concorrenza e delle  guerre di prezzo costanti. Le conseguenze negative le pagano gli altri!

Una parte di questa gigantesca fortuna è stata creata grazie al fatto che la carne (e quindi gli animali) vengono letteralmente svenduti

Non si può andare avanti così! Le guerre di prezzo a spese degli esseri umani e degli animali devono cessare. È ora che i super ricchi e gli imperatori dei discount facciano qualcosa di buono, almeno per una volta! Per il bene degli animali e degli esseri umani.

Probabilmente sarebbe una grande idea!

Dr. Jürgen Glaubitz


domenica 14 giugno 2020

La dissonanza cognitiva dell'eurozona

"La verità è che la normalità non può esistere in un sistema monetario che pone deliberatamente i bilanci degli Stati nazionali, e quindi le democrazie nazionali, sotto la spada di Damocle dei mercati finanziari. L'euro è espressione della "democrazia conforme al mercato" canonizzata dalla stessa Cancelliera tedesca", scrive il giurista e pubblicista tedesco Erik Jochem su Makroskop. Una riflessione molto interessante di Erik Jochem su Makroskop


La crisi causata dal Coronavirus non è ancora del tutto superata, come spiega Paul Steinhardt qui, e il pericolo di un crollo dell'Eurosistema non giustificherebbe in alcun modo la violazione del divieto di finanziamento agli stati (previsto dai trattati) da parte della BCE mediante il suo programma per l'acquisto di titoli di stato della zona euro, recentemente messo sotto accusa dalla Corte costituzionale federale. In democrazia non ci sarebbe spazio per un intervento straordinario delle istituzioni statali secondo il principio della "necessità non conosce comandamenti".

Questa affermazione è discutibile - e non solo dopo il Coronavirus. Naturalmente ogni sistema giuridico e democratico prevede un possibile stato di emergenza, con il quale il legislatore democratico riconosce delle situazioni eccezionali nelle quali il destinatario della norma non può più essere tenuto ad agire secondo la legge.

Il fatto che alla BCE non sia ancora stato esplicitamente concesso un tale diritto di intervento in situazioni di emergenza, non cambia il fatto che il motto di Mario Draghi, il famoso "Whatever it takes", equivalga in sostanza alla dichiarazione di uno stato di emergenza monetaria permanente per l'Eurosistema, e che tale stato di emergenza continui ancora oggi. A maggior ragione dopo il Coronavirus durerà ancora piu' a lungo, e per un periodo di tempo imprevedibile.

Se le cose sono così chiare - cioè, quando il sistema è davvero in pericolo, le regole abituali che ne impediscono la sopravvivenza diventano obsolete - perché allora questa argomentazione non ha avuto alcun ruolo nella discussione fra giuristi, né davanti alla Corte costituzionale federale, né davanti alla Corte di giustizia europea?

Perché proprio la Corte di giustizia europea si sforza di presentare il programma di acquisti della BCE come un evento ordinario di politica monetaria all'interno del mandato della BCE?

Chi nell'eurozona, da una posizione di responsabilità, discute apertamente del fatto che gli acquisti obbligazionari della BCE sono dovuti ad una situazione di emergenza che minaccia l'esistenza dell'Eurosistema, dovrebbe anche poter dire immediatamente quando questa situazione di emergenza finirà e quando ci sarà un ritorno alla normalità - che del resto è l'elemento naturale nel dibattito pubblico sulla crisi da coronavirus.

La verità, tuttavia, è che la normalità non può esistere in un sistema monetario che pone deliberatamente i bilanci degli Stati nazionali, e quindi le democrazie nazionali, sotto la spada di Damocle dei mercati finanziari. L'euro è espressione della "democrazia conforme al mercato" canonizzata dalla stessa Cancelliera tedesca.

Chi non vuole parlare di questa natura paradossale dell'euro - e quale europeista ben educato lo farebbe - non dovrebbe usare la parola "emergenza", ma in maniera alquanto innaturale dovrebbe far finta che nell'eurosistema la normalità sia possibile, come accade in altri sistemi monetari. Lo scandalo non è la crisi permanente dell'euro, ma gli acquisti obbligazionari fatti dalla BCE per gestire la crisi.

Il fatto che il dibattito sulla realtà dello stato di emergenza perpetuo sia stato completamente accantonato in favore di un dibattito sul rispetto dei trattati è politicamente devastante ed è espressione di un ristagno intellettuale senza precedenti.

Invece di scacciare Brüning come figura simbolo dell'euro, la politica ha rinunciato volontariamente allo scettro della responsabilità economica e, invece di occuparsi della realtà, ha scelto di dedicarsi interamente alla lotta tra il bene e il male. La politica come gioco dei castelli di sabbia.

sabato 13 giugno 2020

Heiner Flassbeck - Perché i 130 miliardi del governo tedesco non basteranno

Basteranno i 130 miliardi di euro promessi dal governo di Berlino per tenere in piedi l'economia tedesca? Per il grande economista tedesco Heiner Flassbeck non sono affatto sufficienti, perché la crisi economica in corso, ben visibile nel recente boom del Kurzarbeit, è di dimensioni mai viste prima e ampiamente sottovalutata dal governo di Berlino. I recenti dati sull'export poi mostrano un crollo storico della domanda estera, indispensabile per tenere a galla un sistema produttivo fondato sulla moderazione salariale. Alla fine a pagare il conto di questo modello produttivo orientato all'export come al solito saranno i lavoratori: prima in cassa integrazione, poi in disoccupazione e infine in Hartz IV. Un'analisi molto interessante di Heiner Flassbeck e Friedericke Spiecker da Makroskop.de



Sin dall'inizio della crisi da coronavirus abbiamo sottolineato (vedi l'articolo del 21 marzo) che questo shock causato dai governi non deve essere paragonato a una recessione o a un normale rallentamento economico. Questo shock è molto più grande e complesso rispetto a qualsiasi altra cosa vista finora. Guardando solo all'industria tedesca, si possono fare dei confronti con la grande recessione globale del 2008/2009 (Figura 1). Sebbene la domanda misurata in termini di nuovi ordini sia diminuita ad un ritmo molto più rapido rispetto ad allora, le dimensioni della crisi sono ancora simili. Nel complesso, i nuovi ordini (linea arancione) sono scesi a un livello di poco inferiore rispetto al livello di quel periodo.


Questo tuttavia vale solo per la media dei settori. Per l'industria automobilistica, ad esempio, lo shock attuale è molto peggiore (Figura 2). La produzione in aprile è scesa di oltre il 70% rispetto a marzo di quest'anno, ad un livello ben al di sotto del livello più basso del 2008/2009. L'industria tedesca di punta degli ultimi dieci anni si trova ora in una crisi esistenziale perché né in patria né all'estero, a causa dell'incertezza dei consumatori, l'acquisto di un'auto nuova al momento è all'ordine del giorno.



Il fatto che anche il totale delle esportazioni tedesche in aprile sia calato di quasi il 25% rispetto al primo trimestre è probabilmente dovuto in gran parte alla fondamentale debolezza della domanda di automobili. Ma anche la meccanica sta vivendo un crollo storico; dall'inizio dell'anno la domanda è diminuita di un terzo.



Il mercato del lavoro è il migliore indicatore

Ma questo non è tutto. A differenza della crisi finanziaria 2008/2009, questa volta sono state colpite molte più branche dell'economia nel suo complesso, perché la chiusura ha riguardato in gran parte anche settori che, come gli alberghi e i ristoranti, normalmente non hanno quasi mai percepito le battute d'arresto dell'economia. Anche il settore delle costruzioni, che in Germania non è stato interessato direttamente dalle misure restrittive e che fino a marzo aveva registrato un buon andamento, in aprile ha registrato un significativo calo della domanda, che si rifletterà anche in un sensibile calo delle costruzioni nei prossimi mesi.

La vera dimensione della crisi la si può capire solo guardando al mercato del lavoro. Gli ultimi dati dell'Agenzia Federale per il Lavoro (BA) sulla cassa integrazione (Kurzarbeit) mostrano le reali dimensioni della drammatica crisi economica avviata con l'introduzione delle misure restrittive per combattere la pandemia da coronavirus. A partire da marzo, infatti, il numero di aziende che hanno richiesto la cassa integrazione e le cui domande sono state esaminate dall'Ufficio federale di statistica ha raggiunto un ordine di grandezza che non ha nulla in comune con la crisi finanziaria del 2008/2009 (cfr. la linea blu nella figura 3):


Dopo le drammatiche 625.000 richieste di aprile, anche con le 67.000 di maggio siamo ancora di molto sopra al doppio della cifra massima mai raggiunta nel corso del 2009 (all'epoca poco meno di 25.000 ). L'ultimo dato riportato per il mese di maggio probabilmente sarà corretto nuovamente verso l'alto, così come è accaduto con i dati di marzo e aprile. Il dato attualmente riportato per il mese di aprile, ad esempio, è superiore di 37.462 richieste rispetto al dato preliminare di fine aprile. La BA a questo proposito scrive nella spiegazione delle relative statistiche:

"È possibile che in un periodo di aumento dei volumi, le richieste di cassa integrazione siano già state ricevute in massa dalle competenti Agentur für Arbeit, ma che non siano ancora state registrate elettronicamente nelle procedure specialistiche della BA, e che questa registrazione avvenga solo dopo un certo lasso di tempo. Attualmente, le notifiche relative alle procedure specifiche della BA probabilmente sono sottorappresentate in misura non trascurabile"

La BA ha ripreso la sua estrapolazione dei dati, che nel frattempo era stata interrotta, con una procedura estesa per determinare a partire dal numero di richieste segnalate e controllate, il numero effettivo di imprese in cassa integrazione. Questa estrapolazione serve da guida durante un periodo di cinque mesi nel quale la liquidazione della indennità di cassa integrazione non è stata ancora completata e i dati sul lavoro a tempo parziale (Kurzarbeit) non sono ancora definitivi.

Per il mese di marzo, ultimo mese per il quale al momento è disponibile un'estrapolazione, il dato calcolato (poco meno di 220.000 aziende) differisce di un terzo rispetto al numero di aziende segnalate e controllate ufficialmente (poco meno di 164.000). Questo suggerisce che l'estrapolazione dei dati di aprile relativamente al numero di aziende che dichiarano di lavorare a orario ridotto, rispetto al numero di aziende che effettivamente lavorano a orario ridotto, sarà anche peggiore. Dopotutto, il numero di aziende che dichiarano di lavorare a orario ridotto da marzo ad aprile è quasi quadruplicato. Il netto calo del numero di richieste a maggio, tuttavia, indica che la situazione, almeno per le nuove domande, si sta stabilizzando.

E il numero di persone che lavorano a orario ridotto? L'ingorgo dovuto al numero insolitamente elevato di richieste nei mesi di marzo e aprile aveva indotto la BA a stimare in 10,1 milioni il numero di persone in cassa integrazione a marzo e aprile (cfr. il comunicato stampa della BA del 30 aprile). Nel frattempo l'esame delle domande è progredito e per entrambi i mesi il risultato è stato di crica 10,6 milioni di persone (2,6 milioni a marzo e 8,0 milioni ad aprile). A maggio, il numero dei (nuovi) lavoratori a tempo ridotto viene stimato in via provvisoria in 1,06 milioni di persone (cfr. figura 4).


Dei circa 2,6 milioni di persone indicate come lavoratori a orario ridotto per il mese di marzo, la BA ha calcolato un numero effettivo di lavoratori a orario ridotto di circa 2,0 milioni. E' il 77%. Applicando lo stesso tasso alle persone registrate, nel solo mese di aprile si otterrebbe un numero di lavoratori a tempo parziale (cassintegrati) di oltre 6 milioni. Insieme al numero accumulato a marzo, che probabilmente ad aprile non si è ridotto, si arriva ad una stima del numero totale di lavoratori in cassa integrazione (Kurzarbeit) di circa 8 milioni.

L'Istituto Ifo stima in 7,3 milioni il numero di persone effettivamente in cassa integrazione nel mese di maggio. Se si ipotizza che a giugno grazie all'allentamento delle misure anti-coronavirus la situazione migliorerà, considerando un calcolo a campione ottimistico, si può ipotizzare che il numero di lavoratori ancora a tempo parziale a fine giugno sia la metà di quello di maggio, ovvero 3,65 milioni. Ne risulterebbe una media di circa 6,3 milioni di lavoratori a tempo parziale nel secondo trimestre.

Anche ipotizzando che il numero di nuovi lavoratori a tempo parziale nel mese di giugno sia pari a zero, ciò comporterebbe comunque una media di oltre 5 milioni di lavoratori a tempo parziale nel secondo trimestre. Anche in questa stima estremamente positiva, per non dire irrealistica, siamo ancora molto lontani dai 2,4 milioni ipotizzati nella diagnosi congiunta degli istituti di ricerca economica. Naturalmente, è ancora completamente aperta la questione del numero di ore lavorate in meno che sono o saranno effettivamente svolte.

E' ovvio tuttavia che la dimensione del crollo economico che sta dietro queste cifre supera di gran lunga la crisi finanziaria. La previsione comune stimava un calo di quasi il 10 % rispetto al primo trimestre. Se ciò fosse coerente con il numero di lavoratori a tempo parziale stimato, una visione realistica della cassa integrazione dovrebbe presupporre che il calo è di almeno il doppio.

In questo contesto, nel 2020 il prodotto interno lordo si ridurrà molto più di quanto previsto, numero del resto ancora in fase di discussione. Nel frattempo, il Consiglio dei saggi economici è già passato ad una stima di - 6,5% del PIL, dopo aver indicato un - 2,8% nel suo rapporto speciale di marzo (scenario più probabile), e anche nello scenario più pessimistico era rimasto ben al di sopra della cifra considerata probabile oggi.

È estremamente importante avere un quadro ragionevolmente realistico della situazione attuale e della situazione prevista nell'immediato futuro, per poter consigliare in modo ragionevole i responsabili politici sulla natura e la portata delle misure di sostegno. Finora i  pronosticatori di professione non sono ancora riusciti a farlo. E questo è uno dei motivi per cui la politica è sempre rimasta indietro, invece di fare con slancio un passo in avanti.

Le conseguenze politiche della sottovalutazione

Nel frattempo, il governo federale ha presentato un "pacchetto di stimolo per l'economia", la cui entità (130 miliardi di euro) viene generalmente considerata come significativa e sufficiente. C'è il rischio tuttavia che si ripeta il solito modello dei politici costretti a rincorrere gli eventi, dopo aver sottovalutato in una prima fase l'entità del crollo economico. La coalizione di governo ha adottato un gran numero di misure economiche, e non è affatto chiaro come e quando entreranno in vigore. L'unica misura di ampia portata sembra essere la riduzione di tre punti e per sei mesi dell'IVA .

Ma anche questa misura dal punto di vista quantitativo resta poco impressionante, almeno se si considera quanto sia ampia l'entità della riduzione della domanda da parte delle famiglie. Se il tasso medio di risparmio delle famiglie aumenta di un punto percentuale passando dall'11% al 12% (nel 1° trimestre 2020 il tasso è salito al 12,4% rispetto all'11,1% del 4° trimestre 2019), ci saranno circa 10 miliardi di euro in meno per semestre in termini di consumi (il reddito disponibile totale delle famiglie nel 2019 è stato di 2.400 miliardi di euro, vale a dire 1.200 miliardi di euro per semestre, un aumento del risparmio di un punto percentuale equivale a 12 miliardi di euro in più).

La perdita di reddito dovuta alla cassa integrazione e alla disoccupazione ammonterà a circa 5 miliardi di euro nel 2° trimestre 2020 (tenendo conto dell'indennità per la cassa integrazione). La retribuzione netta media per dipendente nel 2019 era pari a 24.951 euro. Supponendo che le persone colpite da misure di lavoro ad orario ridotto e dalla disoccupazione tendano a guadagnare di meno (solo 20.000 euro di salario netto all'anno) e che si lavori solo per il 50% del tempo (perdita di ore lavorative a causa della cassa integrazione), queste famiglie avranno perso circa 2.500 euro netti, senza calcolare l'indennità di cassa integrazione. Se circa il 70% delle perdite è compensato dall'indennità per il Kurzarbeit (60% per i dipendenti senza figli, 67% per i dipendenti con figli; piu' aumenti parziali tramite i contratti collettivi), rimane una perdita di reddito pro-capite di circa 750 euro netti nei tre mesi del 2° trimestre.

Con circa 6,5 milioni di persone colpite (numero di cassintegrati nel 2° trimestre + 0,5 milioni di disoccupati in più), si dovrebbe tradurre in una perdita di reddito nel 2° trimestre di quasi 5 miliardi di euro. Se con un certo ottimismo ipotizzassimo che le perdite di reddito dovute al lavoro a orario ridotto e alla disoccupazione nel terzo e nel quarto trimestre saranno la metà di quelle del secondo trimestre (in parte perché le misure di chiusura sono state revocate, in parte perché l'indennità per il lavoro a orario ridotto è stata aumentata all'80-87%), ci saranno in totale altri 5 miliardi di euro di perdite reddituali. Ciò si traduce quindi in circa 10 miliardi di euro in meno di reddito disponibile e altri 10 miliardi di euro dovuti ad ulteriore probabile risparmio.

Il governo stima che lo sgravio per le famiglie derivante dalla riduzione dell'IVA sarà di circa 20 miliardi di euro, se il taglio dell'IVA dovesse essere trasferito integralmente ai consumatori. Ciò significa che lo sgravio dovuto alla riduzione dell'IVA, nella migliore delle ipotesi (cioè in un quadro molto ottimistico), compenserebbe il calo dei consumi privati da noi stimato. E' prevedibile inoltre che l'effetto positivo di questa misura nell'ultimo semestre di quest'anno, possa portare invece, già nel primo semestre del 2021, ad una nuova incertezza dovuta ad un calo dei consumi (dopo gli effetti di traino per il 2020, e dovuti ad un ritorno dell'IVA alla vecchia aliquota a partire dal 2021).

Anche il calo della domanda da investimenti sta chiaramente avendo un impatto negativo sullo sviluppo dell'economia. È improbabile che ciò possa essere compensato dalle misure annunciate, dato che l'utilizzo della capacità aziendale è catastroficamente basso. Come già rilevato all'inizio, inoltre, la domanda proveniente dall'estero, molto importante per la Germania, sta crollando senza alcuna possibilità di un rilancio nell'immediato. Il calo dell'80 % del saldo della bilancia commerciale con l'estero ad aprile, rispetto allo stesso mese dell'anno scorso, non potrà essere attenuato in modo significativo nemmeno da un calo del turismo all'estero dei tedeschi: Il saldo di conto corrente nel mese di aprile, infatti, è diminuito di quasi due terzi rispetto all'anno precedente.

L'enorme surplus di domanda proveniente dall'estero, di cui i tedeschi da molti anni ormai hanno "bisogno" per smaltire la loro produzione - nel 2019 ha superato il 7 % del PIL - e per mantenere a galla il loro modello economico fondato sul dumping salariale, si manifesterà in misura estremamente negativa durante tutta la durata della crisi causata dal coronavirus. La distorsione strutturale verso l'export delle nostre attività produttive nel breve periodo non potrà essere corretta senza molte difficoltà. I lavoratori dei settori interessati, come ad esempio l'industria automobilistica, dovranno pagarne il prezzo con la perdita del loro posto di lavoro o i tagli salariali. L'indennità di cassa integrazione probabilmente è solo l'inizio.

E questo fenomeno ancora una volta é abbastanza simile alla precedente crisi finanziaria: per anni, il dumping salariale è stato utilizzato per costruire e promuovere una struttura insostenibile nel lungo periodo. Nel breve e medio periodo, infatti, i lavoratori dipendenti e i loro salari vengono privati della loro legittima quota di aumento in termini di produttività. I profitti derivanti dalle eccedenze nel commercio con l'estero vengono trattenuti dai datori di lavoro e distribuiti agli azionisti. Se questo modello dovesse crollare, lo Stato dovrebbe intervenire prima con l'indennità di Kurzarbeit, poi con l'indennità di disoccupazione e infine con la sicurezza sociale di base (Hartz IV). Questo non solo sarebbe iniquio, ma soprattutto avrebbe potuto essere evitato se il governo avesse affrontato in anticipo e senza pregiudizi gli aspetti negativi legati al ruolo di campione mondiale dell'avanzo commerciale con l'estero.

Nel complesso, il cosiddetto pacchetto di stimoli economici avrà molti effetti, ma la maggior parte di essi arriverà troppo tardi o comunque non sarà in grado di rilanciare l'economia. Effetti che sono attesi fra tre anni, oggi possono essere tranquillamente ignorati, se l'obiettivo è quello di stabilizzare le aspettative. Anche le misure di sgravio che impediscono possibili oneri aggiuntivi, non avranno alcun effetto positivo diretto sullo sviluppo economico.

Sarebbe stato molto piu' coraggioso se il governo, ad esempio, avesse deciso di abbassare permanentemente l'IVA, aumentare in modo significativo il salario minimo e portare le indennità Hartz IV a un livello doppio rispetto a oggi. Inoltre, dato il rischio di un drastico aumento della disoccupazione, che questa volta in realtà non è dovuto ad un "comportamento errato" da parte dei lavoratori, il sostegno alle indennità di disoccupazione avrebbe dovuto essere regolato in modo molto più generoso aumentando le indennità e prolungando il periodo delle prestazioni.


giovedì 11 giugno 2020

DW - La Germania può difendere i propri interessi strategici?

E' la domanda che si pone la Deutsche Welle, testata online pubblica e da sempre molto vicina alle posizioni del governo di Berlino, dopo gli ultimi scontri fra tedeschi ed americani. A Berlino si augurano apertamente una sconfitta di Trump alle elezioni di novembre, e stanno facendo di tutto per agevolarla, consapevoli che se l'attuale presidente dovesse essere confermato, il livello dello scontro salirebbe ancora e Berlino non potrebbe perseguire i propri interessi strategici. Dalla Deutche Welle, emittente radio-televisiva e testata online pubblica.


La Germania può avere dei propri interessi e perseguirli? La risposta di Washington sembra essere chiara: solo con la benedizione del governo americano! Minaccia sanzioni per le aziende europee che partecipano alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2, già completato al 96 %. Ricordiamo che il gasdotto servirà a trasportare sul fondo del Mar Baltico il gas naturale dalla Russia alla Germania, e da lì verso altri paesi dell'UE, bypassando tutti gli altri stati.

La Germania vive di esportazioni. La sua industria ha bisogno di sicurezza energetica. Per questo motivo l'industria e il governo federale sostengono la realizzazione del gasdotto. Ma Washington sta anche cercando di convogliare nella sua politica tutte quelle riserve che su questo progetto arrivano dagli altri paesi - soprattutto quelle provenienti dalla Polonia e dall'Ucraina.

Un ambasciatore come un agitatore

Ma niente di tutto ciò sembra aver convinto la Casa Bianca. Il Presidente Trump è determinato a fermare questo gasdotto con ogni mezzo possibile. Uno dei suoi agitatori è Richard Grenell, l'ex ambasciatore americano a Berlino. Nel frattempo, il diplomatico poco diplomatico ha dato un contributo significativo alle relazioni bilaterali: si è dimesso il 1° giugno lasciando la Germania.

Un altro forte agitatore contrario all'oleodotto è Ted Cruz, il senatore repubblicano di estrema destra del Texas. Un uomo che alcuni dei suoi compagni di partito definiscono "l'incarnazione del diavolo". Altri dicono: se Cruz dovesse sentirsi male al Congresso, nessuno chiamerebbe il pronto soccorso. Ted Cruz da anni viene sponsorizzato dall'industria  americana del fracking... che vorrebbe vendere il suo gas in Europa. Il loro problema: il gas americano, che tecnicamente può essere prodotto solo con grandi costi, è più caro di quello russo. Washington - chi l'avrebbe mai pensato dell'ex sostenitore dell'economia di libero mercato? - preferisce sottrarsi alla concorrenza. E' molto più facile sventolare il bastone delle sanzioni. Una politica che Trump chiama "America first". Così facendo, però, rischia di danneggiare i rapporti con uno dei suoi alleati più fedeli.


Sebbene elogi pubblicamente la Cancelliera Merkel, sia i media che i rappresentanti del governo invece continuano a ripetere che i loro colloqui sono molto duri. La Cancelliera probabilmente è di tutt'altro calibro rispetto a un capo di governo montenegrino che il Presidente degli Stati Uniti semplicemente spinge da parte quando si mette in mezzo o disturba. Con Merkel questo non è possibile. Lei non si fa intimidire. Il che sembra infastidire molto Trump.

Ritiro di quasi un terzo dei soldati americani

E ora vorrebbe punirla per la sua insubordinazione e ritirare quasi 10.000 soldati americani dalla Germania entro l'anno. La maggior parte dei tedeschi non sembra neanche esserne particolarmente colpita, almeno fino a quando il paese non sarà esposto a una minaccia militare esterna. Dopo tutto, da anni il rumore e l'inquinamento ambientale causato dalle truppe americane sono oggetto di forti critiche. Solo i sindaci e i dirigenti delle imprese presenti nelle città che ospitano le basi americane temono realmente un ritiro delle truppe. Ma soprattutto: gli americani sono presenti in Germania perché è nel loro interesse (da qui vengono controllate tutte le missioni in Iraq e in Afghanistan), ed è anche nell'interesse della NATO. Se Trump ora dovesse ritirare un contingente ancora più grande, farebbe soprattutto del male a se stesso e allontanerebbe ulteriormente gli Stati Uniti dall'Europa.

Il terzo che gode invece sarà la Cina. Ogni conflitto all'interno dell'Occidente rafforza la posizione di Pechino nei confronti di Washington. Per il modo in cui gli americani si stanno comportando, difficilmente potranno contare sull'aiuto dell'UE nella disputa commerciale con la Cina. Al contrario. Berlino a luglio assumerà la presidenza del Consiglio UE. La cancelliera Merkel continua ad attenersi al piano di voler tenere un incontro di tutti i capi di Stato e di governo dell'UE con il presidente Xi Jinping - anche se la data originaria di metà settembre nel frattempo è stata annullata a causa della pandemia di Coronavirus. Tenere un tale incontro immediatamente prima delle elezioni presidenziali americane, sarebbe stata ovviamente una provocazione diplomatica. Trump non sarebbe stato invitato. E come osservatore avrebbe solo potuto twittare.

Sperando per il 3 novembre

Se la sua amministrazione a novembre dovesse essere bocciata dagli elettori, le relazioni tra gli Stati Uniti e la Germania tornerebbero rapidamente alla normalità. Lo sfidante democratico Joe Biden semplicemente capisce che anche la Germania ha i suoi interessi, e che può perseguirli.



lunedì 8 giugno 2020

FAZ - L'Italia ha bisogno di un taglio del debito?

Ristrutturare o non ristrutturare il debito italiano? Friedrich Heinemann dello Zew di Mannheim, dichiara alla FAZ: "quando nel 2022 la fase acuta della crisi sarà terminata, avremo bisogno di una conferenza internazionale sul debito pubblico italiano. E naturalmente, i detentori dei titoli dovranno fare la loro parte e rinunciare in parte ai loro crediti". Anche Hans Werner Sinn è d'accordo nel far pagare il conto della crisi ai detentori dei titoli di stato italiani. Lars Feld, il consigliere del governo tedesco, invece è molto piu' cauto e tende ad escludere un taglio del debito pubblico italiano. Dalla FAZ e dalla Germania arriva l'ennesimo pistolotto sulla ristrutturazione del debito italiano.




(...) La situazione di partenza quindi è piuttosto tetra. La questione ora è la seguente: per risolvere i suoi problemi l'Italia ha davvero bisogno di un taglio del debito?. Ad ogni modo, un passo del genere non deve più essere considerato un tabù, raccomanda Hans-Werner Sinn, ex presidente dell'istituto Ifo di Monaco di Baviera. "Per quanto io sia favorevole ad un generoso aiuto finanziario nei confronti dell'Italia: è inaccettabile che i creditori italiani e stranieri vengano costantemente salvati dai contribuenti europei invece di partecipare essi stessi alle perdite", dice l'economista. Sinn fa riferimento al "Club di Parigi", un circolo informale per la negoziazione internazionale nell'ambito del quale solitamente vengono regolamentate tali cancellazioni del debito. "Ci sono regole collaudate per una ristrutturazione ordinata del debito". Dalla seconda guerra mondiale in poi, sostiene Sinn, ci sono state circa 180 ristrutturazioni di debiti pubblici. "E il mondo non è ancora finito". Anche nell'eurozona, un parziale taglio del debito per l'Italia, non sarebbe affatto una novità. Nel caso della Grecia, infatti, un taglio del debito è già stato effettuato durante la crisi dell'euro del 2012, ed è stato uno dei piu' grandi nella storia della finanza. A questi poi si sono aggiunti i controlli sui movimenti di capitale. "Temo che prima o poi dovremo farne uso anche nel caso dell'Italia, perché i pacchetti di salvataggio non dureranno a lungo", dice Sinn.

E questa è l'opinione anche di Friedrich Heinemann, esperto di finanze pubbliche dell'istituto di ricerca economica ZEW di Mannheim, il quale prevede: "il Fondo per la ricostruzione, alla fine non sarà in grado di risolvere i drammatici problemi finanziari italiani". Il denaro da mobilitare per gli aiuti è enorme - ma non sarà mai abbastanza per l'Italia. Molto più importante per l'Italia, dice, è che la Banca Centrale Europea (BCE) continui a sottoscrivere diligentemente i nuovi titoli di stato che il ministro delle Finanze a Roma contina ad emettere sui mercati. Ma in ultima analisi, saranno i contribuenti europei ad essere responsabili per i crescenti rischi che gravano sul bilancio della BCE.

Come Hans-Werner Sinn, Heinemann ritiene che non ci sia modo di evitare un taglio del debito pubblico italiano. "Il debito è troppo alto, il Paese non può uscirne", dice l'economista dello ZEW. "Quando nel 2022 la crisi acuta sarà terminata, avremo bisogno di una conferenza internazionale sul debito pubblico italiano. E, naturalmente, i detentori di titoli dovranno fare la loro parte e rinunciare a una parte dei loro crediti". Heinemann vuole far pagare il conto anche ai creditori.

Ma ci sono altri esperti che vedono le cose in maniera diversa. "L'Italia non ha bisogno di un taglio del debito", dice Lars Feld. L'economista di Friburgo presiede il Consiglio dei saggi economici, il cui compito è quello di consigliare il governo federale. In Grecia la riduzione del debito all'epoca si era resa inevitabile, ma questo confronto è fuorviante, spiega Feld: "L'Italia ha una consistenza economica completamente diversa. Se il governo italiano affrontasse finalmente con determinazione le riforme necessarie, si potrebbero liberare notevoli forze in termini di crescita economica". Egli conta sul fatto che il paese possa uscire dalla attuale situazione di indebitamento, in quanto la crescita economica sarebbe capace di generare maggiori entrate fiscali.

Un taglio del debito, d'altra parte, probabilmente farebbe piu' male che bene, sottolinea Feld: "Una volta estinti i debiti, diminuirebbe anche la pressione per affrontare le riforme necessarie alla crescita. E questo è l'esatto opposto di ciò di cui l'Italia ha bisogno". La Grecia ne è l'esempio ammonitore: il taglio del debito di otto anni fa ha ridotto solo temporaneamente il rapporto debito/PIL del paese. In assenza di una crescita economica, è tornato ad aumentare molto rapidamente - e ora è addirittura piu' elevato rispetto a prima della cancellazione del debito.

Nel caso dell'Italia, anche Feld considera troppo rischioso un taglio del debito. Il problema principale è che i maggiori creditori dello Stato italiano restano di gran lunga le banche italiane, che nei loro bilanci hanno delle quantità enormi di titoli di stato e crediti verso le istituzioni statali. A metà dello scorso anno le banche italiane erano creditrici nei confronti dello stato italiano per un totale di 690 miliardi di euro. Se questi titoli dovessero essere cancellati nell'ambito di una ristrutturazione del debito pubblico, molte banche finirebbero per trovarsi in difficoltà.

"Avremmo immediatamente una crisi bancaria in Italia, che si estenderebbe ad altri paesi europei a causa degli stretti legami creatisi", dice Feld. Le banche francesi, in particolare, hanno dei crediti elevati nei confronti dell'Italia e subirebbero quindi delle perdite massicce. Ma non si tratta solo delle banche. Anche le assicurazioni, i fondi di investimento e altri importanti investitori sono anch'essi creditori dello Stato italiano e sarebbero quindi colpiti da una ristrutturazione del debito.

Ancora una volta, quello della Grecia è stato un esempio ammonitore: la ristrutturazione del debito del Paese nella primavera del 2012 ha portato il panico sui mercati, in una fase già molto critica. "Guardando indietro, va detto che il taglio ha accelerato l'incendio dell'eurocrisi", lo ammette anche Heinemann dello ZEW, sostenitore di un taglio del debito. Per questo motivo non convocherebbe immediatamente quella "conferenza internazionale sul debito italiano" da lui raccomandata, ma lo farebbe solo nell'anno successivo - e anche in quel caso farebbe gravare sui creditori detentori delle obbligazioni solo una parte dell'onere della ristrutturazione. "Ora, nel bel mezzo della crisi economica, non lo si può fare. I mercati sono troppo fragili per una scelta del genere".

Hans-Werner Sinn non nega il rischio di una crisi finanziaria associata a un taglio del debito, ma ritiene che questo rischio sia il minore fra i due mali. La Francia è abbastanza forte per sostenere le sue banche in caso di emergenza, dice. In definitiva, si tratta di soppesare i rischi - e i politici mancano di lungimiranza in questo senso: "Hanno sempre paura dei rischi di breve termine per i mercati finanziari e in cambio accettano rischi che nel lungo termine sono molto piu' minacciosi", critica il Sinn. "Il salvataggio dei creditori tramite una messa in comune del debito erode gli stati e crea il pericolo di un'enorme guerra debitoria in Europa, che potrebbe far crollare l'UE".

Una cosa però deve essere chiara: anche se non ci fosse una nuova crisi finanziaria in Europa, un taglio del debito pubblico italiano probabilmente non sarebbe comunque gratuito per i contribuenti tedeschi. Perché negli ultimi anni la BCE ha acquistato montagne di titoli di stato italiani, e anche la banca centrale sarebbe inevitabilmente colpita da un taglio del debito. La Germania dovrebbe farsi carico di una parte di queste perdite. "La Bundesbank dovrebbe poi essere ricapitalizzata dallo Stato tedesco", dice Sinn. In casi estremi, questo potrebbe costare fino a 150 miliardi di euro.

Qual è la conclusione? Gli argomenti di entrambe le parti possono essere riassunti approssimativamente così: un taglio del debito per un grande paese come l'Italia sarebbe una ripartenza radicale, dopo dieci anni in cui i contribuenti hanno sostenuto direttamente o indirettamente dei costi molto elevati per i salvataggi nella zona euro. Ma i rischi di questo cambiamento di rotta sarebbero notevoli. E se la riduzione del debito possa essere davvero d'aiuto per l'Italia e gli altri Stati dell'euro, nel lungo periodo non è affatto certo. "Non c'è una via d'uscita facile", dice Hans-Werner Sinn. "Ci siamo davvero impantanati".