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lunedì 8 giugno 2020

FAZ - L'Italia ha bisogno di un taglio del debito?

Ristrutturare o non ristrutturare il debito italiano? Friedrich Heinemann dello Zew di Mannheim, dichiara alla FAZ: "quando nel 2022 la fase acuta della crisi sarà terminata, avremo bisogno di una conferenza internazionale sul debito pubblico italiano. E naturalmente, i detentori dei titoli dovranno fare la loro parte e rinunciare in parte ai loro crediti". Anche Hans Werner Sinn è d'accordo nel far pagare il conto della crisi ai detentori dei titoli di stato italiani. Lars Feld, il consigliere del governo tedesco, invece è molto piu' cauto e tende ad escludere un taglio del debito pubblico italiano. Dalla FAZ e dalla Germania arriva l'ennesimo pistolotto sulla ristrutturazione del debito italiano.




(...) La situazione di partenza quindi è piuttosto tetra. La questione ora è la seguente: per risolvere i suoi problemi l'Italia ha davvero bisogno di un taglio del debito?. Ad ogni modo, un passo del genere non deve più essere considerato un tabù, raccomanda Hans-Werner Sinn, ex presidente dell'istituto Ifo di Monaco di Baviera. "Per quanto io sia favorevole ad un generoso aiuto finanziario nei confronti dell'Italia: è inaccettabile che i creditori italiani e stranieri vengano costantemente salvati dai contribuenti europei invece di partecipare essi stessi alle perdite", dice l'economista. Sinn fa riferimento al "Club di Parigi", un circolo informale per la negoziazione internazionale nell'ambito del quale solitamente vengono regolamentate tali cancellazioni del debito. "Ci sono regole collaudate per una ristrutturazione ordinata del debito". Dalla seconda guerra mondiale in poi, sostiene Sinn, ci sono state circa 180 ristrutturazioni di debiti pubblici. "E il mondo non è ancora finito". Anche nell'eurozona, un parziale taglio del debito per l'Italia, non sarebbe affatto una novità. Nel caso della Grecia, infatti, un taglio del debito è già stato effettuato durante la crisi dell'euro del 2012, ed è stato uno dei piu' grandi nella storia della finanza. A questi poi si sono aggiunti i controlli sui movimenti di capitale. "Temo che prima o poi dovremo farne uso anche nel caso dell'Italia, perché i pacchetti di salvataggio non dureranno a lungo", dice Sinn.

E questa è l'opinione anche di Friedrich Heinemann, esperto di finanze pubbliche dell'istituto di ricerca economica ZEW di Mannheim, il quale prevede: "il Fondo per la ricostruzione, alla fine non sarà in grado di risolvere i drammatici problemi finanziari italiani". Il denaro da mobilitare per gli aiuti è enorme - ma non sarà mai abbastanza per l'Italia. Molto più importante per l'Italia, dice, è che la Banca Centrale Europea (BCE) continui a sottoscrivere diligentemente i nuovi titoli di stato che il ministro delle Finanze a Roma contina ad emettere sui mercati. Ma in ultima analisi, saranno i contribuenti europei ad essere responsabili per i crescenti rischi che gravano sul bilancio della BCE.

Come Hans-Werner Sinn, Heinemann ritiene che non ci sia modo di evitare un taglio del debito pubblico italiano. "Il debito è troppo alto, il Paese non può uscirne", dice l'economista dello ZEW. "Quando nel 2022 la crisi acuta sarà terminata, avremo bisogno di una conferenza internazionale sul debito pubblico italiano. E, naturalmente, i detentori di titoli dovranno fare la loro parte e rinunciare a una parte dei loro crediti". Heinemann vuole far pagare il conto anche ai creditori.

Ma ci sono altri esperti che vedono le cose in maniera diversa. "L'Italia non ha bisogno di un taglio del debito", dice Lars Feld. L'economista di Friburgo presiede il Consiglio dei saggi economici, il cui compito è quello di consigliare il governo federale. In Grecia la riduzione del debito all'epoca si era resa inevitabile, ma questo confronto è fuorviante, spiega Feld: "L'Italia ha una consistenza economica completamente diversa. Se il governo italiano affrontasse finalmente con determinazione le riforme necessarie, si potrebbero liberare notevoli forze in termini di crescita economica". Egli conta sul fatto che il paese possa uscire dalla attuale situazione di indebitamento, in quanto la crescita economica sarebbe capace di generare maggiori entrate fiscali.

Un taglio del debito, d'altra parte, probabilmente farebbe piu' male che bene, sottolinea Feld: "Una volta estinti i debiti, diminuirebbe anche la pressione per affrontare le riforme necessarie alla crescita. E questo è l'esatto opposto di ciò di cui l'Italia ha bisogno". La Grecia ne è l'esempio ammonitore: il taglio del debito di otto anni fa ha ridotto solo temporaneamente il rapporto debito/PIL del paese. In assenza di una crescita economica, è tornato ad aumentare molto rapidamente - e ora è addirittura piu' elevato rispetto a prima della cancellazione del debito.

Nel caso dell'Italia, anche Feld considera troppo rischioso un taglio del debito. Il problema principale è che i maggiori creditori dello Stato italiano restano di gran lunga le banche italiane, che nei loro bilanci hanno delle quantità enormi di titoli di stato e crediti verso le istituzioni statali. A metà dello scorso anno le banche italiane erano creditrici nei confronti dello stato italiano per un totale di 690 miliardi di euro. Se questi titoli dovessero essere cancellati nell'ambito di una ristrutturazione del debito pubblico, molte banche finirebbero per trovarsi in difficoltà.

"Avremmo immediatamente una crisi bancaria in Italia, che si estenderebbe ad altri paesi europei a causa degli stretti legami creatisi", dice Feld. Le banche francesi, in particolare, hanno dei crediti elevati nei confronti dell'Italia e subirebbero quindi delle perdite massicce. Ma non si tratta solo delle banche. Anche le assicurazioni, i fondi di investimento e altri importanti investitori sono anch'essi creditori dello Stato italiano e sarebbero quindi colpiti da una ristrutturazione del debito.

Ancora una volta, quello della Grecia è stato un esempio ammonitore: la ristrutturazione del debito del Paese nella primavera del 2012 ha portato il panico sui mercati, in una fase già molto critica. "Guardando indietro, va detto che il taglio ha accelerato l'incendio dell'eurocrisi", lo ammette anche Heinemann dello ZEW, sostenitore di un taglio del debito. Per questo motivo non convocherebbe immediatamente quella "conferenza internazionale sul debito italiano" da lui raccomandata, ma lo farebbe solo nell'anno successivo - e anche in quel caso farebbe gravare sui creditori detentori delle obbligazioni solo una parte dell'onere della ristrutturazione. "Ora, nel bel mezzo della crisi economica, non lo si può fare. I mercati sono troppo fragili per una scelta del genere".

Hans-Werner Sinn non nega il rischio di una crisi finanziaria associata a un taglio del debito, ma ritiene che questo rischio sia il minore fra i due mali. La Francia è abbastanza forte per sostenere le sue banche in caso di emergenza, dice. In definitiva, si tratta di soppesare i rischi - e i politici mancano di lungimiranza in questo senso: "Hanno sempre paura dei rischi di breve termine per i mercati finanziari e in cambio accettano rischi che nel lungo termine sono molto piu' minacciosi", critica il Sinn. "Il salvataggio dei creditori tramite una messa in comune del debito erode gli stati e crea il pericolo di un'enorme guerra debitoria in Europa, che potrebbe far crollare l'UE".

Una cosa però deve essere chiara: anche se non ci fosse una nuova crisi finanziaria in Europa, un taglio del debito pubblico italiano probabilmente non sarebbe comunque gratuito per i contribuenti tedeschi. Perché negli ultimi anni la BCE ha acquistato montagne di titoli di stato italiani, e anche la banca centrale sarebbe inevitabilmente colpita da un taglio del debito. La Germania dovrebbe farsi carico di una parte di queste perdite. "La Bundesbank dovrebbe poi essere ricapitalizzata dallo Stato tedesco", dice Sinn. In casi estremi, questo potrebbe costare fino a 150 miliardi di euro.

Qual è la conclusione? Gli argomenti di entrambe le parti possono essere riassunti approssimativamente così: un taglio del debito per un grande paese come l'Italia sarebbe una ripartenza radicale, dopo dieci anni in cui i contribuenti hanno sostenuto direttamente o indirettamente dei costi molto elevati per i salvataggi nella zona euro. Ma i rischi di questo cambiamento di rotta sarebbero notevoli. E se la riduzione del debito possa essere davvero d'aiuto per l'Italia e gli altri Stati dell'euro, nel lungo periodo non è affatto certo. "Non c'è una via d'uscita facile", dice Hans-Werner Sinn. "Ci siamo davvero impantanati".


lunedì 17 settembre 2018

Die Welt: il destino dell'Europa nelle mani del governo italiano

Die Welt affida al prof. Friedrich Heinemann un commento decisamente critico sulla situazione italiana. Per il professore di economia di Heidelberg il destino del patto di stabilità e soprattutto la credibilità delle istituzioni europee è nelle mani del governo italiano. Se la Commissione dovesse cedere, allora i "populisti" dilagherebbero in tutta Europa. I primi della Klasse salgono in cattedra. Da Die Welt


Negli ultimi giorni un sospiro di sollievo collettivo ha attraversato l'Europa. Il motivo sono state le dichiarazioni dei rappresentati del governo italiano secondo le quali l'Italia intende rispettare il limite del tre per cento previsto dal Patto di stabilità. In precedenza i ministri del governo avevano ripetutamente fatto sapere che il paese, con un rapporto debito/pil di oltre il 130%, in futuro avrebbe ignorato le norme sul debito. Ciò che viene trascurato, tuttavia, è il fatto che il patto di stabilità è molto più di un semplice limite del 3%. Per buone ragioni questo limite nel patto di stabilità riformato ha perso gran parte della sua importanza.

Oggi ci sono altri due "guardrail" progettati per garantire che i paesi altamente indebitati riducano il loro debito e che per farlo utilizzino gli anni buoni del ciclo economico. Il primo requisito importante è il livello di indebitamento, che dal Trattato di Maastricht in poi per i paesi della zona euro dovrebbe essere inferiore al 60% del PIL. Su questo punto il patto prescrive che i paesi con un debito più elevato debbano ridurre la distanza da questo limite di un ventesimo ogni anno.

L'Italia ormai da molti anni, in maniera alquanto sfacciata, non rispetta questo criterio. Il secondo limite riguarda il disavanzo corretto per gli effetti del ciclo economico (il "deficit strutturale"), che per l'Italia dovrebbe essere pari a zero. Anche qui, con un deficit strutturale di poco inferiore al due per cento, il paese resta attualmente ben al di sopra del valore consentito. In caso di tali infrazioni, il patto prevede l'obbligo di ridurre ogni anno il deficit di circa mezzo punto percentuale fino al raggiungimento dell'obiettivo.

In parole povere tutto ciò significa: il patto impone all'Italia di ridurre l'attuale deficit in passi misurabili fino al raggiungimento dello zero per cento nello spazio di qualche anno. Ciò è ancora piu' valido in quanto il paese si trova di nuovo in una situazione economica normale. In anni in cui la congiuntura economica è normale o addirittura buona, a ragione il patto richiede delle forti misure di austerità. Questo è l'unico modo per avere margini di deficit più alti nelle fasi di rallentamento economico.

La strategia di Salvini è politicamente intelligente

Anche prima della formazione del nuovo governo, la Commissione europea aveva richiamato l'attenzione sul fatto che l'Italia potrebbe mancare gli obiettivi previsti dal patto per il 2019. Questo avvertimento era evidentemente legato alla politica di bilancio del precedente governo. Anche se il nuovo governo intendesse implementare solo una piccola parte delle sue nuove idee in merito all'aumento della spesa e alla riduzione delle tasse, la situazione si aggraverebbe ulteriormente.

Nell'interpretazione delle regole bisognerebbe prendere in considerazione anche il fatto che il governo di Giuseppe Conte ha già ritirato alcune riforme del mercato del lavoro e che intende abolire le riforme pensionistiche introdotte dai suoi predecessori. Sono state proprio queste riforme a fornire alla Commissione argomenti per concedere al paese "circostanze attenuanti".

È in linea con la logica simmetrica del patto secondo la quale i limiti di deficit devono essere applicati in maniera più stringente se le riforme vengono ritirate. Puoi trasformare il patto oppure girarlo a tuo piacimento, ma un deficit piu' alto, inferiore solo di alcuni decimali rispetto al limite del 3%, non è in alcun modo conforme alle regole. Un deficit massimo dell'1,5% nel 2019 potrebbe essere accettabile, ma solo con un po' di buona volontà. E comunque il bilancio dovrà muoversi con una certa rapidità verso l'obiettivo del pareggio fra entrate e uscite.

Che i ministri italiani come Matteo Salvini preferiscano concentrarsi sul limite del tre per cento e non ne vogliano sapere di osservare standard più rigidi, è politicamente intelligente. E' un argomento che sposta il punto di riferimento. Prima il governo minaccia di superare il limite del tre per cento, subito dopo però rivende un deficit del 2,9 % come un "successo" e un "rispetto delle regole". È inoltre in linea con l'esperienza fatta in molti anni con il patto di stabilità, e cioè: gli Stati  della zona euro fanno una scelta selettiva. Nella comunicazione  infatti, spesso viene utilizzato il limite più facile da raggiungere. Piuttosto è sorprendente che i media e la politica siano acritici nei confronti di questa strategia che invece sta passando nel silenzio generale.

Si tratta del futuro del patto di stabilità

Il guardiano del patto di stabilità e crescita è la Commissione europea. E' necessario un rapido chiarimento sul tema. Jean-Claude Juncker e il commissario per gli affari monetari Pierre Moscovici devono mettere in  chiaro che l'Italia senza una ulteriore riduzione del deficit violerebbe il Patto. Non sappiamo tuttavia se la Commissione alla fine dell'era Juncker avrà questo coraggio.

A Bruxelles il timore è quello di un importante successo elettorale dei gruppi populisti alle elezioni europee del maggio 2019. Un argomento comune è che una procedura di infrazione sul deficit nei confronti dell'Italia potrebbe regalare ancora più voti a Lega e Cinque stelle. Un handicap del patto è ora molto chiaro: l'ufficio di controllo in seno alla commissione ha un'autorità politica che non ha la neutralità sufficiente per l'applicazione pertinente delle regole del gioco.

L'attuale disputa sul bilancio con l'Italia riguarda quindi il futuro del patto di stabilità. È sicuramente complesso, tuttavia offre un insieme ben equilibrato di regole con una certa flessibilità e un senso per la politiche economiche congiunturali. Se la Commissione dovesse cedere, allora la credibilità del patto riformato sarebbe irreparabilmente danneggiata. E il calcolo di voler contenere in questo modo i populisti non sarebbe affatto convincente. Se la Commissione dovesse piegarsi, dimostrerebbe che i in Europa i governi possono far valere la propria volontà con strategie di confronto populiste. Difficilmente si potrebbe immaginare una pubblicità migliore per la campagna elettorale dei populisti alle europee.

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