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sabato 4 maggio 2019

Primi colpi di avvertimento da Parigi

E' normale che un paese indebitato, con un enorme disavanzo commerciale e una demografia scoppiettante possa avere interessi diversi da quelli di un paese creditore, con un gigantesco surplus commerciale e una demografia asfittica. Checché ne scrivano i soloni prezzolati di casa nostra, il cosiddetto asse franco-tedesco perde colpi e in Europa si aprono scenari fino a poco tempo fa impensabili. German Foreign Policy prova a mettere in fila i colpi di avvertimento sparati da Parigi.


L'offerta di Macron

Il presidente francese Emmanuel Macron sin dall'inizio del suo mandato si è dato da fare per ottenere da Berlino, in cambio della politica di "austerità à l'allemande" applicata a livello nazionale, delle concessioni in materia di politica europea. Le sue proposte erano state illustrate in maniera esemplare durante il famoso discorso alla Sorbona del settembre 2017. A rivestire un ruolo centrale c'era la richiesta di una riforma dell'eurozona, che Macron avrebbe voluto dotare di un ministro delle finanze e di un proprio bilancio; ciò avrebbe dovuto creare le condizioni per ridurre le disuguaglianze all'interno dell'area valutaria e stabilizzare in maniera tempestiva e duratura i paesi in crisi. Il presidente francese chiedeva inoltre il rapido sviluppo di una forza di intervento, con una particolare attenzione alle operazioni militari nell'area africana di grande interesse per le élite francesi. Per riuscire ad attutire l'impatto delle critiche provenienti dal popolo francese e causate dei tagli, erano indispensabili, non da ultimo, dei notevoli successi in materia di politica estera e militare.

Con le spalle al muro

Appena due anni dopo la sua elezione Macron si è accorto di essere rimasto a mani vuote. Berlino non solo ha bloccato i suoi piani di riforma dell'eurozona, perché contrari al rigido modello dell'austerità tedesca [1]; ha anche iniziato a rallentare i piani del presidente francese per una militarizzazione dell'UE ("Iniziativa d'intervento europeo") e al suo posto ha iniziato a spingere il ​​suo progetto "PESCO" [2]. "PESCO" è un progetto militare di lungo termine e non corrisponde al desiderio francese di avere a disposizione una forza a dispiegamento rapido. Berlino inoltre insiste per una "europeizzazione" del seggio francese al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e delle armi nucleari francesi [3], spingendo in questo modo il governo francese sempre di piu' sulla difensiva. Anche in patria Macron è con le spalle al muro. Le proteste dei "gilets jaunes" vanno avanti da mesi; il tentativo di levare il vento dalle vele della protesta con un dibattito controllato dallo Stato ("grand débat") non sta portando frutti: secondo gli ultimi sondaggi circa il 75 % della popolazione ritiene che il progetto non sia in grado di risolvere la crisi [4]. Già all'inizio dell'anno la percentuale di francesi insoddisfatti dall'amministrazione Macron era salita a tre quarti della popolazione [5]. 

Colpi di avvertimento

E' in questa situazione che Macron ha iniziato la sua manovra difensiva nei confronti dell'egemonia tedesca nell'UE: nonostante la sua politica di "austerità à l'allemande" e la sua lealtà, infatti, Berlino non ha voluto accordargli nemmeno delle piccole concessioni utili a facilitare il suo consolidamento interno. Un primo sorprendente colpo di avvertimento in direzione Germania è arrivato a febbraio con il ritiro dell'appoggio francese al gasdotto Nord Stream 2; il governo federale solo esercitando una grande pressione in seguito è poi riuscito a mantenere aperta una possibile soluzione per il progetto [6]. Un altro affronto, sebbene simbolico, è stata la disdetta da parte di Macron di un'uscita dimostrativa congiunta con la cancelliera Angela Merkel durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco - motivando la scelta con la necessità di dedicarsi urgentemente al desolato stato interno della Francia. A metà aprile Parigi ha anche votato contro l'apertura di negoziati formali per un accordo commerciale con gli Stati Uniti. I negoziati, infatti, sono di particolare interesse per Berlino: Washington, soprattutto a causa dell'eccedenza commerciale tedesca, minaccia di applicare tariffe punitive e dazi sulle auto che colpirebbero duramente l'industria tedesca. Questa volta il voto contrario della Francia, a causa del voto a maggioranza, non ha avuto alcun effetto, ma è stato comunque un segnale molto chiaro.

Le eccedenze commerciali tedesche

La settimana scorsa Macron, durante una conferenza stampa, ha annunciato ulteriori "scontri" con la Repubblica federale, promettendo anche nuovi sforzi per riformare l'Eurozona. [7] Come constatava anche una relazione recente dell'Institut de Relations Internationales et stratégiques (IRIS) di Pargi, si tratta di elementi di importanza fondamentale: la fissazione tedesca sull'export fondata su dei surplus commerciali enormi, viene realizzata "a spese dei paesi partner" e nel lungo periodo non è sostenibile. Nel frattempo, il ministro francese dell'Economia e delle finanze, Bruno Le Maire, a Berlino ha iniziato ad insistere per ottenere dalla parte tedesca un ripensamento in merito alla sua fissazione unilaterale sull'export. Parigi nei prossimi mesi affronterà di nuovo e "in maniera piu' o meno esplicita" la questione del "considerevole surplus commerciale tedesco", si dice all'IRIS: alla fine, questo grava piu' "sui partner europei della Germania" che non sugli Stati Uniti, il cui presidente è riuscito ad imporre nell'agenda internazionale il tema dell'eccesso di export tedesco [8]. Anche nell'UE, la Francia è lungi dall'essere la sola a criticarlo.

"Completamente normale"

Prima della riunione fra Macron e Merkel tenutasi a margine del vertice sui Balcani occidentali di Berlino, il governo federale ha cercato di minimizzare il conflitto. Ci sono solo dei "disaccordi occasionali" tra i due paesi, ha riferito un portavoce del governo; ciò tuttavia sarebbe "normale e necessario". Fino ad ora si è sempre riusciti a trovare una "soluzione" alle controversie. [9] Nella realtà dei fatti però la "soluzione" è sempre stata quella che favoriva gli interessi della Germania. Uno degli esempi più recenti è stato quello della tassa sul digitale che la Francia avrebbe dovuto introdurre a livello nazionale a marzo - ma che Berlino aveva ostinatamente bloccato a livello europeo [10].

Non c'è piu' una minoranza di blocco

I predecessori di Macron, Nicolas Sarkozy e François Hollande, avevano già fallito nel tentativo di limitare gli avanzi commerciali tedeschi e di ottenere una corrispondente riforma della zona euro. Nei loro confronti Macron tuttavia ha un vantaggio significativo: dopo l'uscita della Gran Bretagna dall'UE non ci sarà piu' una minoranza di blocco contro quei paesi che rifiutano i diktat tedeschi in materia di politica dell'austerità. "La Brexit", era scritto recentemente in un commento, "regala ai paesi mediterranei la maggioranza dei voti". [11] Ciò dà agli stati dell'unione economicamente più deboli la speranza di potersi liberare dalla morsa della spietata austerità imposta da Berlino. Di conseguenza Macron ora appoggia una Brexit rapida - e in questo modo ancora una volta finisce per entrare in rotta di collisione con Berlino.
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[1] S. dazu Der Lohn des Chauvinismus und Hegemonie nach deutscher Art.
[2] S. dazu Die Koalition der Kriegswilligen (II).
[3] S. dazu Die nukleare Frage.
[4] Opposés à Macron, les français soutiennent les #giletsjaunes #acte24 #sondage. agoravox.fr 27.04.2019.
[5] Dreiviertel der Franzosen unzufrieden mit Präsident Macron. handelsblatt.com 04.01.2019.
[6] S. dazu Weltpolitik unter Druck.
[7] Catherine Chagitnoux: Macron assume ses désaccords avec l'Allemagne. lesechos.fr 25.04.2019.
[8] Rémi Bourgeot: Le "modèle allemand": de totem à tabou. iris-france.org 26.04.2019.
[9] Macron sucht "fruchtbare Konfrontationen" mit Berlin. Frankfurter Allgemeine Zeitung 27.04.2019.
[10] S. dazu Streit um die Digitalsteuer.
[11] S. dazu Zuckerbrot und Peitsche und Deutsche Hybris.

mercoledì 1 maggio 2019

Berlino isolata dopo la fine del matrimonio franco-tedesco

"Il discorso del presidente Macron del 25 aprile, non solo segna la fine del rapporto speciale fra Francia e Germania. Ma le conseguenze di questa rottura dell'asse europeo vanno ampiamente al di là dell'UE", scrive Uwe Schramm, un importante diplomatico tedesco, su Tichys Einblick. Mentre i pennivendoli di casa nostra ci spiegano che l'Italia in Europa sarebbe isolata ed esclusa dai tavoli che contano, scopriamo che da Parigi arrivano dei segnali molto chiari: il matrimonio franco-tedesco non è finito, ma si avvicina alla fase della separazione in casa. Commento molto interessante di Uwe Schramm su Tichys Einblick.


Alcune cose semplicemente accadono all'improvviso, anche se ad un certo punto te le saresti potute aspettare. E' successo con il discorso del presidente francese Emmanuel Macron di giovedì scorso. L'argomento più importante doveva essere la politica interna francese dopo le proteste dei Gilets Jaunes. Ma poi Macron, con una chiarezza senza precedenti, si è spostato sui crescenti conflitti fra Parigi e Berlino. Ha menzionato gli esempi nella politica energetica e climatica, le differenze in materia di politica commerciale con gli Stati Uniti e nei negoziati sulla Brexit. Avrebbe potuto elencarne di più: come le divergenze in materia di politica finanziaria e sociale nell'UE, nella difesa comune e nell'esportazione di armi. A ciò si aggiungono le delicate questioni interne in materia di politica migratoria dell'UE e la difesa delle frontiere esterne dell'UE.

Anche solo come provocazione, Macron nel suo discorso di Parigi, avrebbe potuto aggiungere altri elementi ancora piu' recenti. Come la richiesta fatta dal nuovo leader della CDU Kramp-Karrenbauer di chiudere la seconda sede del Parlamento europeo a Strasburgo, oppure la polemica inutilmente scatenata dalla parte tedesca sul seggio francese al Consiglio di Sicurezza, che a Berlino, per ovvie ragioni, si pensa debba diventare un seggio comune dell'UE. Dal punto di vista francese, c'è come l'impressione che a Berlino si voglia sminuire il ruolo di Parigi. A Parigi ovviamente la cosa non è stata presa molto bene. Non era andata diversamente in passato, come ad esempio è accaduto con le reazioni evasive arrivate da Berlino in seguito alle ripetute proposte di riforma europea lanciate da Macron.

Macron nel suo discorso ha evitato una escalation delle parole. Ha parlato di "un confronto fruttuoso" e della volontà di scendere a compromessi. Il suo discorso tuttavia conteneva un  messaggio chiaro: basta con il divertimento. Il tempo delle avances di Parigi in materia di politica europea è finito. D'ora in poi ognuno farà ciò che ritiene giusto e ciò che riesce a far rispettare. Non c'è più una corsia preferenziale franco-tedesca. D'ora in poi nell'UE ci sarà una libera scelta del partner con cui mettersi in viaggio.

Fra le righe ciò significa anche che Berlino ha perso il suo partner più importante nell'UE. Non è ancora opposizione aperta, ma si tratterà sempre di piu' di prendere decisioni sulla base degli interessi in ogni singola situazione, caso per caso. E questo accade proprio nel momento peggiore in cui la Gran Bretagna dice addio all'Unione europea, un paese che in materia di politica economica e finanziaria si era mosso quasi sempre insieme a Berlino. Londra mancherà quando si tratterà di decidere sull'appetito finanziario dei paesi del sud. Anche su altri temi, Berlino avrà il vento in faccia, all'interno dell'UE. A est, resta il gruppo di Visegrad con la Polonia, l'Ungheria e gli altri, i quali cercheranno di contrastare i diktat reali o presunti provenienti da Bruxelles o Berlino, mentre da Vienna, se sarà necessario, per questioni di pura utilità, si sceglierà un ruolo da suggeritore. Nel sud la Spagna resta vicina a Berlino, ma al momento ha altre preoccupazioni. Su dei paesi come Italia e Grecia bisogna farsi delle preoccupazioni. Berlino nell'UE nel complesso non è isolata. Ma non ha piu' amici. O piu' precisamente: ci sono dei partner con una diversa vicinanza e rilevanza e con motivazioni, obiettivi e interessi non corrispondenti.

Il discorso del presidente Macron del 25.04.2019, non solo segna la fine dello speciale rapporto franco-tedesco. Ma le conseguenze di questa rottura nell'asse europeo vanno ampiamente al di là dell'UE.

C'è una spiegazione a questa situazione. La geometria della politica estera tedesca può essere descritta con tre cerchi. Tre cerchi che corrispondono agli ambiti più importanti per la sicurezza del paese, e non solo per gli interessi economici. Si potrebbe anche parlare di tre dimensioni della politica estera: l'Europa, l'Atlantico e l'Oriente. Il problema ora è che dopo la correzione di rotta di Macron, nessuno di questi tre cerchi può ancora essere considerato intatto.

La dimensione europea ha il suo centro nell'UE, integrata da vari strumenti formali come il Consiglio d'Europa e un gran numero di meccanismi e istituzioni informali. Ma il centro di questo nucleo era costituito dal tandem franco-tedesco. Se questo asse soffre una perdita di qualità, come sta accadendo ora, ci saranno delle conseguenze per l'intero cerchio europeo della nostra geometria di politica estera. Il cuore continua a battere, ma sta soffrendo.

La seconda dimensione della nostra geometria di politica estera sono le relazioni transatlantiche; prima di tutto con gli Stati Uniti, che per la nostra sicurezza ancora oggi restano essenziali come lo sono sempre stati. Sfortunatamente la nostra politica e la stampa di casa nostra non hanno ancora capito che il presidente Donald Trump è tutt'altro che un imbarazzante incidente di percorso della politica americana. Berlino senza dubbio resta una voce importante nel bilancio della politica estera degli Stati Uniti. In queste circostanze, tuttavia, essere scivolati quasi in fondo alla classifica delle simpatie americane deve essere considerato un notevole svarione. Ciò puo' essere spiegato non solo con gli egoismi rabbiosi della politica americana, ma anche dal comportamento di Berlino e da altre questioni sostanziali come il non rispetto degli impegni tedeschi nel settore della difesa, o dal bigottismo di carattere guglielmino della stampa tedesca, e da certe dichiarazioni pubbliche, anche a livello politico. È così mentre il presidente Macron e sua moglie invitano la coppia Trump per un'elegante cena nel ristorante della Torre Eiffel, alla parte tedesca spesso, in materia di decenza civile, manca l'essenziale. Ciò trova vendetta nel fatto che la dimensione emotiva continua ad influenzare gli aspetti piu' fattuali. Inoltre, ciò non sembra essere d'aiuto anche nell'interpretazione delle dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti sugli impegni dell'Alleanza NATO. 

Nel terzo cerchio della nostra architettura di politica estera, quello della politica orientale, senza peraltro averne molta colpa, ci troviamo di fronte alle macerie della politica di distensione, nella sua formulazione finale, contenuta negli Accordi di Helsinki del 1975, i quali poi dal 1989 avevano reso possibile il processo di riunificazione tedesco. Per molti di noi si tratta di un addio difficile, che non viene accettato ovunque. Il ricordo di Willy Brandt è indimenticabile. Persino l'attuale presidente federale Steinmeier nei suoi anni da Ministro degli Esteri ha cercato di salvare ciò che sembrava possibile, e forse ha  tentato di tornare ai buoni propositi iniziali. Ma era come voler guidare alla massima velocità sull'autostrada orientandosi solo con lo specchietto retrovisore. Il suo successore Heiko Maas invece sembra essere in procinto di  tornare a separare un'altra volta i desideri dalla realtà.

Tornando a Emmanuel Macron e al suo discorso del 25.04.2019: non porterà al divorzio definitivo della coppia franco-tedesca, ma piuttosto ad una vita da separati in casa.

Con questa decisione del presidente francese, Berlino si trova ora in una situazione in cui nessuno dei tre ambiti della geometria della politica estera tedesca resta completamente intatto. La rottura dell'asse franco-tedesco ha colpito la dimensione europea sia nella sua qualità, che nella sua efficacia. Anche il rapporto con Washington sta soffrendo, ma non si può dire quale delle 2 parti abbia la responsabilità maggiore. Sarebbe molto bello, tuttavia, se sul lato tedesco, almeno per un po' si riuscisse a spegnere gli altoparlanti. La terza, vale a dire la dimensione della politica orientale, a causa della condotta russa in Crimea e in Ucraina orientale e di altri spiacevoli inconvenienti, non ha più alcuna valenza pacificatrice, come era accaduto sotto Brandt, Schmidt e Kohl, ma si è trasformata invece in un fattore di rischio, purtroppo con una tendenza crescente.

Se si confronta la situazione attuale con quella della politica estera sotto il cancelliere Helmuth Kohl, quando tutte e tre le dimensioni erano stabili, allora la Repubblica federale  odierna è messa molto peggio. Non c'è ragione per drammatizzare. Ma ci stiamo dirigendo verso una situazione di politica estera che in caso di shock interni o esterni imprevisti  potrebbe diventare problematica.


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lunedì 29 aprile 2019

Il riposizionamento di Macron

"La Germania senza dubbio si trova alla fine di una fase di crescita in cui ha tratto un enorme vantaggio dagli squilibri dell'eurozona", ha detto Macron giovedì a Parigi. Dopo i mesi difficili segnati dalla proteste dei Gilets Jaunes, per il presidente francese è arrivato il momento di riposizionarsi e di prendere le distanze da Berlino. E' una vera svolta oppure solo uno show a fini elettorali? Ne scrive Der Spiegel


La seconda parte del mandato del presidente francese Macron inizia con un riposizionamento nei confronti della Germania. Per Macron il paese vicino non è più il modello per le riforme, ma un modello in via di progressivo superamento.

Quando il presidente francese Emmanuel Macron due anni fa si presentò a Berlino per la visita inaugurale alla Cancelliera Angela Merkel, lo fece in maniera quasi sottomessa. A quel tempo, l'auto-proclamato riformatore economico considerava la Germania un modello dal quale c'era ancora molto da imparare.

Quando questo lunedì Macron tornerà a Berlino, i presagi lasciano ipotizzare una situazione completamente diversa. In realtà il presidente sarà solo un ospite al vertice sui Balcani organizzato nella Cancelleria federale. Ma nella cronologia francese è appena iniziata la seconda parte del mandato di Macron: dopo cinque mesi di proteste da parte del movimento dei Gilets Jaunes, che gli sono quasi costati il mandato, il presidente, dopo un tour di tre mesi nella provincia francese, recentemente è riuscito anche a riconquistare un po' di prestigio.

Macron in questi giorni, quindi, dà avvio al "secondo atto" del suo mandato. "Il primo atto era stato completamente focalizzato sulla Germania, nel secondo atto invece ha elaborato la delusione causatagli dalla Germania, e guarda in altre direzioni", spiega a Der Spiegel Sébastien Maillard, direttore dell'Istituto Jacques Delors di Parigi.

Per il suo rapporto con la Germania in pratica significa che il vicino non è più il modello per le riforme francesi, ma solo il principale modello economico d'Europa, in via di progressivo superamento.

"La Germania senza dubbio si trova alla fine di una fase di crescita in cui ha tratto un enorme vantaggio dagli squilibri dell'eurozona" ha detto Macron in una conferenza stampa al Palazzo dell'Eliseo giovedì scorso. Ed è stato ancora più esplicito: "La Germania ha un modello di produzione basato sul fatto che in Europa vi siano paesi con dei bassi costi di produzione - vale a dire esattamente l'opposto del progetto sociale che io intendo rappresentare per l'Europa".

In realtà la critica di Macron al modello economico tedesco non è nuova. "Già Xavier Musca, l'attuale vicepresidente della banca Crédit Agricole, nel suo ruolo di segretario generale del presidente Nicolas Sarkozy, dieci anni fa all'Eliseo aveva espresso lo stesso punto di vista", ricorda l'esperto di politiche europee Maillard. A Parigi c'è sempre stata la preoccupazione che la forza dell'economia tedesca, tutta basata sulle esportazioni, alla fine avrebbe avvantaggiato solo i tedeschi. Ma dopo la crisi finanziaria del 2008, per un lungo periodo di tempo il successo della loro economia sembrava aver dato ragione ai tedeschi.

"La Germania ha fatto le sue riforme al momento giusto, non l'ho mai incolpata per questo", dice ora Macron. Eppure ritiene che queste riforme, per le quali anche lui in Francia negli ultimi due anni si è speso, oggi non siano più un modello.

"Ho chiesto a Macron: la Germania è consapevole delle difficoltà che per noi rappresentano le aggressive politiche economiche degli Stati Uniti e della Cina?", riferisce la star dell'economia di Parigi, Elie Cohen. Cohen è stato professore di economia alla Scuola di Amministrazione di Parigi ENA, dove studiava Macron, ed è tuttora uno dei consiglieri presidenziali.

Quello che Cohen intende è: l'atteggiamento sempre più protezionistico degli Stati Uniti sotto la presidenza di Donald Trump e la politica economica espansiva di Pechino nell'ambito della cosiddetta nuova "Via della seta", dal suo punto di vista, già da tempo avrebbero dovuto garantire nuove condizioni in Europa. Le riforme liberali che la Germania ha predicato fino ad ora, sono diventate inutili. "In realtà, sarebbe proprio nell'interesse economico della Germania concentrarsi sempre di più sull'Europa", dice Cohen, che considera i mercati di vendita tedeschi nei paesi emergenti, come ad esempio quello delle costruzioni meccaniche, a rischio collasso.

La Germania guarda solo alle sue case automobilistiche?

Ma le esportazioni tedesche verso la Cina non continuano a crescere? Parigi non vuole sentirne parlare. "La Germania è troppo dipendente dalla sua industria automobilistica", dice l'esperto di politiche europee Maillard con un sorriso - lui stesso sa che questa è la solita storia, come del resto si ripeteva anche in passato ogni volta che in Germania si parlava degli agricoltori francesi. Come dicevano sempre a Berlino: Parigi in Europa si preoccupa solo della sua agricoltura. Ora sta arrivando il vagone di ritorno.

"La Germania ritiene di aver compreso la crisi del diesel, ma in realtà non si sta muovendo", afferma la star dell'economia Cohen. E fa riferimento anche al rifiuto di Berlino di applicare una tassa digitale sulle principali società tecnologiche statunitensi. Dal punto di vista di Parigi, non si è fatta solo perché il governo federale ha voluto proteggere le aziende automobilistiche tedesche, che altrimenti sarebbero state minacciate da nuove tasse o nuovi dazi negli Stati Uniti.

Macron ora vorrebbe usare la discussione per riposizionare la Francia: allontanarsi dal ruolo di studente modello delle riforme tedesche per diventare il promotore di una nuova politica economica europea sempre meno basata sul semplice credo nel libero mercato.

Macron vorrebbe contrastare gli USA e la Cina. L'esempio più recente: Parigi non vuole avere nuovi colloqui commerciali con gli Stati Uniti - non vuole averli con un paese che è uscito dal trattato sul clima. "Sarebbe incoerente", ha detto Macron.

Il fatto che in questo modo a Berlino Macron abbia provocato molti scuotimenti di capo, lo sa bene anche lui. Sa anche che quando la scorsa settimana gli hanno chiesto dello stato dei rapporti franco-tedeschi, ha subito trovato un nuovo modo per ridefinirli: "un confronto fruttuoso". Si possono chiamare anche così.


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giovedì 24 gennaio 2019

Perché l'asse franco-tedesco è un bluff

"Il trattato del 1963 è stato il simbolo di una svolta storica: la fine della "secolare ostilità" fra i due paesi. (...) Il nuovo accordo invece è l'espressione di quello che oggi nelle relazioni franco-tedesche ancora funziona - cioè, molto, molto poco", scrive su Makroskop Peter Wahl, giornalista, scrittore ed attivista tedesco. Per l'autore il nuovo trattato di amicizia franco-tedesco esprime piu' che altro la debolezza francese ed è un compromesso per forza di cose vago fra interessi profondamente divergenti. Ne scrive Peter Wahl su Makroskop.eu


Il 22 gennaio 1963 Charles de Gaulle e Konrad Adenauer firmavano il trattato dell'Eliseo, il simbolo della fine della "secolare ostilità" tra Francia e Germania. Esattamente 55 anni dopo, Merkel e Macron, questo martedì hanno firmato ad Aquisgrana un nuovo trattato di amicizia.

L'idea di un nuovo Trattato dell'Eliseo 2.0 arriva da Emmanuel Macron. Era una delle sue proposte di riforma per la politica europea annunciate nel corso del suo famoso discorso alla Sorbona nel settembre 2017. All'epoca il neo-presidente francese pensava di poter prendere due piccioni con una fava: ridare slancio all'Eurozona e al tempo stesso provare almeno a frenare il declassamento della Francia verso il ruolo di junior partner dei tedeschi, se non addirittura di rendere la Francia great again. Il nuovo trattato di amicizia era stato pensato come un lubrificante aggiuntivo di questo processo.

Macron non è riuscito a rimettere in pista l'Eurozona. Prima di tutto a causa del governo tedesco. Quello che restava dei suoi piani, nel giugno 2018 è stato fissato nella Dichiarazione di Meseberg. [1] Invece di un budget della zona euro per "diversi punti percentuali di PIL" come aveva chiesto, c'è solo l'impegno a lavorare, nell'ambito dei negoziati sul bilancio UE, per una posta speciale di poche decine di miliardi di euro. Invece di un Fondo monetario europeo, viene stabilizzato il fondo anti-crisi ESM. Invece di un ministro delle finanze e di un parlamento dell'Eurozona c'è il vuoto. E anche sull'unione bancaria, che dieci anni dopo il crash non è ancora completata, Berlino continua a frenare.

Poco ambizioso

E proprio per non lasciare Macron completamente a mani vuote, il nuovo trattato di amicizia dovrebbe funzionare piu' che altro come una consolazione. L'accordo non riesce davvero ad impressionare nessuno. Le Monde deluso lo descrive come "poco ambizioso". Accanto alla retorica sull'amicizia europea, i 28 articoli contengono molte dichiarazioni di intenti, ma nulla di concreto.

Un esempio tipico: la politica estera dovrebbe essere coordinata in maniera piu' stretta, anche all'ONU (articolo 8), dove Berlino attualmente ha un seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza. La realtà è diversa: Olaf Scholz lo scorso novembre aveva chiesto che la Francia metta a disposizione dell'UE il suo seggio permanente e il diritto di veto associato. A giudicare dalle reazioni acide provenienti da Parigi è diventato subito chiaro che l'amore francese sia per l'UE che per la Germania è così grande che proprio su uno dei pochissimi terreni sui quali Parigi mantiene ancora lo status di grande potenza la Francia non intende indietreggiare di un solo millimetro [2]. Nel trattato resta solo una frase molto diplomatica non vincolante:

"L'ammissione della Repubblica Federale Tedesca al seggio di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è una priorità della diplomazia franco-tedesca".

E questo stile attraversa l'intero documento. Anche per quanto riguarda la cooperazione militare, dove l'obiettivo principale di Macron è quello di far sostenere ai tedeschi una parte del costo delle operazioni militari francesi nelle ex colonie. Mentre la comunità politico-militare in Germania specula sfacciatamente sulla "compartecipazione al nucleare" dei tedeschi, eventualmente anche alla Force de frappe francese [3]. Gli interessi sul tema sono così divergenti che il contratto resta molto vago.

Anche su argomenti piuttosto innocui, come la promozione delle lezioni scolastiche nell'altra lingua, rivendicazioni e realtà divergono. Anche sotto la presidenza di Hollande, solo con un grande sforzo e con tanto rumore si era riusciti ad evitare una drastica riduzione delle ore di tedesco nelle scuole francesi. Anche i bambini francesi oggi preferiscono imparare l'inglese.

Altri articoli del Trattato confermano quello che già funzionava anche senza il trattato di amicizia, come ad esempio la realizzazione dei progetti per la difesa comune e l'intensificazione della cooperazione militare nel quadro della cosiddetta Cooperazione strutturata permanente  (PESCO) dell'UE (art. 3-5), oppure una piu' stretta cooperazione nell'ambito dello sviluppo dell'economia digitale, dell'intelligenza artificiale e dell'industria digitale (articolo 21).

L'ambizione di portata decisamemente maggiore è quella di sviluppare "una integrazione delle economie verso un'area economica franco-tedesca con regole comuni " (articolo 20). Se l'argomento venisse  affrontato in maniera seria, da un punto di vista politico europeo sarebbe senza dubbio interessante, in quanto equivarrebbe al concetto di „Kerneuropa“. Macron in passato aveva già dichiarato di essere un sostenitore "dell'Europa a due velocità". Una Kerneuropa tuttavia non farebbe altro che approfondire la differenziazione del livello di integrazione rispetto alle quattro o cinque velocità già esistenti adesso, intensificando ulteriormente le tendenze centrifughe in tutta l'UE.

D'altra parte, le differenze strutturali tra il modello tedesco della valuta forte e orientato all'esportazione e il sistema monetario debole orientato verso la domanda interna, tipico della Francia, probabilmente porranno dei limiti abbastanza rigidi al livello di integrazione possibile tra le due economie. Il recente rifiuto da parte del governo federale di seguire la proposta francese e di introdurre una tassa digitale sui giganti Internet parla da solo.

Il bilancio economico di Macron è magro

Anche la promessa fatta da Macron di rilanciare l'economia francese non si è trasformata in realtà. La crescita è scesa dal 2,2% del 2017 all'1,7% del 2018, ampiamente al di sotto della media della zona euro (2,1%). [4] Per il 2019 e il 2020 è prevista all'1,6%, da ottenere principalmente con la domanda interna. Il tasso di disoccupazione a fine 2018 è sceso di poco sotto il 9 %. Anche questa non è stata una pagina gloriosa. Il debito pubblico si attestava al 98,7% del PIL nel 2018 e dovrebbe scendere di poco passando al 97,2% entro il 2020. Il disavanzo delle partite correnti rimane invariato allo 0,6 per cento del PIL. Il "campione del mondo dell'export" ha un surplus del 7,8 % del PIL. La Germania è il principale partner commerciale della Francia, mentre la Francia è al secondo posto tra i partner tedeschi. Quindi, ancora una volta, Macron, che ha iniziato il suo mandato parlando di una presidenza da "padre degli dei", si è invece ridotto a a  dimensioni piu' umane. L'operazione "Make France great again" per il momento è sospesa

I Gilets jaunes

Ma Macron il colpo piu' duro l'ha ricevuto dal movimento dei Gilets jaunes. All'inizio c'è stata molta incertezza nella valutazione delle proteste - anche in una parte della sinistra. Sono letteralmente usciti dal nulla e non sembravano adattarsi allo schema familiare dei movimenti sociali. Né le scienze sociali, né i sindacati, né i partiti di sinistra avevano notato nulla. I protagonisti non erano mai stati politicamente attivi prima. Sostenevano di non essere né di sinistra né di destra e si opponevano ad ogni cooptazione dall'esterno. Sono state respinte le strutture organizzative centrali e la rappresentanza sovraregionale.

Da parte del governo inizialmente è stato avviato un duro scontro. Il Ministro del Bilancio Gérald Darmanin ha parlato di "peste bruna". Ma anche con tutte le peculiarità del movimento ben presto si è capito che le diverse rivendicazioni potevano trovare un punto in comune nel contrasto alle riforme neo-liberiste di Macron."Si tratta in sostanza di una rivolta anti-liberista" [5]. Per questa ragione in poco tempo il movimento ha ottenuto la simpatia di due terzi della popolazione e il sostegno della maggioranza della sinistra francese.

Ciò che i sindacati e la sinistra non erano mai riusciti a fare, dopo solo tre settimane invece è riuscito ai gilet jaunes: Macron è stato costretto a fare concessioni in materia di politica sociale. L'aumento della tassa sul diesel, detonatore del movimento, è stato ritirato e sono state approvvate misure di politica sociale per un volume di 10,3 miliardi di euro.

Nessuno può sapere come il movimento potrà andare avanti. Potrebbe stancarsi e disintegrarsi, ma potrebbe anche arrivare a nuovi estremi, come ad uno sciopero generale. Tuttavia ci sono già degli effetti che vanno ben oltre la politica sociale:

- Merkel è un'anatra zoppa, a Londra c'è il caos, il governo socialdemocratico di minoranza a Madrid non andrà avanti a lungo e l'Italia non scoppia dalla voglia di assumere la leadership politica in Europa, la grande speranza della politica europea di Parigi ormai è tramontata;

- sullo sfondo la Brexit, Trump, il rallentamento dell'attività economica e tutti gli altri problemi irrisolti dell'UE, in questo quadro la sua politica europea e la sua capacità di risolvere i problemi continueranno a diminuire;

- non dovrebbe essere possibile continuare con il programma di riforme à la Hartz-IV di Macron. Se dovesse proseguire il suo corso neoliberale rischia una resistenza ancora più grande di quanto non stia già accadendo ora;

- le tensioni interne nella sua République en Marche sono aumentate bruscamente. Il presidente anche fra le sue fila non è più indiscutibile;

- la Francia probabilmente infrangerà i criteri di Maastricht con il 3,2% di deficit. Senza le coperture potrebbe arrivare al 3,4 %. Prima delle proteste era previsto solo il 2,8%. Quindi nella gestione della crisi dell'euro la posizione di Macron di fronte a Berlino e agli altri intransigenti è praticamente inconsistente;

- nelle elezioni per il Parlamento europeo di maggio Macron rischia una pesante sconfitta. Diversamente da qualsiasi altra elezione, si vota con un sistema elettorale puramente proporzionale, vale a dire che verrà mostrato l'effettivo equilibrio di potere in maniera ragionevolmente realistica. Nei sondaggi, il "salvatore d'Europa" da diversi mesi resta sotto il 20 %. Al vertice c'è Marine Le Pen, che dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali, da molti veniva data per politicamente morta. Sebbene il Parlamento europeo in termini di potere politico non sia molto rilevante, le prossime elezioni avranno un alto significato simbolico.

Il trattato del 1963 era il simbolo di una svolta storica: la fine "dell'ostilità secolare" fra i due paesi. Non deve essere glorificato, perché in quel momento a formare il quadro in cui si inseriva il trattato dell'Eliseo c'erano pochi sentimenti nobili attintenti alla sfera delle relazioni interpersonali, come ad esempio la riconciliazione e l'amicizia, ma piuttosto dei duri fatti geopolitici - come la totale disfatta militare della Germania e la guerra fredda. Ma era di importanza storica. Il nuovo accordo invece è l'espressione di quello che oggi ancora funziona nelle relazioni franco-tedesche - cioè, molto, molto poco.


[1] PRESSE- UND INFORMATIONSAMT DER BUNDESREGIERUNG. Erklärung von Meseberg. Das Versprechen Europas für Sicherheit und Wohlstand erneuern. 19.6.2018. https://www.bundesregierung.de/Content/DE/Pressemitteilungen/BPA/2018/06/2018-06-19-erklaerung-meseberg.html
[2] Le Figaro, 30.11.2018; S.8
[3] Major, Claudia (2018): Germany’s Dangerous Nuclear Sleepwalking. Carnegie Europe.
http://carnegieeurope.eu/strategiceurope/?fa=75351&utm_source=rssemail&utm_medium=email&mkt_tok=eyJpIjoiTURFME1EaGxaRFE0Wm1ZeiIsInQiOiIzVm1ZY1g1NXBmUFp2Wm5YejMyYThnZGl3N1REM25VTVhQN2l5dHJQZ2tyZnlva2NuUzVXTUJvMmZLTURtOUZQdGEwXC9MbEsyejd6UTNBZlJQb3BTOERjWUx0RFZTYzJ4Q21HalRJMHhkMENVZDBneW5uM3d6Sjh5elBiNlF2TUwifQ%3D%3D
[4] Alle Zahlen in diesem Absatz nach: Wissenschaftlicher Dienst des Deutschen Bundestages; Referat PE 2 EU-Grundsatzangelegenheiten, Fragen der Wirtschafts- und Währungsunion. Aktuelle wirtschaftliche Lage in Frankreich und Auswirkungen der Protestbewegung „gilets jaunes.” Stand: 11. Januar 2019
[5] Aus der knappen, aber ziemlich treffende Analyse der Bewegung (in deutscher Sprache) unter: https://www.attac.de/fileadmin/user_upload/Kampagnen/Europa/Downloads/Attac_DE-Projektgruppe_Europa_-_Solidarita__t_mit_Gelbwesten_18jan2019.pdf


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sabato 15 dicembre 2018

Der Spiegel: dell'eurobudget di Macron praticamente non è rimasto nulla

Secondo Der Spiegel anche Merkel avrebbe scaricato il giovane presidente francese e i suoi piani per una unione di trasferimento finanziata dai tedeschi. Con il vertice europeo di venerdì, di fatto, il progetto di una "Transferunion" finanziata dal lato nord dell'unione monetaria viene definitivamente sepolto e il finto europeismo di Macron smascherato per quello è: il tentativo di imporre gli interessi francesi a livello europeo. Anche la cosiddetta stampa di qualità tedesca, dopo l'apertura di lunedi' ai gilet jaunes e quindi ad un aumento del deficit, scarica definitivamente l'enfant prodige di Rotschild. Da Der Spiegel


(...) E' certo che il bilancio dell'eurozona troverà un posto nel futuro bilancio dell'UE. Ma è rimasto poco della grande idea di Macron, cioè quella di intervenire con diversi miliardi di euro in soccorso degli stati della zona euro in difficoltà. Certo, lo si puo' vedere come un inizio - e sia Macron che Merkel sono abbastanza intelligenti da rivendere il risultato del summit come un successo.

Macron, con alle spalle uno sfondo blu scuro e il tricolore, elogia le conclusioni del vertice sull'euro come "una svolta decisiva nei piani che la Francia ha presentato un anno fa" e loda la cooperazione con Merkel. "Svolgiamo un ruolo storico, insieme alla Germania, nell'andare avanti". Nella sala accanto Merkel fa lo stesso. Abbiamo trovato un accordo sulle proposte di Macron "in una versione alla quale tutti gli stati dell'Eurozona vi possano partecipare", afferma la Cancelliera. Sia lei che Macron sono "abbastanza soddisfatti di essere riusciti a farlo".

Ma la verità è amara: l'Europa ha lasciato Macron appeso. Da venerdì pomeriggio, la "finestra di opportunità", di cui spesso si è parlato, si è chiusa. Come previsto, al vertice UE, sono stati fatti solo dei piccoli passi in avanti in materia di riforma dell'Eurozona. Ci sarà un ulteriore scudo di emergenza per le banche in difficoltà, e il fondo di salvataggio ESM avrà dei nuovi compiti. Meglio di niente, ma non una ripartenza.

Questo vale soprattutto per il bilancio della zona euro. Nella dichiarazione finale del vertice di Bruxelles, sull'argomento c'è solo un paragrafo secco, che non contiene nemmeno la parola eurobudget. I soldi dovranno essere spesi per rendere i membri della zona euro più competitivi. Non viene affatto menzionata la funzione di stabilizzazione del bilancio, cosi' importante per Macron. L'obiettivo era, ad esempio, in caso di crisi sostenere con dei crediti le assicurazioni contro la disoccupazione degli Stati membri.

I ministri delle finanze ora dovranno presentare delle proposte per la struttura del bilancio. Alla dimensione del piatto, che in origine Macron voleva riempire con diversi punti di PIL dell'UE, i capi di stato e di governo non dedicano nemmeno una parola. Sarà deciso nel contesto dei negoziati sul prossimo bilancio pluriennale dell'UE, si dice. Che saranno completati non prima dell'autunno del 2019. Prima di ciò, entro giugno, sarà necessario trovare un "approccio generale" all'eurobudget.

Che tradotto significa: per ora non succede nulla. Le elezioni europee sono previste per maggio 2019 e poi si dovrà formare una nuova Commissione. È possibile che solo la prossima crisi costringa gli europei ad agire di nuovo.

La Germania esita, l'Austria frena

Tutto era iniziato in maniera così favorevole. Pochi giorni dopo le elezioni presidenziali, Macron nell'autunno 2017 aveva presentato la sua visione per una riforma dell'UE. Le richieste sull'euro rappresentavano solo una piccola parte di questo brainstorming pubblico, ma la più importante. Il presidente francese voleva riformare l'UE Insieme alla Cancelliera tedesca.

Ma la formazione del governo a Berlino si è trascinata a lungo. Quando l'accordo di coalizione con il suo capitolo introduttivo favorevole all'UE è stato finalmente concluso, probabilmente non valeva nemmeno la carta su cui era scritto. Anche se poi a giugno a Meseberg si è riusciti a trovare un accordo per andare avanti insieme sulle riforme. Il ministro delle Finanze federale Olaf Scholz (SPD) per molte notti si è anche sforzato insieme al suo collega francese Bruno Le Maire, di mettere nero su bianco un possibile bilancio della zona euro.

Ma alla fine tutto è rimasto molto incerto, il motore franco-tedesco non si è mai veramente messo in modo. A ciò si aggiunge anche la crescente resistenza da parte di altri stati dell'UE. Da un lato, ci sono gli stati dell'UE, come la Polonia o la Svezia, che non sono fra i 19 membri dell'Eurozona. Non è ben chiaro per quale motivo dovrebbero concordare su un budget che dovrebbe essere ritagliato dal bilancio effettivo dell'UE e dal quale non avrebbero nulla indietro.

Lo stesso Macron minaccia di diventare un peccatore finanziario

Ma ci sono anche massicce critiche dall'Eurozona, specialmente dai Paesi Bassi e dall'Austria. "Non sono un amico del bilancio della zona euro", ha detto il capo di governo di Vienna, Sebastian Kurz, a Bruxelles. L'UE ha già un budget. Un budget separato della zona euro "ai contribuenti finirebbe per costare solo molto denaro in piu'".

Per potersi ulteriormente avvicinare dal punto di vista della politica fiscale, cosi' secondo l'argomento preferito dai critici, bisogna prima ridurre i rischi nell'eurozona. Un primo esempio di ciò sarebbero i piani dei nazionalisti di destra italiani e dei populisti di sinistra per aumentare in maniera massiccia il debito pubblico. Ma proprio Macron ora rischia di atterrare nel club dei peccatori finanziari. I benefici socio-politici che ha promesso ai manifestanti dei "gilet jaunes" potrebbero indurre la Francia a oltrepassare nuovamente la soglia del deficit al 3 per cento.

I primi dubbi sull'immagine dell'europeista modello

Cosi' l'autorità di Macron a Bruxelles subisce un primo duro colpo. Una Francia riformata, che per un lungo periodo di tempo riesce a rispettare le regole del Patto di stabilità e crescita, era stata questa la promessa di Macron agli europei - e in particolare ai partner delle riforme a Berlino. Ma ora si accorgono che: se le cose per lui si mettono male, il presidente francese se ne frega delle regole finanziarie dell'UE.

È probabile che coloro che hanno sempre diffidato di Macron ora si sentano confermati. Come tutti gli altri, anche lui cerca di imporre gli interessi del suo paese, dicevano malignamente i rappresentanti di diversi paesi dell'UE, fra cui la Germania. La facciata del grande europeista è esattamente questa: una facciata.

L'euforia con cui gran parte d'Europa ha celebrato la vittoria elettorale di Macron sulla populista di destra Marine Le Pen è stata già dimenticata. Ma era solo un anno e mezzo fa - e i populisti di destra potrebbero presto contrattaccare. Prima di tutto con Matteo Salvini, il capo della Lega in Italia, un partito radicale di destra. Il quale alle elezioni europee vorrebbe inscenarsi come il grande avversario di Macron.

Puntate precedenti sullo stesso argomento:


Da Meseberg verso l'unione di trasferimento

Perché il bilancio dell'eurozona è un compromesso al ribasso che non serve a nessuno






Merkel ha già scaricato Macron?

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martedì 11 dicembre 2018

Die Welt: brutte notizie per la Germania, ora dovrà gestire un'altra Italia

Per il prestigioso quotidiano di Amburgo il discorso di Macron di lunedi' sera segna il definitivo spostamento dell'equilibrio interno all'unione monetaria in favore del Club Med (Spagna e Italia). L'uomo di Berlino a Parigi, il giovane Macron, ha deluso le aspettative dei neoliberisti tedeschi, come era accaduto con Renzi in Italia, e ora i tedeschi dovranno capire come sarà possibile gestire un'altra Italia nella stessa unione monetaria. Ne scrive su Die Welt Olaf Gersemann, responsabile sezione economia nonché commentatore di spicco.


In Germania, il salario minimo legale è di 8,84 euro all'ora. E i malumori per il passaggio a fine anno a 9,19 euro sono relativamente pochi - dopotutto il paese si sta dirigendo verso la piena occupazione, almeno fino a quando l'attuale fase di crescita non porterà ad una recessione.

In Francia il salario minimo legale è molto più alto, 9,88 euro l'ora, e anche la disoccupazione è molto più alta - nel confronto europeo la Francia è al quarto posto, solo Grecia, Italia e Spagna riescono a fare peggio.

Se all'Eliseo ci fosse un riformatore con qualche ambizione, saprebbe cosa fare: assicurarsi che il salario minimo aumenti solo modestamente o, nel migliore dei casi, per niente. Non sarebbe una condizione sufficiente, ma comunque necessaria affinché la disoccupazione possa almeno iniziare a scendere in maniera simile a quanto accade su questa sponda del Reno.

Emmanuel Macron tira fuori le pistole. Per settimane, i giubbotti gialli hanno imperversato in Francia, lunedì sera, il presidente francese ha risposto con un discorso televisivo. Quella sarebbe stata l'occasione per contrastarne gli eccessi. Quella era l'occasione giusta per passare all'offensiva, per proporre la visione di una Francia prospera che richiede anche dei sacrifici da parte dei suoi cittadini sulla strada necessaria per raggiungere l'obiettivo.

Macron non solo ha perso un'opportunità. Ma ha legittimato le rivolte ex-post proclamando lo "stato di emergenza economica e sociale" e strisciando incontro alla folla che incendia le auto di piccola cilindrata.

Aumento del minimo salariale di quasi il sette per cento

La più simbolica delle sue concessioni: il salario minimo dovrebbe salire di 100 € al mese. Cioè, in un colpo solo, un aumento pari a tutti gli aumenti degli ultimi sei anni messi insieme. Il salario minimo salirà di quasi il sette percento, a 10,54 euro all'ora.

Che la disoccupazione in seguito a questo aumento rischia di crescere ancora, lo sa bene anche Macron. Ecco perché dovrebbe essere lo stato a pagare i 100 euro. Tra le altre cose, è disposto anche ad accettare il superamento da parte della Francia del limite di deficit del 3% in rapporto al PIL fissato dai criteri di Maastricht; Parigi nel 2017, per la prima volta a partire dal 2007, aveva rispettato il criterio unicamente grazie alla politica dei tassi a zero della BCE. Devi essere davvero cinico allora, se pensavi di rimettere in questo modo la Francia "En Marche" - in movimento.

La speranza è sempre stata quella che Macron potesse trasformarsi nel Gerhard Schröder francese: un uomo che, se necessario, avrebbe messo in pericolo il suo mandato pur di riuscire a fare la giusta politica economica. Invece Macron si è fatto piccolo ed è diventato la versione francese di Matteo Renzi. Il primo ministro italiano è stato presidente del consiglio dal 2014 al 2016, anche lui era di bell'aspetto, giovane e dinamico, e a suo tempo prometteva le stesse cose di Macron: formule magiche senza effetti collaterali.

Alla fine l'Italia, lungo la strada che porta alla bancarotta dello stato, ha perso solo del tempo prezioso. Ad avvantaggiarsene politicamente sono stati i ciarlatani dell'estrema destra e dell'estrema sinistra che ora a Roma dirigono le operazioni.

Brutte notizie per la Germania

La Francia, un paese che in realtà avrebbe ancora il potenziale economico per contendere alla Germania il primo posto in Europa, ora rischia di inciampare dietro all'Italia lungo la strada che porta in terza divisione. Difficilmente potrà permettersi un altro presidente conciliante: la lenta e strisciante caduta del paese, a partire dalla crisi finanziaria ha subito un'accelerazione e ora rischia di trasformarsi in una retrocessione permanente.

Per la Germania si tratta di una brutta notizia. Economicamente. Ma anche politicamente. Già al culmine della crisi dell'euro, in considerazione del suo peso economico, è sempre dipeso tutto dalla Francia: se Parigi sta dalla parte di Berlino, si può evitare che l'unione monetaria finisca sotto l'influenza del Club Med informale guidato da Italia e Spagna e scivoli nell'unione di trasferimento. D'altra parte, se Parigi si mette dalla parte di Italia e Spagna - o se rimane neutrale - allora l'intera costruzione si ribalta.

Per 15 mesi la Berlino politica si è occupata maniacalmente del modo in cui si poteva rispondere alle proposte di riforma dell'euro e dell'Europa, presentate da Macron nel settembre 2017 subito dopo le elezioni tedesche in occasione del discorso alla Sorbonnne di Parigi. Proposte che fondamentalmente mirano a spillare il denaro e la sovranità dei contribuenti tedeschi.

Memori della performance di Macron nella disputa sui gilet gialli, ora a Berlino ci si potrà occupare con fiducia di altre cose. Cose più urgenti. La questione consiste esattamente nel modo in cui si dovrà gestire una situazione in cui la Germania all'interno dell'Unione monetaria e nell'UE, non avrà piu' a che fare con una sola Italia. Ma con due.


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sabato 8 dicembre 2018

Thomas Fricke su Der Spiegel: Macron è come Schröder e anche lui finirà per essere asfaltato

Un ottimo Thomas Fricke su Der Spiegel fa un confronto fra il rapido crollo del giovane Macron e il declino dei socialdemocratici tedeschi iniziato con Gerhard Schröder e giunge a una conclusione netta: anche Macron, come era già accaduto a Schröder, Renzi e Monti, sarà asfaltato. Da Der Spiegel


L'Europa negli ultimi anni ha prodotto alcuni grandi riformatori dell'economia. Tony Blair ad esempio. O Gerhard Schröder. Mario Monti e Matteo Renzi in Italia. In Spagna Mariano Rajoy. E da un po' piu' di un anno in Francia, Emmanuel Macron.

Tutti nei loro paesi, in maniera più o meno zelante, hanno fatto quello che i papi dell'economia gli raccomandavano di fare: ridurre le gravose regole del mercato del lavoro, alleviare il carico fiscale sui poveri ricchi, trovare le risorse riducendo i sussidi di disoccupazione (per fare finalmente un po' di pressione sui disoccupati), fermare i sindacati con le loro rivendicazioni sfacciate - e poi un'altra pratica divenuta ormai uno standard: tagliare le pensioni.

Tutto ciò è sempre servito per ottenere delle belle lodi dai tanti professoroni dell'economia. E dai funzionari di Bruxelles. E dalle persone che gestiscono il denaro sui mercati finanziari, e che di solito di soldi ne hanno anche tanti. Cioè Friedrich Merz. Per fare un esempio

Peccato ci sia qualcosa di irritante: tutte le star del riformismo da allora e per ragioni misteriose sono state travolte dalla sfortuna - per lo più sotto forma di un crollo improvviso nei sondaggi sulla popolarità fra gli elettori. Piu' o meno tutte queste star hanno perso il sostegno del popolo. Proprio come in queste settimane sta accadendo ad Emmanuel Macron, dopo tutte le belle riforme avviate per la grande gioia dei professori e degli analisti, e che ora invece viene colpito dalla protesta dei francesi coi giubbotti gialli (e dal crollo nei sondaggi).

In maniera simile a Gerhard Schröder, solo che allora non c'erano i giubbotti gialli, quando nel 2005 fu costretto a indire nuove elezioni a causa delle dimostrazioni del lunedì e del malcontento popolare. Per rendersi poi conto che lui, il più grande di tutti i riformatori, era sostenuto solo da una minoranza di persone. Cosa che secondo gli usi democratici non è possibile. Ora è costretto ad occuparsi di petrolio e gas. O Monti e Renzi, che sono stati espulsi dal campo. O Tony Blair, che oggi sull'isola nessuno vuole avere come amico - almeno nel proprio campo politico.

Coincidenza? Da allora quasi tutti i partiti (per la maggior parte formalmente socialdemocratici) sono implosi nel tentativo di dimostrare di essere riformatori - in Germania è accaduto alla SPD, in Italia al Partito Democratico di Renzi e in Francia al Parti socialiste, un tempo un  grande e orgoglioso partito, che prima di Macron si era già cimentato con le grandi riforme.

Come? Con una simile scoperta, i predicatori dell'ortodossia economica dovrebbero subito iniziare a lamentarsi in coro - a scelta sul popolo tedesco, italiano o francese - i quali semplicemente non avrebbero una comprensione dell'economia sufficiente, oppure che per qualche ragione sarebbero diventati un po' troppo comodi o pigri (teorema di Spahn-Merz). Caratteristica che al piu' tardi durante la prossima crisi e grazie ad un certo livello di sofferenza potrà essere eliminata.

Oppure i predicatori hanno tirato fuori la pratica tesi argomentativa secondo la quale tali riforme richiedono tempo, quindi la gente non dovrebbe essere così impaziente - perché tutte queste privazioni porteranno alla crescita economica, alla creazione di più posti di lavoro, e alla fine tutti guadagneranno di più e andranno in paradiso. Bene. Prima o poi accade.


Un'altra interpretazione potrebbe essere quella secondo la quale le riforme non rendono tutti veramente felici per l'eternità - e qualcuno nel popolo prima o poi se ne accorge.

La verità è: dove le riforme sono state fatte, più o meno secondo i libri di testo, tutte queste rinunce, le condizioni di lavoro più flessibili e le altre liberalizzazioni, nella maggior parte dei casi sono servite a migliorare di molto i bilanci aziendali e a fare la fortuna degli investitori. Quindi, questa parte della promessa ha funzionato decisamente bene. Mai fino ad ora le aziende avevano fatto così tanti soldi come oggi. Gli azionisti non erano mai stati così ricchi come dai tempi dei grandi riformatori del libero mercato Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

Sembra anche che abbia funzionato bene il fatto che quà e là le aziende abbiano creato diversi nuovi posti di lavoro, grazie ai buoni profitti e a tutte le nuove opportunità di assumere le persone per un breve periodo, pagandole un tozzo di pane. Almeno la disoccupazione nei primi paesi ad aver implementato le riforme, cioè gli Stati Uniti e il Regno Unito, è a livelli storicamente bassi, come da noi. Anche in Francia e in Italia è diminuita in maniera significativa. Almeno Ufficialmente.

Il problema è che qualcosa non sembra essere andato in maniera giusta, almeno se misurato da quanto la situazione quasi ovunque sia politicamente preoccupante. E di come le avvisaglie della crisi siano arrivate prima negli Stati Uniti e poi nel Regno Unito, cioè dove la "battaglia finale del mercato" è stata praticata con piu' energia. Nel frattempo pero' si comincia a sospettare che tutto ciò sia dovuto ai difetti del bel modello economico:

- le aziende, nonostante tutti i grandi guadagni, non hanno mai investito cosi' poco in una ripresa futura come hanno fatto questa volta - ciò potrebbe avere a che fare con il fatto che questa volta a causa della riduzione dei redditi e della insicurezza economica manca la prospettiva di una crescita della domanda interna.

- con tutta la nuova pressione, la concorrenza dei lavoratori a basso costo e la perdita di influenza dei sindacati, nel lungo periodo non sono ipotizzabili grandi aumenti salariali. Secondo i rapporti dell'Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), i salari da anni quasi ovunque nei paesi industrializzati crescono ad un ritmo storicamente molto basso; nel Regno Unito e in Italia, le persone in media, tenendo conto dell'inflazione, guadagnano meno di quanto non guadagnassero prima della crisi del 2008.

- una parte significativa delle persone questi aumenti salariali non li ha nemmeno visti - e in alcuni casi in termini reali oggi guadagnano ancora meno di dieci o venti anni fa; fatto ancora più vero per gli Stati Uniti.

- a causa della forte mobilità e flessibilità è aumentata drammaticamente l'incertezza dei lavoratori e la possibilità di perdere improvvisamente una parte significativa del reddito durante la loro vita professionale  - fatto che secondo la diagnosi dell'economista Tom Krebs di Mannheim conduce inequivocabilmente al fatto che molte persone a causa della loro frustrazione abbiano scelto i populisti. Parole chiave: paura  del declino economico.

Tutto ciò è esattamente l'opposto di quello che i papi del riformismo avevano promesso: e cioè che alla fine tutti ne avrebbero beneficiato. E ciò potrebbe anche spiegare il motivo per cui anche in Germania, dove i criteri comuni per la valutazione del successo economico - una crescita costante con un calo della disoccupazione - sembrano essere perfetti, il risentimento sia così grande. E perché a votare AfD e gli altri populisti non ci siano solo i poveri e i disoccupati. Oppure i partiti di destra vanno molto meglio laddove la pressione della globalizzazione era (ed è) sensibilmente più alta - e in particolare laddove sono in molti ad avere l'impressione di aver perso il controllo sul proprio destino. E perché Donald Trump nel 2016 ha vinto soprattutto in zone come la vecchia regione industriale della "Rust Belt", dove la gente da un giorno all'altro ha visto la propria sopravvivenza minacciata.

Questo potrebbe anche spiegare il motivo per cui oggi in Italia governano i populisti - dopo che quelli che in precedenza avevano riformato così bene sono caduti in disgrazia, e perché il popolo non ha avuto la sensazione, anche dopo anni di riforme varie, che presto a tutti le cose sarebbero potute andare meglio.

E perché anche il giovane e smart Emmanuel Macron ora venga travolto da quello che era già successo anni fa a Schroeder, Blair e Renzi: che sì hanno fatto battere a mille i cuori dei fondamentalisti dell'economia, ma proprio per questo motivo si sono trovati al capolinea politico. E da allora politicamente la situazione si è fatta difficile.

Se ciò è vero, allora c'è  urgente bisogno di una comprensione completamente nuova di ciò che è buono oppure no: una politica che consenta agli imprenditori del paese di mettere in pratica idee e guadagnare abbastanza da poter investire e creare nuovi posti di lavoro - non come un fine in se stesso, o come qualcosa che porta ad un collasso politico a causa dei vari effetti collaterali.

Nel mix dei criteri per fare una buona politica quindi non dovranno esserci solo le solite cianfrusaglie economiche, ma anche quanto può essere considerato adeguato questo o quel pacchetto di riforme per riconciliare e tenere unita la società. E poi fra le riforme significative c'è quella di fare in modo, senza alcun dubbio (e non come possibile consequenza tardiva), che il maggior numero possibile di persone ne possa beneficiare - se ciò non dovesse avvenire in maniera automatica.

Allora potrebbe valere la pena consultare un po' più spesso gli psicologi in merito al livello di insicurezza e perdita di controllo, causati dagli appelli alla competività, alla concorrenza e alla mobilità, che può essere sopportato dall'animo umano. Se l'esemplare medio del nostro genere è sopraffatto da così tanti sconvolgimenti, perché dovrà nutrire una famiglia e pagare una casa, e quindi non potrà nemmeno spostarsi in qualche altro luogo per trovare un lavoro; diversamente da quanto è scritto nei libri di testo.

Quello che da un paio di decenni viene predicato nei modelli dell'ortodossia economica, semplicemente potrebbe non funzionare con il modello standard di uomo medio. Sia che si tratti della versione francese, italiana o tedesca.