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mercoledì 7 agosto 2024

La Lezione delle Stazioni di Ricarica ovvero il fallimento del neoliberismo

Washington ha recentemente speso ben 7,5 miliardi di dollari per costruire stazioni di ricarica per veicoli elettrici. E il risultato? Solo sette stazioni sono state effettivamente costruite. Questo fallimento è solo un esempio di cosa significa operare sotto un sistema economico neoliberista. Ne scrive Makroskop.eu

La Differenza con la Cina

Quando la Cina decide di sussidiare le stazioni di ricarica per veicoli elettrici, queste vengono effettivamente costruite. Anche se trovare dati precisi può essere difficile, si stima che la Cina abbia investito circa 10 miliardi di dollari in questo settore. E il risultato è sorprendente: oltre sette milioni di stazioni di ricarica, di cui 2,2 milioni sono pubbliche. In confronto, negli Stati Uniti ci sono solo 186.200 stazioni.

Ma la Cina non si ferma qui. I veicoli elettrici cinesi, venduti a prezzi tra undicimila e dodicimiladollari, sono molto più economici rispetto ai loro equivalenti occidentali, dove i prezzi possono essere molto più elevati. Se desiderate acquistare un veicolo elettrico economico, dovrete scoprire come importarlo dalla Cina, un’impresa difficile nella maggior parte dei paesi occidentali.

tassazione redditi da capitale germania

Il Contrasto con l’Occidente

È quasi paradossale che gli Stati Uniti stiano progettando di imporre dazi del 100% sui veicoli elettrici cinesi. Anche con tali dazi, questi veicoli sarebbero ancora più economici rispetto ai modelli venduti negli Stati Uniti e i produttori cinesi ci guadagnerebbero comunque. Tuttavia, ottenere veicoli cinesi in America rimane una sfida complessa.

Recentemente, un giornalista occidentale specializzato in auto elettriche ha viaggiato in Cina per testare i modelli cinesi. La sua conclusione? Le auto elettriche cinesi sono, contro ogni aspettativa, migliori e più economiche rispetto a quelle occidentali.

Il Neoliberismo e la Politica Industriale

Questo esempio delle stazioni di ricarica illustra un problema più ampio: il neoliberismo non consente una politica industriale efficace, né una guerra economica sostenibile. La Russia, ad esempio, ha aumentato significativamente la produzione di armi e munizioni durante il conflitto in Ucraina, mentre l’Occidente non è riuscito a fare altrettanto.

La spesa di Washington di 7,5 miliardi di dollari per sole sette stazioni di ricarica non è solo incompetente; è corruzione. Anche se in Cina e in Russia la corruzione è elevata, non si avvicina nemmeno alla corruzione che pervade gli Stati Uniti e l’Europa. In Cina, la corruzione è spesso “onesta” – significa che, se viene promessa una certa quantità di beni, questi vengono prodotti effettivamente.

La Corruzione Neoliberista

La corruzione che si manifesta nelle stazioni di ricarica americane è una diretta conseguenza del neoliberismo, che favorisce i guadagni immeritati. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei mercati azionari e immobiliari. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i mercati azionari erano relativamente stabili, ma con l’avvento del neoliberismo negli anni ’80, hanno visto una crescita inarrestabile, nonostante il PIL non fosse aumentato proporzionalmente. La crescita dei mercati azionari è stata principalmente il risultato delle politiche della Federal Reserve, non di una migliore performance economica.

L’Illusione dei Profitti Senza Prestazioni

Nel neoliberismo, i profitti senza prestazioni si estendono oltre i mercati immobiliari e azionari, influenzando quasi tutto. I margini di profitto sono esplosi e le aziende competono per creare oligopoli o monopoli anziché concentrarsi su prezzo o qualità. Questo comportamento è stato esemplificato dall’aumento dei prezzi durante la pandemia, che ha superato l’aumento dei costi.

La Crisi del Neoliberismo

Il neoliberismo si basa sul guadagno immeritato: guadagni di capitale, trading ad alta frequenza con l’IA e la creazione di monopoli. Questo approccio porta a un sistema in cui il capitale viene accumulato senza una reale produzione di beni. È un sistema che premia la speculazione piuttosto che la produzione di beni reali e utili.

La Strada da Percorrere

Le economie occidentali devono reinventarsi per essere competitive. L’introduzione di dazi, sebbene non sia una cattiva idea, non è sufficiente. Se non cambiando la nostra politica economica e ideologica – che deve puntare sulla produzione di beni di alta qualità a basso costo per migliorare la vita della maggioranza – non saremo mai in grado di competere con la Cina.

La Cina, pur con i suoi difetti, dimostra che è possibile applicare una politica vantaggiosa per la maggioranza, anche a costo di danneggiare i ricchi. In Occidente, la situazione è diversa, e finché non cambiamo il nostro approccio, resteremo indietro.

In sintesi, il neoliberismo ha creato un sistema in cui la corruzione e i profitti immeritati prevalgono su una politica industriale efficace e una produzione realistica di beni. Per competere con successo, dobbiamo ripensare completamente il nostro modello economico e ideologico.

martedì 11 dicembre 2018

Die Welt: brutte notizie per la Germania, ora dovrà gestire un'altra Italia

Per il prestigioso quotidiano di Amburgo il discorso di Macron di lunedi' sera segna il definitivo spostamento dell'equilibrio interno all'unione monetaria in favore del Club Med (Spagna e Italia). L'uomo di Berlino a Parigi, il giovane Macron, ha deluso le aspettative dei neoliberisti tedeschi, come era accaduto con Renzi in Italia, e ora i tedeschi dovranno capire come sarà possibile gestire un'altra Italia nella stessa unione monetaria. Ne scrive su Die Welt Olaf Gersemann, responsabile sezione economia nonché commentatore di spicco.


In Germania, il salario minimo legale è di 8,84 euro all'ora. E i malumori per il passaggio a fine anno a 9,19 euro sono relativamente pochi - dopotutto il paese si sta dirigendo verso la piena occupazione, almeno fino a quando l'attuale fase di crescita non porterà ad una recessione.

In Francia il salario minimo legale è molto più alto, 9,88 euro l'ora, e anche la disoccupazione è molto più alta - nel confronto europeo la Francia è al quarto posto, solo Grecia, Italia e Spagna riescono a fare peggio.

Se all'Eliseo ci fosse un riformatore con qualche ambizione, saprebbe cosa fare: assicurarsi che il salario minimo aumenti solo modestamente o, nel migliore dei casi, per niente. Non sarebbe una condizione sufficiente, ma comunque necessaria affinché la disoccupazione possa almeno iniziare a scendere in maniera simile a quanto accade su questa sponda del Reno.

Emmanuel Macron tira fuori le pistole. Per settimane, i giubbotti gialli hanno imperversato in Francia, lunedì sera, il presidente francese ha risposto con un discorso televisivo. Quella sarebbe stata l'occasione per contrastarne gli eccessi. Quella era l'occasione giusta per passare all'offensiva, per proporre la visione di una Francia prospera che richiede anche dei sacrifici da parte dei suoi cittadini sulla strada necessaria per raggiungere l'obiettivo.

Macron non solo ha perso un'opportunità. Ma ha legittimato le rivolte ex-post proclamando lo "stato di emergenza economica e sociale" e strisciando incontro alla folla che incendia le auto di piccola cilindrata.

Aumento del minimo salariale di quasi il sette per cento

La più simbolica delle sue concessioni: il salario minimo dovrebbe salire di 100 € al mese. Cioè, in un colpo solo, un aumento pari a tutti gli aumenti degli ultimi sei anni messi insieme. Il salario minimo salirà di quasi il sette percento, a 10,54 euro all'ora.

Che la disoccupazione in seguito a questo aumento rischia di crescere ancora, lo sa bene anche Macron. Ecco perché dovrebbe essere lo stato a pagare i 100 euro. Tra le altre cose, è disposto anche ad accettare il superamento da parte della Francia del limite di deficit del 3% in rapporto al PIL fissato dai criteri di Maastricht; Parigi nel 2017, per la prima volta a partire dal 2007, aveva rispettato il criterio unicamente grazie alla politica dei tassi a zero della BCE. Devi essere davvero cinico allora, se pensavi di rimettere in questo modo la Francia "En Marche" - in movimento.

La speranza è sempre stata quella che Macron potesse trasformarsi nel Gerhard Schröder francese: un uomo che, se necessario, avrebbe messo in pericolo il suo mandato pur di riuscire a fare la giusta politica economica. Invece Macron si è fatto piccolo ed è diventato la versione francese di Matteo Renzi. Il primo ministro italiano è stato presidente del consiglio dal 2014 al 2016, anche lui era di bell'aspetto, giovane e dinamico, e a suo tempo prometteva le stesse cose di Macron: formule magiche senza effetti collaterali.

Alla fine l'Italia, lungo la strada che porta alla bancarotta dello stato, ha perso solo del tempo prezioso. Ad avvantaggiarsene politicamente sono stati i ciarlatani dell'estrema destra e dell'estrema sinistra che ora a Roma dirigono le operazioni.

Brutte notizie per la Germania

La Francia, un paese che in realtà avrebbe ancora il potenziale economico per contendere alla Germania il primo posto in Europa, ora rischia di inciampare dietro all'Italia lungo la strada che porta in terza divisione. Difficilmente potrà permettersi un altro presidente conciliante: la lenta e strisciante caduta del paese, a partire dalla crisi finanziaria ha subito un'accelerazione e ora rischia di trasformarsi in una retrocessione permanente.

Per la Germania si tratta di una brutta notizia. Economicamente. Ma anche politicamente. Già al culmine della crisi dell'euro, in considerazione del suo peso economico, è sempre dipeso tutto dalla Francia: se Parigi sta dalla parte di Berlino, si può evitare che l'unione monetaria finisca sotto l'influenza del Club Med informale guidato da Italia e Spagna e scivoli nell'unione di trasferimento. D'altra parte, se Parigi si mette dalla parte di Italia e Spagna - o se rimane neutrale - allora l'intera costruzione si ribalta.

Per 15 mesi la Berlino politica si è occupata maniacalmente del modo in cui si poteva rispondere alle proposte di riforma dell'euro e dell'Europa, presentate da Macron nel settembre 2017 subito dopo le elezioni tedesche in occasione del discorso alla Sorbonnne di Parigi. Proposte che fondamentalmente mirano a spillare il denaro e la sovranità dei contribuenti tedeschi.

Memori della performance di Macron nella disputa sui gilet gialli, ora a Berlino ci si potrà occupare con fiducia di altre cose. Cose più urgenti. La questione consiste esattamente nel modo in cui si dovrà gestire una situazione in cui la Germania all'interno dell'Unione monetaria e nell'UE, non avrà piu' a che fare con una sola Italia. Ma con due.


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domenica 27 novembre 2016

Trump e i turbamenti dell'establishment tedesco

Ricevo da Claudio e molto volentieri pubblico. Ottima traduzione di un illuminante articolo pubblicato qualche giorno fa da RT Deutsch sulle reazioni dell'establishment tedesco dopo l'elezione di Trump. Grazie Claudio per la traduzione!


Le reazioni del mainstream tedesco in seguito alla vittoria elettorale di Donald Trump sono particolarmente significative, in quanto palesano il fatto che la Germania non sia semplicemente un vassallo degli Stati Uniti, bensì un componente essenziale del Neoliberalismo

Jean-Jacques Rousseau, uno dei grandi illuministi europei, fu colui che attribuì all'ultima regina di Francia Maria Antonietta la frase “Se non hanno più pane, che mangino brioche1!”, che sarebbe stata pronunciata proprio alla vigilia dello scoppio della Rivoluzione Francese.

Questo motto è divenuto un'icona linguistica per rimarcare la distanza tra le élite e le masse da loro governate; esprime l'ignoranza nei confronti delle esigenze e degli avvenimenti da parte di una classe dirigente immobilizzatasi nel proprio solipsismo, e che generalmente è l'elemento che fa sprigionare l'evento storico della rivoluzione.

Non è invece archiviabile come mera leggenda il fatto che fu Maria Antonietta a optare per una soluzione militare e che fece sfociare gli Stati Generali in un colpo di stato. Il risultato fu un acuirsi delle tensioni che accelerò lo sgretolamento dell'Ancien Régime. Anche in questo caso l'élite riteneva possibile ripristinare l'ordine (da non confondere con la pace) attraverso un intervento militare, nonostante l'inadeguatezza di tale strategia diventasse sempre più evidente con il passare dei giorni: non ci vuole una laurea in Psicologia per comprendere le dinamiche di tale meccanismo.

Eppure, anche nel caso in cui i paralleli con il presente risultino innegabili, la storia non si ripete mai in modo identico. La cognizione circa la dissociazione tra le élite occidentali e la vita quotidiana della maggioranza delle persone è ancora oggi, di nuovo, un tema decisivo. E la sensazione di trovarsi alla vigilia di un nuovo ordine mondiale è stata ulteriormente rafforzata dopo l'elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti. È in questi momenti di sconvolgimento dell'ordine vigente che si manifestano apertamente le fondamenta e l'impalcatura sulle quali poggia l'ordine stesso. Per un istante gli effetti speciali del palcoscenico si inceppano e, nel frattempo, diventa visibile il meccanismo che è adibito alla riproduzione artificiosa della realtà. Questo è quanto è avvenuto quel mercoledì mattina, quando sono diventati definitivi i risultati delle elezioni americane. Questi momenti di scombussolamento si stanno verificando sempre più spesso: la loro frequenza aumenta e ciò indica che qualcosa alla base non funziona più correttamente.

Attraverso il turbamento nella struttura ordinaria dello schema politico generato dal risultato elettorale americano si è potuto riconoscere per un momento il vero volto dell'establishment tedesco. Il rimprovero più volte sollevato nei confronti della Germania, ossia di essere un vassallo degli Stati Uniti, deve essere questa volta sospeso, in considerazione della reazione aggressiva dei politici e dei media mainstream.

Il ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen esige da Trump una dichiarazione di lealtà riguardo l'alleanza NATO, la Merkel lancia ammonizioni circa il rispetto dei diritti umani e confonde per l'ennesima volta il concetto di identità sessuale, che nulla ha a che vedere con i diritti umani, professando con ciò la sua ignoranza a riguardo. Il populista (in materia economica), nonché Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble si mostra preoccupato per l'indipendenza della FED – la Banca Centrale americana – e, a sua volta, mette in guardia dai populisti. Il Ministro degli Esteri Franz-Walter Steinmeier, che viene proposto come candidato per la carica di Presidente Federale, perde il proprio aplomb diplomatico e per il momento non si congratula per la vittoria elettorale, screditandosi per un qualunque incarico che richieda un certa discrezione. Probabilmente otterrà ugualmente quella carica, giacché, in definitiva, in un Ancien Régime non sono le qualifiche a risultare determinanti, bensì la rete di conoscenze.


Ad ogni modo cosa rivelano questi atteggiamenti inauditamente aggressivi da parte del mondo della politica?

L'ultima copertina dello Spiegel raffigura Trump come una meteora impazzita diretta contro la Terra e annuncia la fine del mondo (come noi lo conosciamo), lo Stern tratteggia un futuro a tinte fosche, lo Zeit non perde l'occasione di imprecare contro gli elettori, il Süddeutsche Zeitung riproduce un respiro agonico, mentre lo Springer Verlag impiega una buona mezza giornata prima di riprendersi, poi però il massacro parte anche lì.
Dopo quasi un anno di resoconti apocalittici sulle elezioni statunitensi, che toccarono l'apice preconizzando un disastro, i media non si sono fermati un attimo mantenendo imperterriti la loro scadente qualità e tentando addirittura di abbassare ancor di più il loro già squallido livello di giornalismo.


Cosa può spiegare questa follia mediatica?

Improvvisamente ai rappresentanti della politica e dei media saltano in mente fatti relativi agli USA che sarebbero stati liquidati come americanismo da strapazzo qualora fossero stati pronunciati solo due settimane prima.


Cos'è successo?

Di attinente con i fatti che si sono verificati o con quanto Trump farà non c'è assolutamente nulla, e in definitiva la campagna elettorale è stata condotta in modo indegno e non certo come una discussione o uno scambio argomentativo. C'è un programma elettorale e un breve discorso in cui Trump, all'indomani delle elezioni, ringrazia i propri elettori e finanche Hillary Clinton per il suo impegno in favore degli Stati Uniti, annunciando la sua volontà di riappacificare i partiti e di essere il Presidente di tutti gli americani. Professa di voler istituire un governo al servizio dei cittadini e annuncia un vasto programma per le infrastrutture, un progetto di crescita nazionale. Parimenti la sua politica estera è improntata alla riconciliazione: Trump vuole certamente perseguire gli interessi degli Stati Uniti mantenendo tuttavia un atteggiamento collaborativo e non ostile nei confronti degli altri Paesi. Ma in realtà lui non aveva mai dichiarato nulla di diverso; stona con l'immagine di psicopatico con cui era stato dipinto e risulta invece essere alquanto ragionevole. “Gli uomini e le donne finora dimenticati non saranno più abbandonati a sé stessi” è la chiosa passionale del suo breve discorso.

Cos'è allora che ha fatto scattare questa furia insensata da parte della politica e dei media tedeschi?Cosa ha indotto i telegiornali che avevano accompagnato in modo orribilmente grottesco le elezioni americane a pubblicare a quattro giorni di distanza dal risultato degli scrutini un articolo in cui si tenta di collegare la vittoria di Trump a un rigurgito di violenza razzista negli Stati Uniti? Nessuna testata giornalistica seria si lascerebbe mai scappare un'affermazione del genere perché nessuna fonte sufficientemente attendibile sarebbe in grado di dimostrarla.

La ricerca va condotta, come al solito, su quanto non viene detto. C'è un particolare della campagna elettorale di Trump che non è stato discusso qui in Germania: il neo presidente aveva annunciato di voler ripristinare posti di lavoro negli Stati Uniti, lanciando in questo modo il guanto di sfida alla Cina. L'agenda politica di Trump prevede dazi doganali e la Cina, come è noto, produce più di quanto consuma; la sua imponente crescita economica degli ultimi anni è dovuta, in larga parte, proprio all'export. Ciò nonostante, ultimamente sta facendo sempre più affidamento sul suo immenso mercato interno, distanziandosi progressivamente dal modello di crescita incentrato sulle esportazioni.

Nel globo terracqueo vi è però un altro Paese che ha promulgato a più non posso questo modello economico, sui cui media il titolo “Campioni del mondo dell'export” viene venerato come il vitello d'oro. Trump è stato il primo presidente americano dopo la Seconda Guerra Mondiale ad aver osato mettere in discussione il paradigma economico tedesco, ritenuto “asociale2” nei confronti del resto del mondo; tale modello consiste, in poche parole, nel contenere i salari nel tentativo di aumentare la produttività, affinché i beni possano essere esportati più facilmente all'estero. Questo però comporta inevitabilmente anche “un'esportazione di disoccupazione”: in questo modo la Germania sta promuovendo la disgregazione dell'Unione Europea (in particolare dell'Eurozona) e si ritrova ormai sul banco degli imputati a causa del suo surplus, che, da un lato, sta compromettendo il benessere degli altri Paesi e, dall'altro, produce un tipo di crescita che richiede inevitabilmente l'esclusione dei dipendenti salariati dai profitti generati, altrimenti il modello di crescita economica andrebbe in tilt.


Con Trump gli accordi internazionali liberistici come il TTIP vengono meritoriamente messi in soffitta.


L'arrivo di Trump rende però anche visibile ciò che finora era rimasto nascosto. Le élite tedesche non sono semplicemente un vassallo degli Stati Uniti, bensì un motore fondamentale di quel consesso che vorrebbe far attecchire in ogni angolo del pianeta la forma attuale di Neoliberalismo. Lo si può notare dal modo in cui salutano la conseguente militarizzazione e la frattura della società. Tale consenso annovera personaggi provenienti dall'intero spettro politico e mediatico: in ogni partito e in tantissimi mezzi di informazione ci sono singoli elementi che perseguono un certo tipo di politica, e nel complesso tutti i partiti e la totalità del sistema mediatico condividono l'agenda neoliberale.

Grazie a Trump è inoltre visibile quanto le élite tedesche abbiano subordinato il pensiero politico in favore delle Relazioni Pubbliche e del Marketing. Da tempo, ormai, non c'è più traccia – e questo ormai lo percepiscono e lo sanno in molti – di una ricerca di alternative e di un compromesso per il bilanciamento degli interessi di tutti i gruppi sociali in gioco; al contrario si procede con la propaganda più convincente possibile di una presunta mancanza di alternative a scapito della maggioranza delle persone. Tutto ciò non è più accettabile.

Gli sconvolgimenti scatenati dalle elezioni americane mostrano anche che in Germania non c'è un'alternativa di sinistra ad un Donald Trump. La sinistra, in seguito alla pressione derivante dalla caduta dell'Unione Sovietica negli anni '90, ha smesso di sollevare la questione della ridistribuzione dei profitti, per rincorrere quella della partecipazione e dell'inclusione. In termini cromatici, bandiere arcobaleno al posto di bandiera rossa. Questo è stato un errore madornale, ormai difficilmente lo si può negare. Gli Antifa sventolano bandiere in una dimostrazione anti Trump davanti all'Ambasciata di Berlino e reclamano pace e il rispetto dei diritti umani. L'imbarazzo, la goffaggine e l'inconsapevolezza che quelle immagini esprimono a livello psicologico fanno male. La sinistra in Germania assomiglia a un piccolo conglomerato conforme al sistema. Grazie a Trump si verificherà un maggior numero di rivendicazioni degne della vera sinistra rispetto a quanto è stato fatto sotto Obama o quanto si sarebbe fatto con la Clinton.

La Germania, i suoi partiti e le sue corporazioni svolgono un ruolo centrale in seno al progetto neoliberale di riorganizzazione del mondo. In quest'ottica la reazione al voto americano diventa facile da interpretare. Si capisce come mai la notizia che il presidente venturo voglia cercare di conciliarsi con la Russia scateni quest'ondata di panico. Per un istante il telone è stato stracciato: pace e accordi con la Russia? Per il ministro della Difesa tedesco, per i politici di ogni partito, per gli articolisti, per gli Antifa, per i gruppi di sinistra, per tutti loro ciò rappresenta un pensiero raccapricciante. Molto meglio lasciare in piedi l'attuale aggressione strutturale.

L'immagine della Russia malvagia, che allunga la sua mano in direzione della pacifica Europa, è stata amplificata. Attribuirle un ruolo così nefasto e minaccioso significa essere spiccatamente disinformati circa gli sviluppi verificatisi nella Federazione Russa; la Russia sta sviluppando assieme ad altri Stati un'imponente rete di progetti all'impronta della collaborazione reciproca: i BRICS, le nuove vie della seta, l'unione doganale e il gruppo di Shanghai dovrebbero essere usati come semplici rimandi a concetti o realtà ben note. E quindi, invece di perseguire questo progetto tutt'altro che irrilevante, alla Russia salterebbe ora in testa l'idea di invadere militarmente la Lituania... non poteva esserci argomento più ridicolo. Il guaio è che questo è il livello della discussione politica in Germania.

In fondo i Tedeschi dovrebbero applaudire un Presidente americano che non ha intenzione di ridurre in cenere nucleare l'Europa; la Clinton sarebbe stata pronta a ciò. Dovrebbero acclamare chi osteggia apertamente il TTIP; la Clinton non avrebbe invece mollato la presa. Dovrebbero schierarsi dalla parte di chi vuole evitare la guerra; la Clinton invece – come ha fatto anche Obama – avrebbe calpestato ogni diritto internazionale pur di attenersi ad un'idea di America che sovrasta gli altri popoli e le altre nazioni.

Ma il fatto che ciò non accada, simbolo di un'evidente ignoranza politica del popolo tedesco, è assai preoccupante.

L'ultima regina di Francia Maria Antonietta aveva origini tedesche. D'altronde lo stesso valeva per la zarina russa Caterina la Grande; il suo nome incarna il fiorire della cultura e del sentimento nazionale russo. La recente tornata elettorale ha dimostrato che la Germania deve decidersi: in questo momento essa si trova avvinghiata all'agenda neoliberale, ponendosi pertanto in modo molto esplicito contro ogni progetto che miri alla pacificazione. Ma la posizione della Germania è sempre più isolata. Dobbiamo veramente attenerci al copione? Di nuovo “Deutschland über alles”? Così non può funzionare.

1 Si tratta ovviamente di una traduzione libera in quanto l'articolo originale riporta: “Se non hanno il pane perché non mangiano torte?”



2 A mio giudizio il termine tedesco asozial ha una valenza connotativa difficilmente traducibile in italiano (cfr. il suo impiego, nell'Umgangssprache, per descrivere gli atteggiamenti e i comportamenti di un particolare strato socio-culturale della società tedesca).