giovedì 22 novembre 2018

La tragedia italiana secondo Hans Werner Sinn

Hans Werner Sinn, anche se ormai da qualche anno in pensione, non si fa sfuggire l'occasione per commentare sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung la situazione italiana. Per il brillante economista tedesco gli italiani con i loro ricatti cercheranno di spillare quanti piu' soldi possibili ai "partner europei", ma l'ultimo atto di questa tragedia sarà l'uscita dalla moneta unica. Dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung (prima parte)

Hans Werner Sinn
Hans Werner Sinn

Si può discutere dell'attuale disputa fra UE e Italia in chiave moraleggiante e condannare i presunti eccessi italiani. Questo conflitto tuttavia può anche essere interpretato come il risultato di azioni sconsiderate di messa in comune che hanno causato dei gravi danni all'integrazione europea.

Il debito pubblico italiano è da sempre elevato e nelle banche italiane sonnecchiano da tempo delle enormi riserve di crediti deteriorati. La Commissione europea già da molti anni avrebbe dovuto regolare le banche in maniera più' severa e limitare i titoli del debito pubblico, ma non lo ha fatto. Che ora improvvisamente si agiti per un rapporto deficit/pil del 2,4 % è dovuto piu' che altro al fatto che i nuovi partiti euro-scettici in Italia si sono profilati come i concorrenti del vecchio establishment politico. E ora si vuole fare del paese un esempio per educare tutti gli altri. Dopo il rifiuto da parte del governo italiano di ridurre il deficit di bilancio, la Commissione europea potrebbe imporre delle multe pesanti. L'Italia tuttavia non sembra avere alcuna intenzione di pagare per queste sanzioni e cerca invece lo scontro aperto. Non viene piu' nemmeno invocata una soluzione amichevole. Il governo italiano è stato eletto per adottare misure radicali. E dalla popolazione italiana sarà valutato in base alla capacità di essere all'altezza di queste aspettative.

La storia dell'Italia nell'euro è una storia di crediti e garanzie pubbliche, di garanzie messe in comune e di sovvenzioni attraverso le quali il paese è stato tenuto a galla. Tutti questi aiuti hanno agito come farmaci che calmavano i mercati finanziari e la popolazione. Ma non hanno contribuito a risolvere i problemi strutturali del paese. Hanno invece distrutto la competitività dell'Italia e aumentato la dipendenza del paese dal debito.

Già nei primi anni '90 lo stato italiano si è trovato vicino alla bancarotta. Il debito pubblico si attestava infatti al 120% del PIL e l'Italia doveva pagare più del 12% di interessi sui titoli di stato decennali. L'onere per gli interessi era insopportabile, il collasso dello stato sembrava inevitabile. Si faceva nuovo debito per pagare i vecchi debiti e anche una parte degli interessi. L'euro è stato quindi introdotto per ridurre l'onere sugli interessi. I tassi di interesse italiani infatti in previsione dell'introduzione dell'euro in quegli anni diminuivano di circa cinque punti percentuali, avvicinandosi al livello tedesco. Senza dare troppa importanza alla clausola di no-bailout del Trattato di Maastricht, gli investitori erano convinti che i paesi della zona euro sarebbero stati comunque protetti contro una bancarotta dello stato. Si presumeva che l'Italia avrebbe potuto stampare da sé il denaro per estinguere i propri debiti o che gli altri paesi avrebbero aiutato direttamente l'Italia, cosa che poi è accaduta realmente in seguito.

Per lo stato italiano l'euro è stato almeno inizialmente una benedizione. La valuta comune ha fatto risparmiare così tanti interessi che con quei soldi l'Italia avrebbe potuto tranquillamente eliminare l'IVA. Se l'Italia avesse usato i bassi tassi di interesse risparmiati per rimborsare i propri debiti, il rapporto debito/PIL oggi sarebbe ben al di sotto del 60%. Ma l'Italia ha agito diversamente. Lo stato non solo ha speso tutto il taglio dei tassi d'interesse, ma ha sfruttato anche l'opportunità per fare altro debito. Il doppio incremento della spesa pubblica ha generato una domanda aggregata che ha fatto aumentare i prezzi italiani più velocemente rispetto a quanto accadeva nel resto dell'area dell'euro. Dal 1995, anno in cui si è deciso di introdurre l'euro, fino allo scoppio della crisi Lehman di dieci anni fa, l'Italia, compreso un apprezzamento iniziale della lira, è diventata del 40 % più cara rispetto alla Germania, usando come indice i prezzi dei beni auto-prodotti, rilevante nelle questioni relative alla competitività. Nessun paese può sopravvivere a un simile "apprezzamento reale" senza subire dei danni.

L'apprezzamento è stato sostenibile fino a quando il mercato dei capitali è stato disponibile a finanziare il crescente deficit di conto corrente italiano. Ma quando il mercato dei capitali dopo la bancarotta di Lehman ha smesso di farlo, i tempi apparentemente buoni sono finiti, e l'Italia è crollata. La perdita di competitività è emersa senza pietà. La disoccupazione è salita a circa il 12% e la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli superiori al 40%. Al netto, dopo aver dedotto le nuove società, un quarto delle imprese attive nell'industria manifatturiera è fallita. E' comprensibile che i nervi degli italiani oggi siano scoperti e non ne vogliano sapere piu' nulla dell'UE: solo il 43% vuole rimanere ancora nell'UE, meno che in qualsiasi altro paese.

Anche negli altri paesi dell'Europa meridionale l'euro non ha funzionato molto bene. Come mostra la tabella qui sotto, nell'ultimo decennio, nessun paese dell'Europa meridionale è riuscito a riportare la produzione industriale al livello raggiunto all'inizio della crisi finanziaria. Mentre i paesi di lingua tedesca hanno superato la crisi rapidamente e ora sono del 9 % (Germania) e del 18 % (Austria) al di sopra del livello pre-crisi, l'Italia ha perso il 17 %. La Francia, i cui mercati di sbocco si trovano nel sud e le cui banche hanno prestato molto denaro in quei paesi, ha registrato un calo del 9% rispetto ai livelli pre-crisi.


Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, come riferito dall'ex direttore della BCE Lorenzo Bini Smaghi, già durante la recessione del 2011 aveva condotto dei negoziati segreti per far uscire l'Italia dalla zona euro. Lo stesso aveva fatto all'epoca il primo ministro greco Papandreou, come da lui confermato nel 2016 a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera. Entrambi volevano far tornare competitivi i loro paesi tramite una svalutazione. Ma sono stati costretti dalle banche e dalle presunte forze dell'UE ad abbandonare i loro incarichi prima che potessero realizzare i loro progetti. Entrambi si sono dimessi nella stessa settimana alla fine del 2011. In Grecia, poi è andato al potere un governo di sinistra. In Italia i presidenti del consiglio Monti, Letta, Renzi e Gentiloni hanno provato a fare le riforme, ma hanno ottenuto poco o nulla - comunque niente che abbia potuto far voltare pagina all'industria italiana.

La politica europea durante la crisi non si è fondata sulle riforme strutturali dell'Eurosistema, ma sui salvataggi finanziari. Con tali salvataggi, infatti, sono state salvate in primo luogo le banche e gli investitori francesi, tedeschi e degli altri paesi. I salvataggi sono iniziati con gli scoperti di conto sui saldi Target, che Banca d'Italia ha approvato come se si trattasse di un'azione di auto-aiuto. Poi è arrivato il "Securities Markets Program" della BCE, che a partire dall'estate del 2011 ha costretto le banche centrali del nord ad acquistare titoli di Stato italiani. Poiché  per i mercati questo non sembrava essere abbastanza, nel 2012 è arrivata la promessa da parte del presidente della BCE Mario Draghi („Whatever it takes“), promessa che ha trasformato implicitamente i titoli di stato dell'eurozona in eurobond e ha spostato sui contribuenti europei il peso delle garanzie senza chiedere la loro opinione. Il fondo di salvataggio permanente ESM ha completato la promessa di protezione. Nel 2015 poi è arrivato il programma di "quantitative easing" della BCE, all'interno del quale sono stati acquistati titoli di Stato dei paesi euro per un valore di 2.100 miliardi di euro, dei quali il 17 per cento è attribuibile al riacquisto di titoli di stato italiani da parte di Banca d'Italia. Questa azione ha catapultato il saldo target di Banca d'Italia al valore di 490 miliardi di euro.

Tutti questi programmi hanno fatto in modo che gli investitori francesi e del nord Europa non perdessero i loro soldi rendendo la vita nel Sud appena sopportabile, ma allo stesso tempo hanno anche danneggiato l'industria italiana, in quanto hanno reso possibili dei salari troppo elevati in rapporto alla produttività, salari cresciuti durante la bolla pre-Lehman. Chi ritiene che il nuovo surplus delle partite correnti italiano possa dimostrare che il paese ha superato la fase piu' difficile trascura il fatto che questo surplus è dovuto quasi esclusivamente al crollo delle importazioni causato dalla crisi e dalla riduzione dei tassi di interesse sul debito estero.

La bugia sul "tempo per fare le riforme" che si sarebbe potuto comprare con gli aiuti finanziari si è rivelato per quello che era fin dall'inizio: un trucco di pubbliche relazioni pensato da politici con una visione di breve periodo che avevano come obiettivo quello di rinviare le dolorose ma necessarie riforme dell'eurosistema. Il fallimento dei programmi di aiuto mostra molto chiaramente il fallimento dell'idea secondo la quale la politica europea avrebbe potuto generare più disciplina in materia di debito rispetto ai mercati. Gli investitori privati ​​possono frenare la corsa all'indebitamento quando questo diventa eccessivo. Possono bloccare il flusso di credito o chiedere tassi di interesse così elevati che i debitori perdono l'appetito.

Questo è il principio di fondo dell'economia di mercato e dei sistemi federalisti che funzionano allo stesso modo. Basti pensare ai problemi finanziari dei singoli stati degli Stati Uniti, che iniziano già con un indebitamento al 10 % del PIL, oppure alla disciplina richiesta dal mercato dei capitali ai cantoni svizzeri. La BCE e la comunità internazionale hanno indebolito questo principio, abbassando gli spread dei paesi altamente indebitati con i vari sistemi di messa in comune delle garanzie, sistema avviato con l'euro stesso, nella speranza che poi si sarebbe riusciti a tenere sotto controllo gli stati membri con dei mezzi legali. L'ingenuità di questa convinzione si è inesorabilmente rivelata nella nuova crisi italiana.


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venerdì 16 novembre 2018

Thomas Fricke su Der Spiegel: l'Italia vittima dei dogmi economici tedeschi

Un ottimo Thomas Fricke su Der Spiegel, non senza ironia, mette a nudo i dogmi economici di Bruxelles e Berlino e prova a spiegare ai tedeschi perché certe ricette economiche che a nord delle Alpi godono della massima considerazione, alla prova dei fatti potrebbero rivelarsi pura ciarlataneria. Bisogna dare atto a Thomas Fricke di essere uno fra i pochi che sulla cosiddetta "stampa di qualità" tedesca riesce a farsi pubblicare qualcosa di vagamente favorevole nei confronti dell'operato del governo italiano. Un brillante Thomas Fricke Da Der Spiegel


Si parla sempre piu' spesso di questa intelligenza artificiale che dovrebbe renderci la vita più facile e farci diventare tutti disoccupati. Perché i robot sanno fare tutto meglio. Sebbene di solito si finisca per menzionare un'assurdità come le auto a guida autonoma. O Alexa, che, zack, accende la luce.

Su questo tema ci sarebbe un campo di attività dell'intelligenza umana tradizionale nel quale le macchine potrebbero avere davvero un ruolo: capire perché in realtà un paese ha un successo economico superiore rispetto a un altro paese. E in poche parole andare dritto al punto: cosa dovrebbe fare l'italiano? Anche se fare ricorso al termine intelligenza per descrivere ciò che gli economisti tradizionali sono stati in grado di proporre fino ad ora puo' essere considerata una scelta decisamente amichevole e generosa.

Detto seriamente: se cosi' tanti italiani hanno votato per i populisti arrabbiati che non ne vogliono sapere di rispettare le vecchie raccomandazioni, cio' non ha molto a che fare con il fatto che l'italiano di per sé é un po' strano. Per anni l'Italia ha fatto esattamente ciò che le veniva chiesto di fare dalla dottrina economica standard dispensata via Bruxelles, oppure cio' che Wolfgang Schäuble pretendeva.

Solo che tutto ciò non ha portato grandi risultati - cosa che anche l'italiano ad un certo punto ha notato. E in secondo luogo perché quello che ora Bruxelles e Berlino chiedono agli italiani di fare, per salvare il paese e come alternativa ai piani del governo populista di destra-sinistra, è ancora meno convincente. Quindi: dovete fare ancora riforme. Secondo la vecchia dottrina ortodossa. Una sorta di teologia economica.

Secondo questa dottrina originale un paese deve sempre e comunque semplificare le regole, ridurre la burocrazia, rendere piu' facile il taglio dei costi per le aziende, alzare l'età pensionabile invece di abbassarla, rallentare l'indebitamento e fare più pressione sulla popolazione affinché anche i lavori mal pagati vengano accettati. Perché in questo modo l'economia diventa più dinamica e ciò crea lavoro e persone piu' felici.

Se ciò fosse vero l'economia italiana dovrebbe essere almeno tendenzialmente più dinamica rispetto al 2011, e l'italiano sicuramente più felice.

L'inflazione da anni in Italia è piu' bassa che in Germania

Da allora nel paese l'età pensionabile è stata gradualmente aumentata, è stato introdotto un freno all'indebitamento, introdotte leggi contro la corruzione, è stata allentata la protezione contro il licenziamento, sono aumentati i costi in caso di malattia, le poste e altri servizi sono stati (parzialmente) privatizzati, è cresciuta la pressione sui disoccupati, ridotta la burocrazia, promossi accordi salariali flessibili nelle aziende, semplificate le pratiche negli appalti pubblici, promosso il miglioramento della morale fiscale e accelerati i procedimenti giudiziari. Per fare solo alcuni esempi.

In quel periodo ad esempio gli italiani sono stati vicini ai primi della classe nella speciale classifica dello zelo riformatore ideata dal think tank del Lisbon Council. Secondo i criteri economici ortodossi, da allora l'Italia dovrebbe essere osannata come un esempio con:

- un avanzo commerciale con l'estero di circa 50 miliardi di euro;

- un surplus nel bilancio pubblico prima degli interessi pari a  circa il due per cento del PIL;

- un'inflazione che per anni è stata inferiore rispetto a quella della Germania.

L'americano a questo punto per l'invidia dovrebbe sprofondare nella tristezza piu' profonda.

Solo che tutto questo non ha fatto crescere l'economia più rapidamente - e non ha reso gli italiani così felici da rieleggere prontamente quei politici che hanno fatto tutte queste belle riforme. Cosa che Gerd Schröder avrebbe potuto dirgli con largo anticipo.

Dal 2011 i governi italiani nel complesso non hanno riformato meno di quanto abbiano fatto i tedeschi ai tempi dell'Agenda 2010 - e il loro governo è stato punito elettoralmente tanto quanto i rosso-verdi. Solo che nel frattempo in Germania c'è stata una crescita economica piu' forte e un aumento significativo dell'occupazione. Il che, a ben vedere, era dovuto solo in parte alle riforme dell'Agenda e molto piu' al fatto che mezzo mondo all'epoca stava facendo festa e aveva bisogno di macchinari o automobili. E la Germania ha beneficiato della crisi dell'euro. Ha avuto fortuna

Negli ultimi anni dopo la crisi finanziaria nessuno ha piu' fatto una vera festa, motivo per cui l'economia italiana non è uscita dalla crisi come all'epoca invece aveva fatto quella tedesca.

Non esiste una ricetta che funziona in tutti i paesi

Anche questo rende ancora piu' assurdo pretendere che una dottrina di salvezza economica funzioni allo stesso modo sempre e ovunque - sempre che funzioni. Ci sono di fatto paesi alquanto dinamici come i nordici, dove le persone pagano molte tasse e lo stato è molto presente. Situazione che in realtà non è prevista dai testi ortodossi. Altri paesi, almeno a prima vista, potrebbero andare d'accordo con i libri di testo. Come Singapore. Ma a cosa serve confrontarsi con uno staterello così speciale?

Se dal punto di vista politico-finanziario c'è una lezione che possiamo trarre dagli anni della crisi, è che se l'economia va bene il debito pubblico nel lungo periodo tende a scendere. Fatto che ci riporta alla questione di fondo: in che modo una simile economia può diventare più dinamica senza che le persone corrano a dare il voto ai populisti? Se vengono fatte molte riforme senza che le cose inizino ad andare un po' meglio, almeno dopo un periodo iniziale difficile, la gente alla fine voterà per i partiti di protesta. E quindi non servirà a molto chiedere più riforme se queste non sono servite a nulla. Almeno non abbastanza da convincere gli elettori.

A cosa serve avere l'industria più competitiva, se poi la società viene dilaniata dagli effetti collaterali dovuti alle divergenze sempre piu' drastiche dei redditi? E alla fine arriveranno i populisti a cui le regole non interessano troppo. Vedi Roma.

Certo, ci sono quello e quell'altro indizio che suggeriscono che la tale riforma tende a funzionare meglio di un'altra. Ma la saggezza dell'economia non va molto oltre. Quello che funziona in un dato paese e in un dato momento in un particolare ambiente economico, non  funzionerà necessariamente allo stesso modo nel prossimo paese. E il successo dipende anche da quanto le riforme e i tagli possano essere sostenibili democraticamente.

Serve anche a poco il fatto che gli esperti del Fondo Monetario Internazionale abbiano raccomandato al governo di Roma misure che generano una maggiore crescita economica - se queste poi sono collegate alla solita sentenza sacrale degli economisti secondo i quali questa o quella riforma produrrà una crescita "di lungo termine". Con un po' di fortuna. Forse.

Poca conoscenza, grande risolutezza

La risolutezza con cui specialmente da Bruxelles o da Berlino dall'Italia si pretende questo o quel comportamento è sorprendentemente contraddetta dal fatto che pochi economisti sanno cosa realmente fa bene alla crescita economica e (quindi) cosa fa scendere il debito pubblico.

Fatto che potrebbe portare a una conclusione fondamentale: un esercizio così delicato dovrebbe essere lasciato ai governi i quali dovranno poi rispondere ai loro elettori di quello che hanno fatto.

Almeno fino a quando i nostri amici nella ricerca economica non saranno in grado di sviluppare il primo economista equipaggiato con una intelligenza artificiale sufficiente tale da dirci cosa dovrebbe fare esattamente un governo per aumentare la crescita economica in un paese. Sarebbe utile davvero.




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Il sogno tedesco di un esercito europeo

Quando si tratta di mettere in comune i debiti con i sud-europei, dalla Germania arriva puntuale il solito "coro di Nein". Quando invece si parla di dotare l'UE di un vero esercito europeo arriva un bel "coro di Ja" e tanto entusiasmo. Tutto questo entusiasmo per il presunto esercito europeo probabilmente è solo il dito dietro il quale la politica tedesca vorrebbe nascondere le proprie ambizioni: affiancare alla grande potenza esportatrice un esercito in grado di difendere gli interessi tedeschi su scala globale per trasformare il gigante economico in un gigante politico. Ne parla un ottimo German Foreign Policy.


Forza militare come nuova spina dorsale dell'UE

La creazione di una forza militare comune europea da molto tempo è uno degli obiettivi della politica europea di Berlino. "Nell'UE ... dobbiamo andare verso un esercito comune europeo", sosteneva ad esempio già nel marzo 2007 la Cancelliera Angela Merkel in un'intervista alla Bild Zeitung. [1] In maniera identica si esprimeva anche la SPD. Si tratta "di far partire un processo di sviluppo, il cui sbocco sarà un esercito europeo", era scritto in un documento del gruppo di lavoro sulla difesa della frazione parlamentare della SPD: "gli eserciti nazionali saranno ... sempre più una reliquia del secolo scorso" [2].  I vertici politici tedeschi hanno continuato ad avanzare questa richiesta con regolarità. A volte il concetto viene collegato con un altro messaggio: le truppe europee congiunte potrebbero aiutare a saldare l'UE in maniera ancora piu' forte. Il "progetto europeo per una politica di sicurezza e di difesa comune" sarà "il motore per una ulteriore integrazione europea", aveva dichiarato l'allora ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle nel febbraio 2010. [3] Qualche tempo dopo su di un influente quotidiano tedesco ritenuto di orientamento liberale (sueddeutsche.de) si poteva leggere: "un esercito permanente per l'unione di tutti gli Stati sarebbe qualcosa di simile a una nuova spina dorsale per tutta l'Europa" [4] Il concetto era stato ribadito anche nel dicembre 2017 dal Ministero della Difesa tedesco in occasione dell'avvio del processo per la creazione delle strutture militari comuni ("PESCO"): "con la comunità di difesa dell'UE, il processo di integrazione dell'UE sta vivendo un nuovo impulso" [5].

"Ridurre le riserve parlamentari"

Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron ha rilanciato la richiesta di creare un esercito europeo. L'occasione è stata il lancio da parte di Parigi della sua Iniziativa di Intervento Europeo (Initiative européenne d'intervention, IEI). [6] A tal proposito Macron ha ribadito che è giunto il momento di costituire "un vero esercito europeo": "l'Europa" dovrà essere in grado di potersi "difendere senza dipendere interamente dagli Stati Uniti". Anche i vertici politici tedeschi hanno espresso il loro sostegno. Proprio nel fine settimana il leader della Spd Andrea Nahles si è espressa a favore di un "esercito europeo": "dobbiamo farla finita con i piccoli stati". Katarina Barley, il ministro della Giustizia e candidato SPD alle elezioni europee ha detto che le forze militari congiunte sarebbero una "vera assicurazione sulla vita per l'Europa". [7] Il presidente della Commissione affari esteri del Bundestag, Norbert Röttgen (CDU), si è unito al coro dichiarando: "senza capacità militari congiunte", ha detto, "la politica estera europea comune non potrà essere presa sul serio" [8]. Il Segretario Generale della CDU Annegret Kramp-Karrenbauer a sua volta ha collegato la richiesta con la proposta di limitare il potere legislativo del Bundestag in materia di operazioni militari. "Credo che un esercito europeo abbia senso", ha detto Kramp-Karrenbauer, candidata alla segreteria della CDU  come successore di Angela Merkel: "lungo il percorso che ci porta a questo obiettivo, dovremo ridurre le prerogative a disposizione del Bundestag in materia di schieramento all'estero delle truppe della Bundeswehr"[9].

"Essere in condizione di agire"

Dopo richieste cosi' serrate da parte dei politici di spicco come non era mai accaduto prima - lunedì anche il Ministro della Difesa Ursula von der Leyen si è espressa ancora una volta a favore di un "esercito europeo" [10] - è arrivato il turno della cancelliera tedesca Angela Merkel davanti al Parlamento europeo. "Dobbiamo lavorare alla visione di avere un giorno un vero esercito europeo", ha detto Merkel martedì. Sicuramente un "esercito europeo non sarebbe un esercito contro la NATO": "Nessuno vuole mettere in discussione i legami tradizionali". Ma "l'Europa" non può più fare affidamento incondizionato sugli "altri" - vale a dire gli Stati Uniti. "L'Europa" dovrà quindi essere in grado di agire. [11]

PESCO Versus IEI

Mentre si fanno sempre più forti le richieste per creare una forza europea, aumenta anche la pressione per presentare dei risultati e proseguono senza sosta le lotte di potere fra francesi e tedeschi su alcuni degli elementi chiave del progetto. Come ha ribadito lunedi il Ministro della Difesa von der Leyen, il governo di Berlino continua a puntare sulla possibilità di unire le forze armate europee agendo dal basso; questo dovrebbe avvenire nel quadro della PESCO e sotto l'ombrello del Framework Nations Concept della NATO, all'interno del quale la Bundeswehr ha già intensificato la sua cooperazione con le truppe dei Paesi Bassi, della Repubblica Ceca e della Romania, oppure con un paese non-UE ma solo NATO come la Norvegia. La Francia invece con la IEI punta su operazioni congiunte e rapide e su di una fusione delle forze armate che dovrebbe avvenire nella pratica militare (german-foreign-policy.com[12]). Nel suo progetto tuttavia la Francia riceve solo il sostegno del Belgio. Il ministro della Difesa belga Steven Vandeput ha infatti firmato insieme al suo omologo francese Florence Parly un accordo che prevede una stretta collaborazione tra le forze di terra di entrambi i paesi. Come conseguenza il Belgio non solo si è impegnato ad acquistare 382 veicoli corazzati Griffon e 60 carri da ricognizione Jaguar - esattamente i modelli utilizzati dall'esercito francese - ma avvierà una collaborazione congiunta anche nel campo della formazione e nel comando delle truppe e in numerosi altri aspetti con le forze di terra francesi. I militari parlano di una cooperazione senza precedenti tra i due paesi [13]. Come conseguenza, nella lotta di potere tra Berlino e Parigi, si rafforza il polo francese.

"Comprate armi europee!"

I disaccordi proseguono anche nel campo della cooperazione per l'acquisto delle armi. Il presidente Macron, che insieme alla cancelliera Merkel spinge verso una concentrazione dell'industria europea della difesa, domenica si è lamentato: "quello che non voglio vedere sono paesi europei che aumentano il loro budget per la difesa, per poi comprare armi dagli Stati Uniti o da altri paesi." [14] Si riferiva probabilmente al fatto che il Belgio nel mese di ottobre ha deciso di non acquistare gli Eurofighter o gli aerei da combattimento Rafale, ma gli F-35 americani - come hanno fatto la Gran Bretagna, l'Olanda e l'Italia. La ragione risiede anche nel fatto che i produttori europei non sono in grado di produrre caccia da combattimento di ultima generazione come gli F-35. Senza dubbio Berlino e Parigi hanno deciso di produrre insieme un jet da combattimento e di concepirlo come un sistema da combattimento (Future Combat Air System, FCAS), tuttavia, il progetto è attualmente bloccato da discussioni inerenti non solo la leadership industriale, ma anche la distribuzione degli ordini e non da ultimo le licenze per l'esportazione [15]. Il disaccordo sulle esportazioni di armi colpisce anche il carro armato franco-tedesco sviluppato dalla neo-costituita KNDS, allenza strategica fra la tedesca Krauss-Maffei Wegmann e la francese Nextei. La joint venture tuttava necessita già di chiarimenti: "lo sviluppo a lungo termine e le vendite del Gruppo KNDS dipenderanno anche dall'atteggiamento del governo tedesco e francese in merito alle esportazioni di tecnologia per la difesa", si legge in una recente relazione sulla gestione della holding Kasseler-Wegmann [16]. Se dovesse costituirsi una forza comune europea con una base industriale e militare nell'UE, ci troveremo allora di fronte a delle dure lotte di potere tra Francia e Germania per aggiudicarsi gli ordini nel settore della difesa.



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[1] "Die europäische Einigung ist auch heute noch eine Frage von Krieg und Frieden". Bild 23.03.2007. S. auch Eine Frage von Krieg und Frieden in Europa.
[2] Daniel Friedrich Sturm: Merkel will "gemeinsame europäische Armee". welt.de 23.03.2007.
[3] S. dazu Der Krieg, Europas Rückgrat.
[4] Zeit für eine europäische Armee. sueddeutsche.de 13.07.2010.
[5] Einstieg in die Verteidigungsunion. bmvg.de 08.12.2017. S. dazu Der Start der Militärunion.
[6] S. dazu Die Koalition der Kriegswilligen (II).
[7] Nahles will eine europäische Armee und den Abschied von Hartz IV. handelsblatt.com 10.11.2018.
[8], [9] Donata Riedel: Macron will eine europäische Verteidigung - Der Bundesregierung geht das zu weit. handelsblatt.com 12.11.2018.
[10] Von der Leyen plädiert für eine "Armee der Europäer". sueddeutsche.de 12.11.2018.
[11] Merkel fordert "echte europäische Armee" - Buhrufe und Applaus. welt.de 13.11.2018.
[12] S. dazu Die Koalition der Kriegswilligen (II).
[13] Nicholas Fiorenza: Belgium signs motorised capability co-operation agreement with France during first European Intervention Initiative ministerial. janes.com 12.11.2018.
[14] Merkel fordert "echte europäische Armee" - Buhrufe und Applaus. welt.de 13.11.2018.
[15] Thomas Hanke, Donata Riedel: Future dims for Franco-German combat air system as companies squabble. global.handelsblatt.com 07.11.2018.
[16] Gerhard Hegmann: Auf dem Weg zum europäischen Superpanzer. welt.de 06.11.2018.

giovedì 15 novembre 2018

Il documento segreto del ministero degli interni: nel 2015 il governo tedesco avrebbe potuto chiudere i confini

Dal ministero degli interni spunta un documento segreto redatto all'epoca da funzionari di alto livello secondo il quale la chiusura delle frontiere nell'estate del 2015 sarebbe stata perfettamente legale, a differenza di quanto Merkel sin da allora ha sempre sostenuto.  Ne parlano RT Deutsch e Die Welt



Il governo tedesco ha sempre motivato la scelta di non aver voluto chiudere i confini prima dell'arrivo in massa dei rifugiati nell'autunno del 2015 adducendo presunte "preoccupazioni legali". Ora invece si viene a sapere: in un documento segreto alti funzionari ministeriali dichiaravano il contrario.

Le frontiere tedesche nell'autunno 2015 potevano essere chiuse senza alcuna preoccupazione di carattare legale. Lo riporta la "Welt am Sonntag" sulla base di un documento segreto del Ministero degli Interni in suo possesso. Il documento includeva un piano elaborato dagli alti funzionari del ministero per chiudere i confini durante l’ondata migratoria innescatasi nel settembre 2015.

Nel documento dal titolo "Possibilità di respingere coloro che cercano protezione alle frontiere tedesche", i funzionari discutevano le modalità per chiudere i confini e impedire ai rifugiati di attraversare il confine fra Austria e Germania. In alcuni atti non destinati alla pubblicazione i funzionari ministeriali erano arrivati alla conclusione: il respingimento sarebbe stato possibile e perfettamente legale.

A partire dal 2015 il governo tedesco ha sempre parlato di "preoccupazioni legali" come elemento cruciale per motivare la sua decisione di mantenere i confini aperti ai rifugiati. La rivelazione della WamS dimostra che si è trattato piuttosto di una decisione puramente politica. Ciò dovrebbe rendere ancora più difficile lo sforzo dell'Unione di lasciarsi definitivamente alle spalle la questione dei rifugiati. Ancora in ottobre, prima di dare l'annuncio del suo ritiro dalla corsa per la segreteria del partito, Merkel durante il congresso CDU della Turingia aveva detto:

"Se vogliamo passare il resto del decennio ad occuparci di cosa è accaduto nel 2015 e di come sono andate le cose, e a sprecare il tempo in questo modo, allora finiremo per non essere piu’ un partito di massa".


La pubblicazione del documento del Ministero dell'Interno spinge almeno una parte dell'opposizione a rianalizzare gli eventi del 2015. Il leader della FDP Christian Lindner chiede "un chiarimento complessivo sul tema":

"Le rivelazioni gettano una luce abbagliante sulle pratiche di governo della signora Merkel. Le questioni centrali per il paese vengono dibattute in circoli chiusi e oscuri. La decisione relativa alla necessità da parte del nostro paese di accogliere rifugiati al di là di quanto previsto dal quadro normativo, tuttavia, doveva essere discussa in pubblico e in parlamento."

Anche Oskar Lafontaine valuta l'argomento in maniera simile a Lindner. Il leader della Linke nel parlamento della Saar ha detto che è necessario discutere quanto accaduto nel 2015:

"Né il Bundestag né gli stati federali, né i vicini europei furono adeguatamente coinvolti in quelle decisioni. Fino ad oggi è mancata la necessaria trasparenza, che è il prerequisito indispensabile per una decisione democratica".



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domenica 11 novembre 2018

Intervista a Clemens Fuest sulla situazione italiana: "come creditori siamo ricattabili"

Clemens Fuest, il presidente del prestigioso Istituto Ifo di Monaco di Baviera, intervistato da T-Online ci spiega quanto il rischio di implosione della moneta unica sia reale e ci ricorda un concetto di base, apparentemente molto chiaro anche ai tedeschi: i creditori sono sempre ricattabili. Da T-Online


T-Online: Herr Fuest, i partiti di governo nel nostro paese attualmente sono molto presi da questioni personali. Un altro tema con conseguenze enormi per la Germania sta invece passando in secondo piano: la crisi economica in Italia. Il nuovo governo di Roma vuole fare piu' deficit. La Commissione europea ha respinto il bilancio. E ora?

Clemens Fuest: un paese senza una propria moneta non può permettersi un debito pubblico superiore al 130% del PIL. Il vero problema in Italia non è l'eccesso di indebitamento, ma la stagnazione economica. L'Italia non cresce, la produttività del lavoro ristagna dagli anni '90. L'economia italiana è stata duramente colpita dalla globalizzazione e non è riuscita ad adattarvisi. Le ragioni risiedono in un sistema educativo mal funzionante, in un sistema giudiziario poco efficace e in una regolamentazione del mercato del lavoro paralizzante.

T-Online: Quindi l'Italia ha bisogno di riforme Hartz sul modello tedesco?

Clemens Fuest: bisogna essere molto attenti con il messaggio: fate come i tedeschi! L'Italia è un paese con condizioni diverse. Nel mercato del lavoro, a differenza della Germania prima delle riforme Hartz, il problema non è che i benefici per i disoccupati sono troppo generosi. Si tratta piuttosto del fatto che chi ha un impiego ha delle forti tutele e che i giovani hanno scarse possibilità di essere integrati nel mercato del lavoro.

T-Online: ciò si riflette anche sul mercato dei capitali, dove il nervosismo si sta diffondendo e i rendimenti dei titoli di stato italiani stanno crescendo. Un problema per il mercato finanziario dell'UE?

Clemens Fuest: i rendimenti crescenti dimostrano che il mercato finanziario funziona e che i rischi vengono prezzati. Se in Italia arriva una crisi finanziaria, i creditori avranno un problema. Lo stato italiano e le banche sono fortemente indebitate con i propri cittadini. Per quanto riguarda i paesi esteri, le banche tedesche sono molto meno coinvolte in Italia rispetto ad esempio a quelle francesi. Un terzo della cosiddetta esposizione verso l'estero dell'Italia, circa 300 miliardi di euro, è nei confronti della Francia. Ma difficilmente questo ci aiuterebbe in caso di emergenza, perché se la Germania ha prestato poco all'Italia, è invece molto esposta nei confronti della Francia. Il problema ci colpirebbe comunque.

T-Online: quanto è concreto il rischio di una bancarotta pubblica in Italia?

Clemens Fuest: nel breve periodo il rischio maggiore risiede in un'ondata di panico sul mercato dei capitali che potrebbe portare rapidamente alla bancarotta di stato. Sarebbe una situazione in cui gli investitori avrebbero dei dubbi sul fatto che l'Italia possa rifinanziare i propri debiti. Per questo i titoli di stato in scadenza non verrebbero riacquistati e il paese diverrebbe insolvente. Nel lungo periodo il rapporto debito/PIL dovrebbe scendere, altrimenti l'Italia nella prossima recessione economica si troverebbe in gravi difficoltà.

T-Online: se il gioco si fa duro, si aspetta che l'UE usi lo scudo salva stati e aiuti l'Italia a suon di miliardi?

Clemens Fuest: l'Italia è dieci volte più grande della Grecia. Stiamo parlando di molti soldi. Ma non penso che i fondi per il salvataggio siano insufficienti, come spesso si sostiene. Se l'Italia chiedesse un programma di aiuti al Meccanismo europeo di stabilità (ESM), la BCE potrebbe acquistare obbligazioni governative italiane e mantenere l'Italia liquida. La vera domanda è: possono ancora esserci programmi ESM?

T-Online: si riferisce alla questione delle competenze nazionali?

Clemens Fuest: sì. Non è chiaro se il Bundestag possa ancora approvare i programmi di salvataggio dell'ESM. Secondo la sentenza della Corte costituzionale tedesca, il programma OMT (acquisto illimitato di titoli di stato da parte della Banca centrale europea) costituisce un superamento delle competenze della BCE, mentre la Corte di giustizia europea afferma il contrario. Ciò solleva la questione su quale Corte il Bundestag dovrebbe seguire. Ancora più importante, in Italia c'è un governo che non vuole attenersi ai regolamenti dell'UE. In questa situazione i fondi di salvataggio europei non sono disponibili. Gli aiuti sarebbero disponibili solo se collegati a dei requisiti di ristrutturazione.

T-Online: qual'è influenza reale della Commissione europea nel tiro alla fune politico con il governo italiano?

Clemens Fuest: l'importanza del tiro alla fune politico fra Bruxelles e Roma è sovrastimata. E' il governo italiano che prende le decisioni in materia di bilancio, per questo è stato eletto. L'UE non sarà in grado di impedirlo. Le regole europee aiutano i governi che vogliono rispettare i criteri europei e implementarli contro le resistenze del proprio paese. L'idea che Bruxelles possa imporre le regole europee contro la volontà di un governo nazionale è un'illusione. Non funziona cosi'. Non possiamo costruire l'Eurozona su queste basi.

T-Online: e allora su quali?

Clemens Fuest: la chiave di tutto sta nella disciplina di mercato. Da un lato è corretto dire che gli elettori italiani hanno democraticamente deciso di indebitarsi. Ma ciò significa anche dire che non possono trasferire i costi ai contribuenti degli altri Stati dell'euro.

T-Online: sembra ragionevole, ma anche un po troppo semplice. Di nuovo piu' concretamente: quale margine di manovra ha a disposizione l'UE per impedire alla crisi italiana di infettare il resto d'Europa?

Clemens Fuest: in sostanza, l'Unione europea deve fare due cose: in primo luogo tenere aperto un canale di dialogo. Abbiamo un interesse fondamentale affinché in Italia non vi sia una bancarotta dello stato. In secondo luogo l'UE deve prepararsi per una crisi. Ciò significa che bisognerebbe ridurre l'esposizione al rischio Italia e quindi essere meno ricattabili.

T-Online: quindi ritirare il denaro dall'Italia, denaro che lì è effettivamente necessario e farlo in maniera urgente.

Clemens Fuest: non è compito degli altri stati della zona euro mantenere liquido uno stato italiano che intende abbandonare le regole del gioco concordate con gli altri paesi. Il problema è che come creditore sei ricattabile. Le banche nel resto dell'eurozona dovrebbero ridurre i loro crediti finanziari verso lo stato italiano e le sue banche o meglio coprirli con il patrimonio netto. Altrimenti, in caso di crisi, saremo costretti a salvare un'altra volta le nostre banche con i soldi dei contribuenti.

T-Online: guardiamo avanti: cosa succede se il governo italiano non si ferma, ma si attiene al suo corso e continua a fare debito per ampliare lo stato sociale?

Clemens Fuest: lo scenario più probabile è che il paese al prossimo rallentamento economico finisca in una crisi finanziaria: una bancarotta statale in Italia porterebbe a una crisi dei mercati finanziari sulla cui portata si può solo speculare. Se il sistema bancario italiano dovesse essere di fronte ad un crollo, l'Italia potrebbe introdurre volontariamente una nuova valuta. C'è anche la variante della valuta parallela, i cosiddetti mini-Bot. Tutto ciò, tuttavia, porterebbe a degli scontri molto forti all'interno della zona euro.

T-Online: quindi un fondo europeo di garanzia sui depositi bancari potrebbe essere una soluzione, come alcuni stanno chiedendo?

Clemens Fuest: nella situazione attuale sarebbe un grave errore. L'Italia in questo modo potrebbe  vendere più titoli di stato alle proprie banche. Se dovessero fallire, le perdite verrebbero trasferite alla comunità dell'Eurozona. La pressione dei mercati finanziari sull'Italia si ridurrebbe, e verrebbe incentivato il superamento dei limiti all'indebitamento concordati con gli altri stati. Se vogliamo che l'eurozona nel lungo periodo funzioni, abbiamo bisogno di un'assicurazione comune sui depositi. Tuttavia, il prerequisito obbligatorio per fare ciò è che le banche abbandonino completamente o almeno in gran parte il finanziamento dei loro rispettivi stati di appartenenza. Altrimenti è meglio lasciar stare.

T-Online: detto in maniera piu' semplice: da anni l'Italia scivola da una situazione di precarietà politica ed economica all'altra. Il Paese è riformabile?

Clemens Fuest: credo di sì. Possiamo guardare alla situazione italiana anche in modo diverso. Immaginate che la Germania abbia attraversato un periodo stagnazione di 20 anni. Come sarebbe il nostro paese dal punto di vista politico? Il fatto che la società italiana sia rimasta stabile per così tanto tempo merita rispetto. Ciò che manca sono delle riforme convinte; forse arriveranno quando sarà chiaro che la politica attuale sta solo esacerbando i problemi.

T-Online: diamo un'occhiata alla Germania. In che modo la crisi italiana ci influenzerà?

Clemens Fuest: la Germania ha un interesse urgente affinché in Italia possa arrivare quanto prima una ripresa economica. Il governo tedesco dovrebbe rivolgersi al governo di Roma e cercare di convincerlo a fare politiche europee che dal punto di vista finanziario possano ridurre il peso sugli altri paesi membri. Invece da Berlino arriva solo un silenzio minaccioso.

T-Online: cosa potrebbero fare insieme Germania e Italia per stabilizzare la situazione?

Clemens Fuest: la Germania e l'Italia potrebbero sviluppare una politica estera e di sicurezza europea e cooperare più strettamente nella politica  migratoria e dello sviluppo. Acquisti militari congiunti, la messa in comune di ambasciate e consolati, aiuti allo sviluppo europei invece che nazionali e frammentati, tutto ciò ridurrebbe il peso sul bilancio dello Stato. Si ha l'impressione che la Germania sia troppo impegnata con se stessa e troppo poco con l'Europa.

T-Online: perché è così?

Clemens Fuest: nella Große Koalition si tengono sotto controllo a vicenda. Fanno allo stesso tempo lavoro di governo e di opposizione.

T-Online: il governo federale non sta quindi lavorando efficacemente?

Clemens Fuest: bisogna essere prudenti con simili giudizi. Ma la lotta per il potere a Berlino è una realtà. Gli argomenti europei passano in cavalleria. Sono importanti almeno quanto la questione abitativa o la migrazione. Il pericolo che l'UE e l'euro cadano in pezzi è molto reale.
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sabato 10 novembre 2018

Commemorazioni e perdono a basso costo

Mentre i greci e i polacchi continuano a chiedere un risarcimento per i danni di guerra causati dalla furia distruttrice dei nazisti, i tedeschi scelgono una strategia finalizzata a distogliere l'attenzione: spedire i loro politici di alto livello in giro per l'Europa a celebrare e commemorare le vittime del nazismo, negando tuttavia ogni forma di risarcimento. Da un lato Berlino chiede piu' responsabilità ai governi del sud, dall'altro si rifiuta di assumere ogni responsabilità per i crimini commessi dai nazisti tra il 1939 e il 1945. Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy


Prestiti UE come un bavaglio

Il rapporto della commissione bipartisan del Parlamento greco che stima in 288 miliardi di euro le riparazioni di guerra che la Germania deve alla Grecia - e a cui si aggiungono gli undici miliardi di euro di un prestito forzoso fatto ai nazisti e mai rimborsato - è stato completato nel mese di agosto del 2016. Come confermato da Kostas Douzinas, professore di diritto presso il London Birkbeck University e presidente del Comitato parlamentare di Atene per gli Affari Esteri e la Difesa, il governo di Atene negli ultimi due anni non ha potuto trarre le dovute conseguenze dal rapporto e quindi ottenere da Berlino le riparazioni spettanti, in quanto la Grecia fino ad agosto 2018 "ha continuato a ricevere prestiti dall'UE". [1] Bruxelles pertanto  grazie ai cosiddetti "aiuti finanziari" ha contribuito a far risparmiare alla potenza egemone dell'UE il pagamento delle riparazioni previste dalla normale giurisprudenza in riferimento alle peggiori devastazioni di guerra causate dall'occupazione nazista negli anni fra il 1941 e il 1944. Poco dopo la fine del "programma di aiuti" il Presidente del parlamento greco, Nikos Voutsis, ha annunciato che Atene già quest'anno intende prendere le misure  necessarie per chiedere e ottenere i risarcimenti dovuti. [2] Nel mese di ottobre, il presidente greco Prokopis Pavlopoulos durante la visita del suo omologo tedesco Frank-Walter Steinmeier ha confermato che il governo greco intende portare avanti le sue legittime richieste. [3] A breve sono quindi attesi i primi passi della parte greca.

Lo sviluppo impedito

Allo stesso tempo i politici ateniesi sottolineano che il danno di guerra causato dalla Germania ha contribuito in maniera significativa a rallentare lo sviluppo economico greco. Secondo le stime degli esperti durante l'occupazione tedesca a causa della malnutrizione sono morti circa un quarto di milione di greci. Circa 60.000 greci ebrei sono stati deportati nei campi di sterminio tedeschi e lì sono deceduti; almeno 30.000 greci sono stati invece uccisi nei massacri compiuti dalle SS e dalla Wehrmacht. Il danno materiale è "difficile da calcolare", scrive lo storico Hagen Fleischer, un esperto di storia della Grecia sotto l'occupazione tedesca. [4] Subito dopo l'invasione gli occupanti hanno razziato materie prime e generi alimentari in enormi quantità; non hanno solo sottratto il sostentamento alla popolazione, ma hanno anche distrutto le basi dell'artigianato greco e della già debole industria. A ciò si aggiungono, come sostenuto da Fleischer, "le perdite causate dall'iperinflazione e dalla distruzione delle infrastrutture in seguito allo sfruttamento economico da rapina (miniere, foreste, ecc) e la distruzione sistematica durante la ritirata: la maggior parte dei ponti ferroviari abbattuti, ben oltre l'80% del materiale rotabile distrutto, il 73% delle navi commerciali affondate, quasi 200.000 case totalmente o parzialmente distrutte". La distruzione è stata "così profonda", riassume il giornalista ed europarlamentare greco Stelios Kouloglou "che ha avuto un ruolo significativo nel ritardare lo sviluppo e la trasformazione del nostro paese in uno stato europeo moderno." [5]

Politica della terra bruciata

Secondo un verdetto unanime, al di fuori del mondo slavo la Grecia è stato il paese ad aver sofferto piu' di ogni altro sotto il regno del terrore tedesco. Fra i paesi del mondo slavo ad essere colpiti in maniera ancora piu' terribile dalla guerra di sterminio tedesca c'è sicuramente la Polonia. La guerra di annientamento e il terrore durante l'occupazione hanno causato la morte di circa sei milioni di polacchi. Senza precedenti sono anche i danni materiali causati dagli occupanti tedeschi con la loro "politica della terra bruciata" nelle azioni di guerra, nella guerra contro i partigiani, nei massacri oppure durante la ritirata. L'esempio più noto è la distruzione per oltre il 90% della capitale Varsavia. Come quello greco, anche il parlamento polacco ha voluto quantificare il danno causato dagli occupanti tedeschi. I danni ammonterebbero a 840 miliardi di euro. [6] Anche a Varsavia si prepara una richiesta di risarcimento da presentare alla Germania e, se possibile, se ne verifica la fattibilità. "A mio avviso, le riparazioni di guerra non sono un problema risolto" ha infatti recentemente dichiarato il presidente polacco Andrzej Duda in occasione delle consultazioni governative fra tedeschi e polacchi. [7]

Perdono gratuito

Berlino ha scelto di dare la sua consueta risposta sia alle richieste della Grecia che a quelle della Polonia: diniego e distrazione. Ad essere negati non sono i crimini tedeschi, ma il fatto che ad essi debbano seguire degli obblighi di risarcimento e di indennizzo definiti giuridicamente: Berlino continua a sostenere che in primo luogo avrebbe già pagato un risarcimento piu' che sufficiente e che in secondo luogo non è obbligata a pagare altri soldi. Entrambe le argomentazioni non sembrano essere vere, nonostante tutti gli sforzi fatti dal governo di Berlino, mediante diversi trucchi legali, per evitare le pretese delle numerose vittime del nazismo (german-foreign-policy.com riportato [8]). Le autorità tedesche cercano infatti di distrarre l'attenzione dalla crescente insoddisfazione presente nei paesi colpiti, partecipando incessantemente a una commemorazione dietro l'altra; fatto che suggerisce un apprezzamento simbolico per le vittime, ma che allo stesso tempo implica un rigoroso rifiuto di qualsiasi compensazione materiale. Recentemente il presidente della repubblica Steinmeier ha voluto celebrare questo concetto durante la sua visita in Grecia. Steinmeier in una cerimonia commemorativa di metà ottobre ha detto: ​​"Ci inchiniamo alle vittime, e soprattutto chiediamo perdono per quello che è successo in Grecia". [9] Il "perdono" tuttavia dovrebbe essere concesso gratuitamente. Steinmeier intende visitare il prossimo primo settembre la Polonia in occasione dell'ottantesimo anniversario dell'invasione tedesca. Dal punto di vista di Berlino, dovranno essere presentate formulazioni simili a quelle proposte durante la visita del presidente federale in Grecia.

La responsabilità della Germania

Chi dalla Grecia critica il rifiuto tedesco di pagare un risarcimento fa ricorso a un termine che anche al governo tedesco spesso piace usare: "responsabilità". Nel gergo di Berlino viene spesso usato per descrivere la nuova ambizione egemonica globale tedesca: poiché la Germania ha concquistato un "nuovo potere", ora deve farsi carico anche di una "nuova responsabilità", almeno cosi' era scritto già diversi anni fa in maniera esemplare in un lavoro programmatico della Berliner Stiftung Wissenschaft und Politik ( SWP), che in questo modo cercava di legittimare l'offensiva politica a livello mondiale della Repubblica Federale. [10] Più di recente, tra gli altri, anche il Ministro degli Esteri Heiko Maas, ha postulato una "crescente responsabilità del nostro Paese" - "ai tavoli negoziali di Minsk, Vienna e Losanna, Bruxelles e New York": bisogna "accettare la responsabilità, dove ci viene chiesto di farlo" ha detto Maas. [11] "La Germania", dice il deputato greco Koúloglou, "non ha mai assunto la sua storica responsabilità per aver completamente distrutto il nostro paese" [12]. Questo vale non solo per la Grecia, ma anche per la Polonia e per tutti gli altri paesi invasi dal terrore nazista nel continente europeo.

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[1] Helena Smith: Greece reiterates claim of €288bn for damages under Nazi occupation. theguardian.com 29.10.2018.

[2] German war reparations report to come to House this year, Parl't speaker says. ekathimerini.com 12.09.2018.

[3] Greece broaches war reparations issue again. ekathimerini.com 11.10.2018.

[4] Hagen Fleischer: Die deutsche Besatzung(spolitik) in Griechenland und ihre "Bewältigung". sogde.org, Dezember 2013.

[5] Helena Smith: Greece reiterates claim of €288bn for damages under Nazi occupation. theguardian.com 29.10.2018.

[6] Jan Puhl: Muss Deutschland jetzt Milliarden an Polen zahlen? spiegel.de 11.09.2017.

[7] "Kein erledigtes Thema". tagesschau.de 28.10.2018.

[8] S. dazu Die Regelung der Reparationsfrage und Die Reparationsfrage.

[9] Steinmeier bittet Griechen um Verzeihung. zeit.de 11.10.2018.

[10] Neue Macht - Neue Verantwortung. Elemente einer deutschen Außen- und Sicherheitspolitik für eine Welt im Umbruch. Ein Papier der Stiftung Wissenschaft und Politik (SWP) und des German Marshall Fund of the United States (GMF). Berlin, Oktober 2013. S. dazu Die Neuvermessung der deutschen Weltpolitik.

[11] Rede zum Amtsantritt von Bundesaußenminister Heiko Maas. auswaertiges-amt.de 14.03.2018.

[12] Helena Smith: Greece reiterates claim of €288bn for damages under Nazi occupation. theguardian.com 29.10.2018.


venerdì 9 novembre 2018

La questione nucleare tedesca

Sulle riviste specializzate tedesche si torna a parlare della necessità di trasformare la Germania in una potenza nucleare. Consapevoli tuttavia delle difficoltà che una simile scelta comporterebbe, i tedeschi ipotizzano di condividere il potenziale nucleare francese facendolo passare come un progetto di difesa europeo. Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy


Il Trattato per la proibizione delle armi nucleari

La "classe politica della Repubblica federale tedesca" deve "tornare a prendere la parola in merito alle questioni nucleari". E' quanto chiede Michael Rühle, un dirigente NATO di lungo corso, nell'ultimo numero della rivista "Internationale Politik" pubblicato dalla Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP). Rühle, attualmente a capo della sicurezza energetica nel Dipartimento NATO che si occupa delle nuove sfide alla sicurezza, fa riferimento al fatto che il nuovo Trattato per la proibizione delle armi nucleari espone anche la Germania ad un certo livello di pressione. Il trattato è stato elaborato nell'ambito delle Nazioni Unite e vieta di sviluppare, fabbricare, provare, possedere, immagazzinare, trasferire o utilizzare ogni arma atomica. Viene espressamente vietata anche ogni minaccia di un loro possibile uso. Il 20 settembre 2017, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha presentato il trattato per sottoporlo alla firma dei membri. Finora 69 stati l'hanno firmato, 19 lo hanno già ratificato. Entrerà in vigore 90 giorni dopo il deposito del cinquantesimo attestato di ratifica. Per ora tra i firmatari ci sono solo quattro paesi europei (Austria, Irlanda, Liechtenstein, Vaticano). Non un solo membro della NATO sostiene l'accordo. [2]

L'alleanza nucleare

Rühle rifiuta categoricamente l'idea che il governo tedesco possa firmare il trattato per la proibizione delle armi nucleari. Berlino, constata il dirigente di unità NATO, non solo condivide "la maggiore enfasi sull'importanza del deterrente nucleare presente nei documenti pertinenti della NATO", ma "non intende in alcun modo sconvolgere il ruolo della Germania nella cosiddetta compartecipazione nucleare" all'interno dell'alleanza militare. La NATO, a sua volta, "secondo il parere di tutti gli alleati, dovrà rimanere un'alleanza nucleare fino a quando esisteranno le armi nucleari". C'è probabilmente da aspettarsi che il trattato per la proibizione delle armi nucleari "presto diventi una realtà politica e morale di lungo periodo". In tale caso Rühle chiede che "la leadership politica e militare sia in grado di difendere il deterrente nucleare dai suoi critici, ... i quali cercheranno costantemente di screditarne il concetto di fondo". A ciò si aggiunge che "i dubbi circa l'affidabilità degli Stati Uniti come alleato dell'Europa permarranno anche nel prossimo futuro". Per questa ragione Berlino dovrebbe posizionarsi con convinzione a favore delle armi nucleari.

La Germania potenza nucleare

Rühle in questo quadro si esprime esplicitamente contro la richiesta di dotare la Germania di una propria arma nucleare. Una richiesta che recentemente è stata avanzata più volte pubblicamente. Cosi' ad esempio il professore emerito di scienze politiche di Bonn Christian Hacke nel mese di luglio su diversi giornali e in diversi articoli di riviste chiedeva di "discutere pubblicamente e senza riserve" la seguente questione: "Come potremmo affrontare il tema di una Germania potenza nucleare?". [4] Hacke scriveva che "una futura difesa nazionale tedesca fondata su di un proprio deterrente nucleare, alla luce delle nuove incertezze transatlantiche e dei potenziali conflitti, dovrebbe avere la priorità". E' necessario capire a "quali condizioni e con quali costi," la "potenza centrale europea potrebbe trasformarsi in una potenza nucleare". Rühle, al contrario avverte con insistenza che una "bomba tedesca" avrebbe delle gravi conseguenze negative - "dai limiti imposti dal diritto internazionale alle conseguenze per la non proliferazione nucleare fino alle gravi e inevitabili controversie intra-europee e transatlantiche" [5]. Allo stesso modo si era già espresso in estate Wolfgang Ischinger, capo della Conferenza per la sicurezza di Monaco di Baviera". Se la Germania "dovesse uscire dallo stato di potenza non nucleare", cosa potrebbe impedire ad esempio alla Turchia o alla Polonia di fare lo stesso passo?", si chiedeva Ischinger, "la Germania sarebbe il becchino del regime internazionale di non proliferazione" [6]

"Deterrente esteso"

Nel nuovo dibattito berlinese sul nucleare, discussione che vorrebbe sfruttare le attuali divergenze con gli Stati Uniti per chiedere un "ombrello nucleare europeo" come possibile alternativa alla "bomba tedesca", spesso si fa riferimento alle forze nucleari francesi. Ad esempio Ischinger ha messo in campo l'opzione secondo la quale Parigi in futuro potrebbe "assumere un ruolo nucleare esteso nel senso di deterrenza ampliata a livello europeo". In questo ambito "paesi partner come la Germania potrebbero contribuire alle necessarie spese dei francesi" [7]. Ischinger tuttavia non menziona il fatto che al cofinanziamento è solitamente associato anche il diritto di co-decidere. Il suo intervento, tuttavia, è in linea con altre proposte fatte a Berlino per avviare la cooperazione nucleare con Parigi [8].

Una nuova garanzia nucleare

Il giornale "Internationale Politik" elenca invece delle opzioni concrete. Come scrive Bruno Tertrais, vicedirettore della Fondation pour la Recherche Stratégique di Parigi, nell'ultima edizione della rivista, la Francia sicuramente non permetterà "nessuna forza nucleare europea comune sotto la guida dell'UE" [9]. E' inoltre completamente "irrealistico" che "i partner europei possano co-finanziare le forze armate francesi" - e "in cambio ottengano il diritto di essere interpellati sulla politica di sicurezza francese". E' pensabile piuttosto che Parigi interpreti la clausola di mutua assistenza dell'UE nel senso di una garanzia di protezione nucleare e, per sottolineare questo, ad esempio possa far stazionare a turno gli aerei da combattimento nelle basi degli alleati dell'UE. Se gli Stati Uniti dovessero ritirare inaspettatamente le loro armi nucleari dall'Europa, sarebbero allora possibili dei passi più ampi, conclude Tertrais. Ad esempio Parigi potrebbe "collocare una parte del suo arsenale (ad esempio, dieci missili) in Germania o in Polonia". Sarebbe anche ipotizzabile l'impegno delle potenze non nucleari a "partecipare ad un attacco nucleare con mezzi convenzionali ".

"Discussione aperta"

Tertrais conclude: "Non sappiamo come le relazioni transatlantiche si svilupperanno, ed è per questo che è arrivato il momento di avviare una discussione aperta e onesta sulla questione nucleare tra i politici europei e gli esperti" [10].
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[1] Michael Rühle: Debatte der Extreme. Internationale Politik, November/Dezember 2018. S. 102-107.

[2] Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons. New York, 7 July 2017. treaties.un.org.

[3] Michael Rühle: Debatte der Extreme. Internationale Politik, November/Dezember 2018. S. 102-107.

[4] Christian Hacke: Falsches Hoffen auf die Zeit nach Trump. cicero.de 20.07.2018. Christian Hacke: Eine Nuklearmacht Deutschland stärkt die Sicherheit des Westens. welt.de 29.07.2018. S. dazu Die deutsche Bombe.

[5] Michael Rühle: Debatte der Extreme. Internationale Politik, November/Dezember 2018. S. 102-107.

[6], [7] Wolfgang Ischinger: Ein atomares Deutschland wäre verhängnisvoll. welt.de 30.07.2018.

[8] S. dazu Make Europe Great Again und Der Schock als Chance.

[9], [10] Bruno Tertrais: Europas nukleare Frage. Internationale Politik, November/Dezember 2018. S. 108-115.