martedì 12 marzo 2019

20 anni dalle storiche dimissioni di Oskar Lafontaine - le vere ragioni dietro una decisione che ha segnato la storia tedesca ed europea

Esattamente 20 anni fa Oskar Lafontaine si dimetteva da Ministro delle Finanze del governo Schröder e dalla carica di segretario della SPD. Sulle Nachdenkseiten Albrecht Müller, economista, pubblicista, ed ex deputato SPD al Bundestag ripercorre le vere ragioni dietro una decisione storica che ha segnato la storia della sinistra tedesca. Ne scrive l'ottimo Albrecht Müller sulle Nachdenkseiten 


Esattamente 20 anni fa Oskar Lafontaine rassegnava le dimissioni da Ministro delle finanze e da presidente della SPD. L'opinione dei media e anche di una parte significativa del pubblico su quegli avvenimenti è un esempio davvero impressionante della possibilità di influenzare l'opinione pubblica e soprattutto i media - indipendentemente da come stessero realmente le cose e dalle ragioni delle sue dimissioni. Albrecht Müller.

Non ci sarebbe piu' bisogno di scrivere su questo argomento se ancora oggi non avesse una certa rilevanza.

I commenti e le opinioni di Lafontaine ancora oggi risultano pungenti. Disturbano e mettono in discussione l'adattamento continuo della sinistra allo Zeitgeist neoliberista e militarista. Lafontaine si schiera contro l'interventismo militare. Lafontaine critica la linea politica ed economica europea che condanna l'Europa del sud. Infilza l'ideologia neoliberista nella maniera piu' coerente possibile.

Lafontaine viene visto come un ostacolo al tentativo di estrarre dalla Linke anche i denti piu' critici, e resta un elemento di rottura all'interno del corso politico di adattamento della SPD. La svalutazione e la diffamazione delle ragioni che 20 anni fa portarono alla sua uscita di scena restano uno strumento importante con il quale ancora oggi viene svalutata la sua condotta politica attuale. Ancora una volta cercheremo di giustificare la fermezza con cui esattamente 20 anni fa egli prendeva quella decisione.


Le ragioni del ritiro - una seria divergenza di opinioni con il Cancelliere e la consapevolezza che Schröder stava giocando di sponda, in gran parte attraverso i media, una partita contro il leader di partito Lafontaine.

Le tre grandi differenze:

1) Gerhard Schröder e Joschka Fischer, il cancelliere designato e il vice-cancelliere, nel mese di ottobre del 1998 durante la loro visita a Washington, avevano già concordato con il governo degli Stati Uniti di partecipare ad una guerra contro la Jugoslavia, che in seguito sarebbe diventata la guerra del Kosovo. Si trattava del primo intervento militare all'estero al di fuori del territorio della NATO e una vera rottura nella politica tedesca. Ciò non era stato discusso con il leader di partito Lafontaine e si trattava di una prima vera violazione del rapporto di fiducia.

2) Come Ministro delle Finanze federale Lafontaine voleva imporre la regolamentazione dei mercati finanziari e in particolare si batteva contro l'invenzione e la diffusione di nuovi prodotti finanziari. Questo non era nello spirito di Gerhard Schröder e dei suoi evidenti legami con la finanza internazionale.

3) Lafontaine rappresentava un ostacolo contro i tagli al welfare e i tagli fiscali a favore delle grandi aziende e dei redditi piu' alti. A partire dal dicembre 1998 nella Cancelleria federale si era formata la cosiddetta alleanza per il lavoro. Questo raggruppamento, allineato e sostenuto dalla Fondazione Bertelsmann, è servito a preparare l'agenda 2010. Lafontaine durante l'inverno e la primavera del 1999 era già a conoscenza di quali fossero i progetti di Schröder e da chi era guidato.

Tra Schröder, il Cancelliere federale e Lafontaine, il Presidente della SPD, c'era già stato probabilmente un accordo secondo il quale i principali cambiamenti nella linea politica dovevano essere risolti di comune accordo. Gerhard Schröder non vi si era attenuto fin dall'inizio.

Come dichiarato da Lafontaine, la Bild-Zeitung aveva già pubblicato una dichiarazione di Schröder secondo la quale egli non intendeva sostenere la politica economica di Lafontaine. Si trattava probabilmente della goccia che ha fatto traboccare il vaso.

C'era almeno una possibilità di rimanere in carica e di sopravvivere politicamente? Come Ministro delle finanze? Come leader di partito? Dal mio punto di vista, in entrambi i casi: No!

Al più tardi nel marzo del 1999 a Lafontaine doveva essere ormai chiaro che la differenza di opinioni con il Cancelliere Schröder non poteva essere piu' profonda, e gli era ugualmente chiaro che stavano cercando di metterlo in minoranza con tutti i mezzi possibili. Per me all'epoca non si trattava affatto di una nuova esperienza, avevo sperimentato lo stesso gioco nell'aprile e nel maggio del 1974 quando Willy Brandt si dimise da Cancelliere federale. A quel tempo ero a capo del dipartimento di pianificazione della Cancelleria federale e osservavo da vicino gli accadimenti. A quel tempo c'era lo stesso gioco di sponda fra gli oppositori politici degli altri partiti e alcune persone appartenenti alle loro stesse fila, e l'intera faccenda era sostenuta e rilanciata dai principali media. Willy Brandt, ad esempio, era accusato di avere delle storie con delle donne. (...)

Nel caso di Lafontaine la campagna mediatica veniva condotta anche sui media stranieri. Sul tabloid britannico Sun, ad esempio, era apparso un articolo secondo il quale Lafontaine sarebbe stato l'uomo più pericoloso d'Europa. All'allora presidente della SPD Lafontaine doveva essere già chiaro che contro la forza dei media vicini all'ambiente di Gerhard Schröder non ce l'avrebbe mai fatta. Schröder aveva a bordo con sé persone come Bodo Hombach, Wolfgang Clement e Uwe Karsten Heye che potevano gestire il gioco dei media in maniera estremamente professionale. La battaglia contro la forza di questi media sarebbe stata molto difficile, soprattutto perché la posizione del Cancelliere federale sul fronte mediatico è molto più interessante e forte rispetto a quella di un Ministro delle finanze e presidente della SPD.

Oskar Lafontaine ora ipotizza che sarebbe stato meglio restare in carica almeno come leader di partito. Io lo considero un errore. Il modello di una campagna contro un leader di partito, in carica parallelamente ad un Cancelliere dello stesso partito, lo conosciamo dal passato: quando Willy Brandt si dimise da Cancelliere federale, rimanendo tuttavia leader di partito e svolgendo un ruolo molto positivo nella politica e in particolare nelle campagne elettorali. (...)

Anche Lafontaine ha commesso degli errori

Soprattutto dopo le dimissioni, senza dubbio. Avrebbe dovuto lavorare di piu' sui media. Avrebbe dovuto persino presentarsi ai congressi di partito. Avrebbe dovuto spiegare la sua mossa. Bene, è facile dirlo oggi. Ovviamente c'è anche la psiche di un essere umano. Ma in politica purtroppo quando si resta in silenzio senza spiegare in maniera sufficientemente completa e chiara le proprie decisioni piu' importanti, bisogna anche prendere in considerazione il rischio di finire sotto le ruote del carro.


domenica 10 marzo 2019

H. W. Sinn: perché la Germania non è il vero euro-vincitore

H. W. Sinn su Handelsblatt mette in discussione il risultato del famoso studio del CEP di Friburgo secondo il quale la Germania sarebbe il vero vincitore nella guerra dell'euro. Per il professore il discorso è un po' piu' complesso e lo studio del CEP sarebbe piu' che altro il tentativo di portare acqua al mulino dell'unione di trasferimento. Ne scrive H. W. Sinn su Handelsblatt


La Germania, secondo uno studio condotto da Matthias Kulla e Alessandro Gasparotti del Centro per la politica europea (CEP), sarebbe il grande euro-vincitore. Dal 1999 al 2017 l'euro avrebbe garantito alla Germania un profitto cumulato di poco meno di 1,9 trilioni di euro rispetto a un gruppo di controllo di paesi che dal 1980 al 1996 avrebbero goduto di una crescita economica simile. E' opportuno avere dei dubbi sulla portata di questi risultati.

Per la Germania, come gruppo di controllo, lo studio prende in considerazione paesi come il Bahrein, il Giappone, la Svizzera e il Regno Unito, poiché negli anni fra il 1980 e il 1996 in quei paesi è stata osservata in media una crescita pro-capite simile. Ma questo confronto non può funzionare perché i dati tedeschi a causa della riunificazione, nel bel mezzo di questo periodo, presentano una frattura strutturale.

Il fatto che il nostro paese dopo aver superato i problemi dell'unificazione sia cresciuto più rapidamente del Bahrain non ha nulla a che fare con l'euro. La gamma delle possibili spiegazioni spazia dalle riforme di Schröder, alla crescita dell'outsourcing e dell'innovazione industriale fino al boom delle costruzioni.

Naturalmente anche la svalutazione reale che la Germania ha vissuto all'interno dell'eurozona a causa dell'inflazione negli altri paesi ha permesso al PIL reale di crescere grazie alle esportazioni. Ma questa svalutazione allo stesso tempo ha reso la Germania relativamente più povera. 

Fra i paesi che oggi hanno l'euro, il PIL nominale pro-capite tedesco nel 1996 era il secondo dopo quello del Lussemburgo. Poi nella difficile fase iniziale dell'euro è sceso fino al settimo posto del 2005. Dopo la crisi finanziaria, la Germania ha fatto meglio degli altri paesi e il PIL pro capito tedesco è risalito al sesto posto, dove si trova ancora oggi. I dati di un euro-vincitore dovrebbero essere diversi.

Il problema è che le esportazioni nel calcolo del PIL sono considerate come un indice di prosperità, anche se in realtà lo diventano solo nel momento in cui sarà certo che immediatamente o successivamente potranno essere convertite in importazioni per una somma di pari valore. In effetti le eccedenze commerciali tedesche non sono sempre state investite in maniera ragionevole, e spesso sono state utilizzate per acquistare titoli di debito esteri alquanto problematici. Una parte di questi titoli consisteva in obbligazioni di dubbia utilità, in gran parte di provenienza americana, il cui mancato rimborso ha contribuito al fatto che la Germania abbia dovuto cancellare centinaia di miliardi di euro di crediti esteri dal suo bilancio delle attività nette sull'estero. 

Un'altra parte è rappresentata dai crediti contabili della Bundesbank all'interno del sistema Target, che a fine 2017 superavano i 900 miliardi di euro. Ciò rappresentava circa la metà delle attività estere tedesche residue, dopo le svalutazioni, generate grazie alle eccedenze nell'export.

I crediti Target sono crediti senza scadenza che la Bundesbank non potrà mai esigere e che vengono remunerati al tasso di rifinanziamento principale. E presto potrebbero finire nel fuoco se la Lega in Italia dovesse trasformare in realtà la sua minaccia di voler uscire dalla moneta unica. Ma anche se non dovesse accadere nulla di drammatico, restano privi di valore in quanto il loro tasso di interesse attualmente è pari a zero e probabilmente resterà a zero ancora per molto tempo. Per una società privata un credito senza scadenza, che non genera interessi e il cui tasso di interesse in seguito potrà crescere solo con l'accordo dei debitori, sarebbe un credito senza valore da svalutare completamente.

In questo contesto bisogna notare che la Germania sul suo enorme patrimonio estero netto in generale ha ottenuto solo degli interessi molto bassi. Se la Germania nel periodo che va dal dal 2008 al 2017 su queste attività estere nette avesse ottenuto lo stesso tasso di rendimento che aveva prima della crisi Lehmann, in questi anni ci sarebbero stati 600 miliardi di euro in più disponibili per il consumo di beni stranieri.

Per gli autori dello studio questi aspetti non sono rilevanti, perché il reddito proveniente dagli investimenti esteri non è nemmeno parte del prodotto interno lordo. Gli autori vedono il prodotto interno lordo tedesco come una misura di prosperità, anche se questo viene definito come i redditi dei tedeschi e degli stranieri realizzati in Germania più i deprezzamenti. Se per il loro confronto avessero usato il reddito nazionale, avrebbero potuto individuare le perdite.

Alla luce di questi deficit, lo studio del CEP dovrebbe essere considerato inutilizzabile. Ma sarà utilizzato lo stesso perché è l'acqua che serve al mulino di coloro che ora chiedono una ridistribuzione fiscale nella zona euro, per poter chiedere al presunto euro-profittatore tedesco di passare dalla cassa.


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sabato 9 marzo 2019

Venne, vide e abbassò i tassi di interesse

Per la FAZ Mario Draghi passerà alla storia come il primo presidente della BCE a non aver alzato i tassi di interesse e soprattutto lascerà al suo successore un'eredità molto pesante. Per la stampa conservatrice Draghi resta l'autore di un enorme trasferimento di ricchezza ai danni dei risparmiatori e dei pensionati. Ne scrive Philip Plickert nel suo pistolotto sulla FAZ.


Venne, vide e abbassò i tassi di interesse. Quando quasi otto anni fa Mario Draghi è diventato il presidente della Banca centrale europea, il suo primo atto ufficiale fu il taglio dei tassi. I tassi di interesse e i tassi sui depositi vennero rapidamente portati sotto lo zero.

Draghi sta per entrare nei libri di storia come il primo presidente della BCE sotto la cui presidenza i tassi di interesse sono stati solo ridotti, e mai aumentati. Anche dopo cinque anni di crescita economica relativamente forte della zona euro, i tassi restano ancora a zero.

Inoltre, con un programma di acquisto titoli per trilioni di euro ha ulteriormente allentato la politica monetaria. Per i risparmiatori, che soffrono a causa dei mini-interessi e la cui previdenza per la vecchiaia perde valore, è davvero spiacevole.

Molti problemi vengono solo posticipati

Il Consiglio direttivo della BCE, in previsione di sviluppi economici e inflattivi più deboli, ha quindi deciso di posticipare ulteriormente il primo rialzo dei tassi. Si ipotizza che ciò accadrà non prima del 2020, vale a dire dopo la fine del mandato di Draghi alla BCE, previsto per la fine di ottobre.

Il suo successore, a cui lascia un bilancio molto inflazionato, si farà carico di una pesante eredità. Se l'economia dovesse continuare a scivolare, non è chiaro in che modo la BCE potrebbe contrastare la situazione: i tassi di interesse già ora sono al livello piu' basso. Una ulteriore riduzione del tasso sui depositi, già ampiamente in terreno negativo, all'interno del consiglio BCE non viene sostenuta da nessuno, assicura Draghi. Non si è nemmeno parlato di una ripresa degli acquisti netti di obbligazioni.

Se è onesto, dovrebbe però ammettere di aver già usato la maggior parte della polvere da sparo a disposizione della banca centrale. Negli Stati Uniti dopotutto la Federal Reserve già tre anni fa ha osato fare il primo passo sui tassi di interesse: il loro tasso ufficiale di interesse è già oggi al due e mezzo per cento. Se si presentasse il rischio di una recessione, la banca centrale americana potrebbe contrastarlo in maniera efficace. La BCE è invece è nuda.

In Europa tuttavia ci sono alcuni fattori strutturali che impediscono una vera e propria uscita da una politica monetaria accomodante: la BCE con i suoi bassi tassi di interesse e gli acquisti di obbligazioni di fatto sta sostenendo i paesi fortemente indebitati. Ad esempio difficilmente l'Italia potrebbe far fronte ad un aumento dei tassi di interesse.

Anche alcune delle banche che in buona parte dell'Europa meridionale stanno ancora soffrendo per i crediti deteriorati, difficilmente potrebbero sopravvivere a un'inversione di tendenza sui tassi di interesse. Di fatto, la BCE, con la sua politica dei tassi a zero, sta gestendo una grossa ridistribuzione di ricchezza dai creditori e dai risparmiatori, in favore dei debitori.

Tutto ciò fa parte del prezzo da pagare per "il salvataggio dell'euro". Il maestro dei tassi a zero, Mario Draghi, lo sa bene, e pensa anche che si tratti di un suo traguardo storico. Ma alla fine molti problemi vengono solo spostati nel futuro. E anche questo lui lo sa bene.

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giovedì 31 gennaio 2019

La "Lex Audi" e il dominio dell'industria dell'auto tedesca in Ungheria

Nel paese che non fa entrare i migranti e che grazie al Fiorino ha ancora il cambio flessibile, i lavoratori dell'Audi di Győr dopo appena 3 giorni di sciopero hanno portato a casa un aumento salariale del 18%. Le aziende tedesche tuttavia restano di gran lunga il principale investitore estero nel paese e le case automobilistiche continuano ad imporre i propri interessi suggerendo ad Orban la famosa legge sulle 400 ore di straordinario, ribattezzata anche "Lex Audi". Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy


Lotta dei lavoratori a Győr

Continua l'azione dei lavoratori negli stabilimenti Audi di Győr, in Ungheria. Gli operai lo scorso giovedì hanno iniziato uno sciopero di una settimana per ottenere un aumento salariale del 18%. Attualmente all'assemblaggio di Győr il salario medio è di 1.100 euro lordi al mese; secondo i sindacati si tratta del 28 % in meno rispetto allo stipendio medio presso lo stabilimento Audi in Slovacchia e il 39 % in meno rispetto a quanto guadagnano in media i dipendenti Audi in Polonia, mentre i lavoratori Audi in Belgio guadagnano in media 3,6 volte i loro omologhi in Ungheria - nonostante un costo della vita che nelle città ungheresi come Győr non è significativamente inferiore rispetto all'Europa occidentale. I lavoratori chiedono un aumento salariale del 18%, almeno 75.000 fiorini (circa 236 euro). Pur restando i dipendenti Audi peggio pagati di tutto il continente, la controllata del gruppo Volkswagen si rifiuta di cedere alle loro richieste. Ecco perché nella sede di Audi a Ingolstadt, in Germania, il lavoro è fermo da lunedì: mancano i motori prodotti a Győr.

Ungheria paese di produzione dell'industria dell'auto

Audi Ungheria è il più grande investimento diretto estero in Ungheria con un volume di quasi nove miliardi di euro investiti a partire dal 1993. A Győr non solo vengono prodotte più di 100.000 auto all'anno, ma anche circa due milioni di motori installati nei veicoli dei marchi Audi e VW. Lo stabilimento nel suo genere è considerato il più grande di tutto il mondo. Oltre ad Audi, anche Daimler dal 2012 gestisce uno stabilimento in Ungheria; a Kecskemét, dove nel 2017 sono stati assemblati circa 190.000 veicoli, più che in qualsiasi altro sito di produzione ungherese. Mentre Daimler a Kecskemét sta costruendo un secondo stabilimento con un investimento di circa un miliardo di euro, anche BMW, la terza casa automobilistica tedesca, ha annunciato di voler costruire uno stabilimento in Ungheria. Nel nuovo sito vicino a Debrecen sarà realizzato un investimento da circa un miliardo di euro. Parallelamente alle tre principali case automobilistiche tedesche, anche diversi fornitori tedeschi si sono stabiliti in Ungheria, fra questi Bosch, Continental, Schaeffler e ZF Friedrichshafen. Alcuni di questi stanno anche espandendo le loro attività; Bosch, ad esempio, ha annunciato di voler ampliare il proprio centro di ingegneria a Budapest con un investimento da 120 milioni di euro. FAG Magyarország, una filiale del gruppo tedesco Schaeffler, ha appena aperto un nuovo stabilimento produttivo a Debrecen.

Dominio tedesco

Gli investimenti in costante crescita da parte dell'industria automobilistica tedesca, che si avvantaggiano dei bassi salari ungheresi, hanno portato a un duplice effetto. Da un lato l'industria automobilistica domina l'economia del paese: attualmente rappresenta quasi il 30 % della produzione manifatturiera. Un settore egemonizzato dalle società straniere, mentre le piccole e medie imprese nazionali, come illustrato in una presentazione austro-tedesca dell'IHK, "agiscono più a livello locale e sono poco coinvolte nella filiera dei produttori internazionali".[1] Fra le aziende straniere a dominare è l'industria tedesca. Oltre ad Audi, Daimler e BMW c'è Suzuki che ad Estzergom produce circa 176.000 vetture l'anno, mentre Opel a Szentgotthárd produce circa 500.000 motori all'anno; entrambe restano significativamente indietro rispetto alla produzione complessiva delle aziende tedesche in Ungheria. Secondo i dati dell'agenzia di commercio estero Germany Trade & Invest (gtai), quasi un quarto (22,9%) dello stock degli investimenti diretti esteri in Ungheria arriva dalla Germania; l'ipotesi secondo cui anche l'investitore numero due (Paesi Bassi con il 18,6%) e numero tre (Austria con il 10,6%) nascondano imprese parzialmente tedesche è plausibile; entrambi i paesi sono noti come postazioni per il rilancio degli investimenti esteri tedeschi. 

La "Lex Audi"

L'espansione delle fabbriche automobilistiche tedesche in Ungheria è dovuta non solo ai bassi salari, ma anche alla debolezza dei sindacati, almeno fino ad ora, e alle altre condizioni molto favorevoli per i gruppi industriali presenti nel paese. Ad esempio nel 2017 il governo del primo ministro Viktor Orbán ha ridotto i contributi per la sicurezza sociale dal 27,5% al 19,5% e abbassato l'aliquota dell'imposta sulle società al 9%; il secondo valore più basso dell'UE. La produzione totale dovrebbe aumentare da poco meno di 500.000 automobili nel 2015 a più di 710.000 nel 2025, fino ad oltre 780.000 nel 2027. La forza lavoro tuttavia scarseggia. E dato che il governo di Orbán non vuole l'immigrazione - compresa l'immigrazione di forza lavoro [2] - ha scelto una strada diversa e a dicembre ha approvato una legge che aumenta drasticamente l'orario di lavoro come sostituto dell'immigrazione. In futuro le aziende potranno obbligare i propri dipendenti a fare non 250 ore di straordinario, ma bensì fino a 400 ore di straordinario all'anno; la compensazione non dovrà avvenire entro un anno, ma entro tre anni. Gli osservatori concordano sul fatto che la legge entrata in vigore, di fatto consente la reintroduzione della settimana di sei giorni. Poiché la legge difende principalmente l'interesse delle case automobilistiche tedesche, in Ungheria è stata ribattezzata non solo la "legge schiavitù", ma anche come "Lex Mercedes" o "Lex BMW" o "Lex Audi". [3] 

Il sistema Orbán

La gestione dell'Ungheria secondo gli interessi delle aziende tedesche di fatto permette al primo ministro ungherese di portare avanti il corso repressivo dello Stato [4]. ​​I siti automobilistici danno al paese un ruolo importante nel sistema dell'economia continentale - mentre la crescente volontà di cooperare da parte dell'industria tedesca garantisce ad Orbán un certo livello di supporto presso la potenza centrale dell'UE.

Messo in discussione

A causa delle recenti proteste in Ungheria, per la prima volta questo modello tuttavia viene messo in discussione. L'opposizione era già scesa in piazza contro la nuova legge sugli straordinari con una forza e una unità mai viste prima in Ungheria. A dicembre i lavoratori dello stabilimento Daimler di Kecskemét, lottando hanno ottenuto un aumento salariale del 22% per quest'anno, e di un altro 13% per il prossimo anno. L'attuale sciopero presso la Audi di Győr aumenta la pressione per ridurre i super-profitti delle aziende tedesche nell'Ungheria di Orban.
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mercoledì 30 gennaio 2019

NordLB - Un'altra banca salvata con il denaro dei contribuenti

E' sempre piu' probabile un salvataggio con i soldi pubblici per la Landesbank di Hannover. La politica regionale preferisce un consorzio di ricapitalizzazione formato dal Land e dalle casse di risparmio del nord, e sembra voler scartare l'opzione dei fondi americani. Per ora la Bassa Sassonia si farà carico di ricapitalizzare la banca con 2.5 miliardi di euro, ma le analogie con il caso HSH Nordbank lasciano ipotizzare che anche in questo caso avremo a che fare con un altro pozzo senza fondo. Ne scrive Die Welt


Il 22 gennaio il governo regionale della Bassa Sassonia ha preso una decisione storica. A partire dal 2020, come comunicato dal Ministro delle Finanze regionale Reinhold Hilbers (CDU) subito dopo la riunione del governo rosso-nero, il cosiddetto freno all'indebitamento (Schuldenbremse) si applicherà anche alla sua regione. Entro quest'anno nella costituzione regionale verrà inserita un corrispondente articolo. 

Dopo questa modifica della costituzione, sia l'attuale che i prossimi governi della Bassa Sassonia non potranno spendere più soldi di quelli che hanno già incassato. Ma per il Land del nord, già fortemente indebitato, la situazione potrebbe diventare ancora più complessa di quanto non lo sia già ora. 

Perché sul governo della Bassa Sassonia e sui suoi contribuenti, lentamente, ma apparentemente in maniera inarrestabile, si sta formando una valanga di spesa che potrebbe gettare al vento tutta la precedente pianificazione finanziaria. La Nord/LB, la banca pubblica regionale della Bassa Sassonia, ha urgentemente bisogno di capitale fresco. 

Con molta fatica e fra tante difficoltà ha superato l'ultimo stress test della Banca centrale europea piazzandosi ultimo fra tutti gli istituti tedeschi analizzati. Nei circoli bancari si dice sia necessario un aumento di capitale di almeno 3,5 miliardi di euro - altrimenti Nord/LB rischierebbe la risoluzione. Se il nuovo capitale alla fine sarà sufficiente per rendere l'istituto in grado di affrontare il futuro, lo possono sapere solo le stelle. 

Saranno i contribuenti a dover pagare per la mancanza di capitale 

Tuttavia c'è la volontà di andare avanti ad ogni costo. La mancanza di capitale di Nord/LB, se possibile, dovrà essere coperta con dei fondi pubblici. E questo nonostante il fatto che due investitori finanziari statunitensi nel fine settimana si siano dichiarati interessati. Secondo gli ambienti bancari, le holding finanziarie Cerberus e Centrebridge sarebbero interessate alla Landesbank. Cerberus controlla già HSH Nordbank insieme a un gruppo di investitori. 

Secondo i piani della Cancelleria di Stato di Maschsee, il Land, di gran lunga il maggiore azionista con il 59 % dell'Istituto, nelle operazioni di salvataggio farà la parte del leone e dovrà sborsare 2,5 miliardi di euro. E con esso anche i contribuenti della Bassa Sassonia. Due miliardi e mezzo sono una bella somma di denaro, con la quale, come calcolato dall'opposizione della FDP, si potrebbero sanare i bagni di tutte le scuole della Bassa Sassonia almeno 20 volte. E a dire il vero i contribuenti tedeschi non sarebbero mai piu’ dovuti passare dalla cassa per salvare una banca. 

La Sassonia-Anhalt, che ha il 5% del capitale di Nord/LB, come l’Associazione delle Casse di risparmio della Bassa Sassonia, della Sassonia-Anhalt e del Meclemburgo-Vorpommern (insieme hanno il 35 per cento) dovrebbero partecipare all’aumento di capitale con diverse centinaia di milioni. Alla manovra di salvataggio dovrebbero partecipare anche i fondi per la tutela del risparmio delle casse di risparmio e di altre Landesbank. Secondo il piano architettato la scorsa settimana sotto la supervisione della BCE, il pacchetto di salvataggio dovrà essere completato entro febbraio. 

Ma la partecipazione diretta degli investitori privati in Nord/LB tuttavia sarebbe teoricamente ancora possibile. I fondi di private equity Cerberus e Centerbridge sabato mattina hanno presentato un'offerta per rilevare il 49,8% degli attivi della Landesbank. La proposta include, tra le altre cose, che i due investitori mettano più di un miliardo di euro in NordLB, mentre il Land Bassa Sassonia, l'azionista di controllo, dovrebbe mettere a disposizione una parte del capitale necessario, almeno cosi’ si dice negli ambienti finanziari. In ogni caso, le opportunità, ma anche i rischi associati all'operazione sulla dissestata Nord/LB, rimarranno in capo al contribuente. 

La risanamento di una Landesbank in passato è già fallito 

Secondo Hilbers, l'offerta degli investitori privati sarebbe la conferma che la banca ha ancora buone potenzialità. L'offerta sarà valutata alla svelta e discussa con le parti interessate, il ministro delle Finanze tuttavia ha dichiarato: "contemporaneamente sto spingendo per i colloqui con il settore pubblico". Per lui è importante raggiungere una soluzione di lungo periodo sostenibile e praticabile e con una struttura redditizia. "Non si potrà semplicemente andare avanti come si è fatto fino ad ora" e non ci sarà nemmeno "una soluzione di breve termine", ha detto durante il fine settimana. 

Il pubblico, secondo il governo di Hannover, dovrà avere pazienza fino a quando l'accordo - sia esso con le casse di risparmio e le banche pubbliche, oppure con gli investitori privati - sarà concluso. I Verdi e la FDP avrebbero voluto una sessione speciale del parlamento regionale sul tema Nord/LB, ma a causa dei rapporti di forza nel parlamento regionale dovranno fare affidamento sulla buona volontà della Groko della Bassa Sassonia. 

Ma proprio quello che in questi giorni il governo regionale sta cercando di fare, solo 160 chilometri più a nord in passato è già finito male una volta. Esattamente ad Amburgo, dove la città anseatica e la regione dello Schleswig-Holstein quasi dieci anni fa hanno assicurato la sopravvivenza della loro Landesbank con i soldi del contribuente. Nel 2008 e nel 2009, le due regioni avevano anche versato tre miliardi di euro nella loro Landesbank in crisi, ed emesso garanzie per altri dieci miliardi di euro. 

I politici ne avevano sottolineato "la grande importanza" per la regione 

L'allora senatore delle finanze di Amburgo, Michael Freytag, e il ministro delle finanze di Kiel, Rainer Wiegard (entrambi CDU), all'epoca si erano mostrati fiduciosi come fa oggi, dieci anni dopo, il loro collega di partito della Bassa Sassonia, Reinhold Hilbers. Con quelle stesse iniezioni di risorse finanziarie negoziate a porte chiuse, secondo il duo Freytag/Wiegard, sarebbe stato tracciato "un sentiero decisivo per la capacità di HSH Nordbank di sopravvivere". 

Entrambi avevano giustificato la loro decisione con la "grande importanza" che HSH rivestiva per l’area economica e con il fatto che praticamente la banca sarebbe indispensabile per la crescita e la prosperità della Germania del nord. Quanto sia costato il risultato di questa requisitoria è ben noto. 

Poco più di 16 miliardi di euro è la somma che i cittadini di Amburgo e dello Schleswig-Holstein nei prossimi anni dovranno pagare per aver deciso di salvare la loro Landesbank, almeno secondo i calcoli fatti dalla "Hamburger Abendblatt". L'elenco delle promesse secondo le quali il governo regionale non sarebbe mai piu' dovuto intervenire nel settore bancario è così lungo che potrebbe essere usato per tappezzare di carta le pareti di vetro del parlamento di Kiel o i rivestimenti in legno del Parlamento di Amburgo. 

La stessa HSH a dicembre è stata venduta ad un prezzo da saldo al gruppo finanziario internazionale creatosi intorno al gigante degli investimenti statunitense Cerberus. Ed è proprio questa società che ora sarebbe interessata ad investire in Nord/LB. Probabilmente Cerberus finirà per acquistare solo alcuni crediti incagliati, a causa dei quali Nord/LB rischia di finire sotto la linea di galleggiamento, come accaduto a suo tempo alla HSH. 

La situazione per anni è stata minimizzata 

Come all'epoca di Freytag e Wiegard in questi ultimi due anni anche i ministri delle finanze della Bassa Sassonia hanno continuato a minimizzare la situazione della banca della regione. In primo luogo Peter-Juergen Schneider della SPD, il quale all’epoca aveva dichiarato che l'acquisizione della dissestata Bremer Landesbank, avvenuta nel 2016, non avrebbe mai potuto danneggiare la Nord/LB. 

In seguito alle elezioni regionali del 2018, Hilbers è diventato il successore di Schneider ed è lui che ora ad Hannover vorrebbe fare quello che i colleghi di Amburgo e Kiel non sono riusciti a fare: nel ruolo di presidente e capo negoziatore usare il denaro dei contribuenti per stabilizzare una Landesbank allo sbando. 

I motivi di Hilber sono altrettanto onorevoli di quelli dei suoi amici di partito di Amburgo e Kiel. Anche lui considera la banca "un partner importante" dell'economia della Bassa Sassonia e un importante datore di lavoro della regione. Stando alle dichiarazioni rilasciate la scorsa estate dal ministro delle Finanze al "Weser-Kurier" di Brema, il governo della regione si impegna per "continuare ad avere un'influenza decisiva sulle sorti di questa banca". 

Il pericolo che anche Nord/LB per la Bassa Sassonia possa diventare un pozzo senza fondo come lo è stata la HSH per Amburgo e Brema, secondo il cristiano-democratico, sempre molto sicuro di sé, non esiste. Secondo quanto dichiarato da Hilbers alla WELT AM SONNTAG l'obiettivo delle sue negoziazioni sarebbe quello di "rafforzare i coefficienti patrimoniali della Nord/LB e rendere la banca in grado di affrontare il futuro". 

Fusione in una Megasparkasse? 

Un obiettivo che il ministro delle finanze della Bassa Sassonia condivide con Helmut Schleweis, il presidente dell'associazione delle Sparkasse tedesche. Egli tuttavia ritiene che la Landesbank dovrebbe cambiare radicalmente - e nel lungo periodo non dovrebbe restare indipendente. Egli ha in mente - diversamente da una Nord/LB autonoma e alla connessa influenza esercitata dalla regione della Bassa Sassonia - una Megasparkasse, un'associazione di banche regionali sul modello delle banche cooperative. 

Da anni ormai le numerose Landesbank sono una spina nel fianco delle casse di risparmio. Sebbene dopo la crisi finanziaria il loro numero sia diminuito drasticamente, i cinque istituti restanti cercano ancora una loro legittimazione. Le banche spesso si portano via i clienti fra di loro. Ma nonostante l'apparente inefficienza, l'ostinazione dei rispettivi signorotti regionali è grande. 

Anche la crisi di Nord/LB per il momento non cambierà molto. I negoziati per una fusione con la Landesbank dell'Assia sono miseramente falliti. E dato che la risoluzione della Nord/LB per le casse di risparmio sarebbe anche piu’ costosa rispetto all’invio di capitale fresco in Bassa Sassonia, probabilmente per loro non resterà altra scelta che mettersi un’altra volta le mani in tasca - almeno se l'accordo con gli investitori privati dovesse fallire. Alcune casse di risparmio continuano ancora oggi a soffrire per la megalomania di WestLB, la cui eredità si cerca di smaltire sin dal 2012. 

Anche la Commissione europea vuole esaminare attentamente l'accordo raggiunto dalla Bassa Sassonia. Per le autorità garanti della concorrenza di Bruxelles, le iniezioni di capitale fatte con il denaro dei contribuenti non rappresentano certo una soluzione auspicabile. Chi conosce la materia ipotizza quindi che l'operazione di salvataggio pubblico dell'Istituto sarà soggetta a delle condizioni, che probabilmente richiederebbero una ristrutturazione della banca, combinata con una cura dimagrante. Uno scenario possibile è che la Braunschweigische Landessparkasse, controllata da Nord/LB, venga sciolta. Di fatto un assist al grande fan del consolidamento Schleweis.


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martedì 29 gennaio 2019

Perché gli industriali non ne vogliono sapere di guarire dall'esportismo

Nonostante gli enormi avanzi commerciali degli ultimi anni, ai primi segnali di rallentamento delle esportazioni i giornaloni e gli istituti di ricerca vicini alla lobby dell'export fanno partire i soliti allarmi sul costo del lavoro. Gli industriali tedeschi di fatto non ne vogliono sapere di collaborare con i paesi del sud e di far guarire la prima economia europea dalla grave patologia che la affligge, l'esportismo. Ne parla Die Welt su dati IW


Costosi ma buoni e affidabili, questa almeno è la reputazione che i prodotti dell'industria tedesca hanno all'estero. I dati sull'export tedesco riempiono di orgoglio e mostrano che i prodotti Made in Germany sono richiesti in tutto il mondo. Recentemente le esportazioni tedesche, tuttavia, sembrano essersi fermate. Ciò è dovuto anche al fatto che i nuovi dazi e le minacce di protezionismo stanno frenando il commercio internazionale. 


Ma una parte dei problemi sembra essere fatta in casa. La Repubblica federale con i suoi costi elevati si trova nella parte piu' alta della scala dei prezzi e a soffrire per l'indebolimento dell'economia globale non ci sono solo i beni industriali sulla cui produzione la Germania si è specializzata. 

Spesso la Germania deve sentirsi ripetere la solita critica: i tedeschi avrebbero ottenuto i loro successi nell'export grazie a un'eccessiva moderazione salariale. I dati dell'Institut der Deutschen Wirtschaft (IW) tuttavia mostrano che per quanto riguarda la produzione di beni industriali la Repubblica federale non può essere considerata un paese a basso costo del lavoro. 

Gli economisti dell'istituto di ricerca (vicino ai datori di lavoro) hanno calcolato il livello raggiunto dal costo del lavoro tedesco rispetto agli standard internazionali. La risposta è: la Germania è un paese di produzione costoso e l'accusa di dumping o di una iniqua moderazione salariale non può essere confermata dai fatti. "In Germania non si può in alcun modo parlare di una schiacciante compressione salariale", afferma Christoph Schröder, economista presso l'IW di Colonia. 


L'analisi dell'istituto è a disposizione di WELT e mostra ad esempio che le aziende francesi, in termini di costo del lavoro per unità di prodotto, possono produrre a prezzi molti simili a quelli tedeschi. In Belgio, Austria, Spagna o Paesi Bassi i costi sono ancora più bassi. Le loro attività dal punto di vista dei prezzi si trovano quindi in una situazione competitiva migliore rispetto a quelle del nostro paese 

Le esportazioni tedesche stanno perdendo slancio 

Recentemente le esportazioni in quanto motore di crescita dell'economia tedesca hanno perso slancio. A novembre, secondo gli ultimi dati disponibili, le esportazioni tedesche sono addirittura diminuite rispetto al mese precedente. "Il motore della crescita sta balbettando", ha detto Carsten Brzeski, economista capo di ING in Germania, il modello di business orientato all'export "Made in Germany" inizia a vacillare. 

Ma non bisogna necessariamente arrivare al peggio; in passato, il settore delle esportazioni tedesche si è dimostrato estremamente resistente rispetto alle tensioni globali. "La combinazione unica fra specializzazione di prodotto e diversificazione geografica ha contribuito a compensare la debolezza e i problemi dei singoli partner commerciali", spiega Brzeski. Le cose però ora potrebbero cambiare. 

Solo un crollo dell'economia mondiale simile a quanto accaduto nel 2008-09 potrebbe far affondare le esportazioni tedesche, ricorda Brzeski. Anche se la situazione attuale nel complesso è ancora molto diversa rispetto a quella della crisi finanziaria, nel settore delle esportazioni è tuttavia possibile fare alcuni parallelismi: problemi sui mercati emergenti, le tensioni tra Washington e Pechino, il protezionismo americano, un possibile rallentamento dell'economia cinese e il rischio di una hard Brexit. 

"Sembra che in questo momento nel commercio mondiale ci siano piu' crisi di quante l'industria dell'export tedesca ne possa affrontare. Anche l'euro debole ha fatto poco per la crescita dell'export tedesco", dice l'economista. 


Il costo del lavoro in Germania è relativamente alto 

In una fase di rallentamento economico la questione dei costi di produzione viene di nuovo presa piu’ seriamente rispetto a quanto non accadesse pochi anni fa. Il risultato è chiaro: esaminando i salari e il costo del lavoro degli altri paesi, la Germania è sicuramente uno dei paesi industrializzati più costosi al mondo. Nella classifica dell'IW sui paesi con il costo del lavoro piu' alto la prima economia europea si trova al quarto posto. 

"Solo in Norvegia, Belgio e Danimarca il costo del lavoro è più alto che nel nostro paese", dice Michael Grömling, capo del gruppo di ricerca sull'analisi macroeconomica e congiunturale all'IW. Anche l'idea che la Germania, grazie ad un euro troppo sottovalutato rispetto alla forza dell’economia tedesca, possa produrre a dei prezzi molto piu' bassi rispetto a quelli degli altri paesi europei non sembra essere corroborato dai dati. 

"Nel complesso, la Germania si trova sullo stesso livello degli altri paesi dell'area dell'euro. Il confronto fra i paesi non indica un particolare vantaggio competitivo in termini di costo per la Germania", osserva Grömling. Sebbene il costo della manodopera in Francia e nei Paesi Bassi sia un po' piu' basso che in Germania, in Belgio invece un po’ piu' alto. 

Il bilancio finale non cambia se gli economisti, invece del solo costo del lavoro, prendono in considerazione anche la produttività. Mettendo in relazione il costo del lavoro con la produttività, il risultato è il cosiddetto costo unitario del lavoro e cioè il costo del lavoro per unità di prodotto. Il costo del lavoro per unità di prodotto è considerato una misura importante della competitività di prezzo di una nazione. 

Anche il costo del lavoro per unità è al vertice 

Se la produttività di un'azienda è elevata, l'azienda può anche pagare salari e contributi sociali elevati senza mettere a rischio la propria competitività. La buona notizia: in termini di produttività le aziende tedesche sono al di sopra della media. Le cattiva notizia: non sono abbastanza produttive da poter compensare i recenti aumenti dei costi. 


"Il costo del lavoro per unità di prodotto nell'industria tedesca è elevato, sebbene la produttività sia chiaramente superiore rispetto alla media dei paesi industrializzati", afferma lo studio dell'IW. I lavoratori sono più produttivi, ad esempio, nei paesi scandinavi, in Belgio, nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti. 

In termini di costo unitario del lavoro, oltre a Norvegia e Gran Bretagna, anche Italia e Francia risultano essere dei paesi costosi. Ma poi c‘è la Repubblica federale. Al contrario, le aziende possono produrre ad un prezzo piu' basso in Belgio, nei Paesi Bassi, in Finlandia e in Grecia. 

Molto più economico è anche il Giappone (86% della massa salariale tedesca) e gli Stati Uniti (80%). Gli effetti dei tassi di cambio, come ad esempio l'euro debole degli ultimi anni, sono già inclusi in questo calcolo. Non si può parlare di metodi sleali che favoriscano gli esportatori tedeschi. 

"In definitiva, l'elevato livello del costo del lavoro per unità dimostra che in Germania il livello di produttività non è tale da compensare lo svantaggio derivante dall'elevato costo del lavoro", afferma Grömling. Per quanto riguarda il costo del lavoro per unità, in media i paesi dell'area dell'euro sono all’incirca alla pari con la Repubblica federale. L'IW colloca il livello unitario del costo del lavoro dei paesi dell'unione monetaria, esclusa la Germania, al 97% di quello tedesco. 

L'economia della Germania in termini di costi non è in cima alla classifica 

"Il confronto fra i livelli non evidenzia un particolare vantaggio competitivo della Germania in termini di costi", sottolineano i ricercatori dell'IW. E i dati mostrano inoltre che la più grande economia d’Europa in termini di disciplina dei costi non ha fatto meglio degli altri. Dal 2011, infatti, non è stata osservata alcuna moderazione salariale, o almeno una moderazione che abbia conferito all'economia più grande d'Europa degli evidenti vantaggi competitivi, come invece più volte suggerito dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump. 

Non sembra esservi tuttavia alcun motivo per farsi prendere dal panico, e alcuni economisti mettono addirittura in guardia da una eccessiva moderazione salariale che finirebbe per colpire i consumi interni. "Negli ultimi anni, la competitività di prezzo della Germania effettivamente si è leggermente deteriorata, sia verso l'area dell'euro che a livello globale", ammette Brzeski. 

Questa riduzione di competitività tuttavia può essere sopportata: "salari più alti hanno favorito il consumo interno e hanno reso il modello economico tedesco un po 'più equilibrato", afferma l'uomo di ING. 

All'industria delle esportazioni potrebbe anche non piacere, ma l’economia nel suo complesso in questo modo sta diventando a prova di crisi. Inoltre il costo unitario del lavoro non può essere considerato l'unico criterio di valutazione per un'economia competitiva. Per le innovazioni tecnologiche e i prodotti legati agli stili di vita, i prezzi in tutto il mondo sono molto più alti che non per i beni prodotti in serie.

lunedì 28 gennaio 2019

Heiner Flassbeck - Le gravi responsabilità del dogmatismo tedesco

"Il demone neo-liberista dell'UE ha sede a Berlino", e ancora "chiunque voglia riformare l'Europa non si deve trasferire a Bruxelles ma a Berlino", scrive il grande economista tedesco. Flassbeck non ha dubbi: il vero fallimento in Europa non è la Brexit, ma la leadership politica tedesca, troppo dogmatica per poter salvare la moneta unica. Come sempre un ottimo Heiner Flassbeck da Makroskop.eu





In questi giorni in Germania e altrove molti cosiddetti "amici dell'Europa", con il solito ditino puntato verso il Regno Unito, ci spiegano perché non si riesce a portare a termine la tanto indicibile Brexit e perché il paese si sta rendendo ridicolo in ogni modo possibile - in verità anche il partito laburista e Jeremy Corbyn non sono da meno. Ora è chiaro che non è cosi' semplice voltare le spalle all'Europa senza doverne subire le conseguenze, sostengono i conservatori. Ed è evidente che è necessario affrontare seriamente il tema di una riforma fondamentale dell'UE, invece di continuare a sperare in una rottura dell'Europa, ci dicono invece le sinistre. (...) 



Io stesso non ho mai avuto una grande opinione della Brexit, perché era chiaro sin dall'inizio del processo di separazione che sul lato del Leave c'erano idee estremamente ingenue in merito a quello che si poteva ottenere con l'uscita dall'UE. C'era inoltre un governo conservatore che sostanzialmente non voleva fare politiche diverse rispetto a quelle della maggioranza dei paesi dell'Europa continentale. La campagna del Leave, ad esempio, mirava all'esaltazione del libero commercio e alla limitazione della migrazione di manodopera dall'UE. Ma ciò non era né realizzabile né poteva costituire un serio programma di politica economica.




I soliti resoconti sulla Brexit grondanti Schadenfreude, tuttavia, sono solo un'altra faccia della profonda ignoranza tedesca nei confronti delle preoccupazioni europee. Continuo a pensare che sia giusta l'analisi che individua le principali ragioni del voto britannico nel fallimento dell'Europa e dell'eurozona sui temi economici e in particolare nell'egemonia tedesca esercitata sin dall'inizio della crisi dell'euro. Se la crescita economica dopo il 2009 fosse stata anche solo la metà di quello degli Stati Uniti, e se alla Grecia fosse stato riservato un trattamento ragionevole e al tempo stesso umano, nulla lascia pensare che si sarebbe comunque arrivati alla Brexit.



Ritengo inoltre che un secondo referendum possa essere l'unica onesta via d'uscita da questa situazione complessa. All'epoca del voto sulla Brexit il popolo britannico ha deciso in una situazione di "errore oggettivo" perché nessuno gli aveva spiegato cosa sarebbe realmente accaduto in caso di uscita e quali condizioni potevano essere realisticamente negoziabili con il resto d'Europa. Ora che è stato redatto un progetto di accordo, in ogni caso è molto più facile farsene un'idea ragionata. L'argomento secondo il quale un altro referendum sarebbe una ferita per la società britannica è poco convincente. Un nuovo referendum sarebbe invece l'unico modo per riportare la società britannica su un percorso costruttivo, indipendentemente da come finirà.

Il vero fallimento

Ma le posizioni sull'UE presenti nel dibattito tedesco, fra di loro contrapposte, non riescono a individuare la vera posta in gioco. L'UE non può essere né santificata - indipendentemente da come appare e da come si comporta -, né lo scioglimento dell'Unione europea da solo può risolvere tutti i problemi. Albrecht Müller sulle Nachdenkseiten giustamente sottolinea che gli abusi neo-liberisti in Germania vengono perpetrati in maniera completamente indipendente dall'UE. Di solito non si dà sufficientemente evidenza al fatto che in Europa sotto la "leadership" tedesca le cose vadano oggettivamente molto male e che questo fatto sia tutt'altro che una coincidenza.

Il riferimento ai trattati europei e in particolare al trattato di Maastricht, firmato da tutti gli Stati membri, non aiuta a chiarire la questione. I trattati europei sono lo sbocco naturale del neoliberismo tedesco, spinto dalla CDU e dalla FDP dopo il "cambiamento spirituale e morale" nei primi anni '80. La maggior parte dei partner europei ha firmato i trattati europei nella speranza che alla fine "nulla venga servito cosi' caldo come è stato cotto". Bisogna andare incontro ai tedeschi per indurli, almeno formalmente, ad aderire all'unione monetaria, o meglio queste erano le aspettative prima della firma del Trattato di Maastricht. Piu' avanti poi, in qualche modo, si riuscirà ad includere la Germania in un quadro di interpretazione piu' pragmatica dei trattati.

Ed era un'aspettativa del tutto realistica data l'interpretazione flessibile che oggi viene data del ruolo della politica monetaria - e le critiche che ad essa vengono mosse. La BCE in maniera relativamente elegante si è sottratta all'ingessatura tedesca sul divieto di finanziamento agli stati attraverso una sua interpretazione della politica monetaria, che nel frattempo, su insistenza della Corte costituzionale tedesca, è stata piu' volte confermata anche dalla Corte di Giustizia Europea. Il Quantitative Easing era ed è una misura che si muove nella zona grigia dei trattati, chiaramente ragionevole, ma che dalla Germania è sempre stato attaccato con forza.

Quando si parla di politica monetaria, bisogna anche tenere presente che solo vent'anni fa in Germania, persino nominare la banca centrale in una dichiarazione politica era considerato un tabù politico. Oggi invece, ogni principe della provincia bavarese può criticare violentemente la BCE senza che a nessuno al Ministero delle Finanze o alla Cancelleria venga in mente di chiedere piu' moderazione alle parti nel criticare un'istituzione politicamente indipendente. Anche questo è un pezzo di normalità europea che si allontana in maniera positiva dal dogmatismo tedesco.

La vera disgrazia europea è avvenuta proprio nel momento in cui, dopo la crisi finanziaria globale, la grande, ma non ancora cosi' potente Germania è diventato il principale paese creditore e investitore. E a tal fine è stata decisiva la posizione di avanzo commerciale con l'estero dei tedeschi, ottenuta nei primi dieci anni dell'euro grazie al suo dumping salariale. Poiché per quei paesi che stavano perdendo l'accesso ai mercati finanziari la Germania restava la nazione creditrice più importante, il paese è finito in una posizione di potere che non era affatto in grado di gestire.

E poiché la Germania in termini economici sta andando ancora relativamente bene, negli ultimi anni è emersa una tipica mentalità da professorone tedesco che sta appesantendo l'Europa più di ogni altra cosa. Da un lato non c'è la volontà di prendere atto della  difficile situazione in cui si trovano gli altri paesi. E quando questa viene presa in considerazione, allora ti viene immediatamente detto che gli altri non hanno fatto i "compiti a casa". Proprio a nessuno in Germania viene in mente che fra nazioni civili non è affatto comune che ci sia un paese che distribuisce i compiti da fare agli altri paesi?

Ma il dogmatismo tedesco non avrebbe mai potuto giocare un ruolo decisivo nella crisi se la BCE avesse agito come una normale banca centrale. Se avesse trattato gli stati membri dell'unione monetaria come degli stati che hanno delle difficoltà sul mercato dei capitali, come del resto avrebbe dovuto fare la propria banca centrale. Tuttavia ha scelto di non farlo, mal giudicando i propri compiti, e li ha trattati allo stesso modo in cui il Fondo Monetario Internazionale tratta gli stati in crisi - inclusa la condizionalità neoliberista che ha aperto porte e portoni al dogmatismo tedesco.

Spirito tedesco ...

Non c'è nulla da minimizzare: il demone neo-liberista dell'UE ha sede a Berlino. Accanto alla politica salariale e al mercato del lavoro, la questione centrale resta quella del finanziamento agli stati da parte della banca centrale, questione che prima o poi porterà a una rottura. Nel lungo periodo un'unione monetaria può funzionare solo se la banca centrale in ogni situazione si considera come la banca centrale di ogni singolo paese. Ma qui, ancor più che nel quantitative easing, la BCE dal punto di vista tedesco è vincolata dal divieto di finanziamento agli stati previsto dal Trattato di Maastricht.

Ma ancora una volta la posizione tedesca è più che discutibile. Perché resta una questione completamente aperta decidere se ciò che dovrebbe fare la BCE in una situazione di crisi può essere ancora considerato come un qualsiasi finanziamento agli stati nel senso di quanto previsto dal Trattato di Maastricht. Ciò a cui il trattato si riferisce è senza dubbio il finanziamento a lungo termine della spesa pubblica, in quanto ci si aspettava che questo avrebbe potuto portare all'inflazione. Abbiamo dimostrato in piu' occasioni che ciò è sbagliato; ma durante una crisi non si tratta mai di questa eventualità, ma di qualcosa di completamente diverso.

Una grave situazione di crisi significa che il mercato dei capitali si aspetta che un paese non sarà più in grado di rimborsare i prestiti contratti in euro. Se la banca centrale vuole bloccare queste aspettative, come del resto fanno ogni giorno molte banche centrali in caso di speculazione sulla valuta, deve acquistare titoli di stato del paese interessato. Poiché nell'unione monetaria non ci sono piu' le diverse valute, il rendimento dei titoli di stato funge da surrogato per la valutazione del movimento di una valuta, in quanto fa riferimento al prezzo di un titolo scambiato a livello internazionale.

Se la BCE in una situazione estrema dovesse operare una "gestione dei corsi" si metterebbe di traverso alle aspettative dei mercati poiché ha deciso che queste sono sbagliate o eccessive. Allo stesso modo la Banca nazionale svizzera (BNS) da anni gestisce il corso del franco e contemporaneamente "finanzia" gli eurostati dato che invece di mantenere in contanti il denaro convertito in euro acquista obbligazioni governative. Perché la BCE non dovrebbe fare ciò che invece è naturale per la banca centrale svizzera? Ovviamente finanziare gli stati della zona euro non è un obiettivo della BNS, si tratta piuttosto di una politica per contrastare i movimenti irrazionali del mercato e nient'altro.

... il demone tedesco

Tuttavia la "legalizzazione" di queste semplici operazioni di politica monetaria, lo si può già immaginare, è sicuramente destinata a fallire a causa del demone tedesco degli ultimi dieci anni. Perché non solo non abbiamo imparato nulla, ma anche perché in programma ci sono dei concreti passi indietro. Nell'ambiente degli economisti e dei politici conservatori tedeschi viene generalmente accettato il fatto che per rendere l'unione monetaria "a prova di futuro" sia necessario un totale divieto di intervento della BCE. E ciò significa nient'altro che proprio il principale paese responsabile della miseria vuole ritirare dal commercio i farmaci per la sua cura. Per i paesi partner ciò significava dover vivere con un trattato che nessuno avrebbe mai voluto fosse in questa forma, perché nessun paese con la firma del trattato di Maastricht intendeva rinunciare ad avere una banca centrale. Nessuna persona ragionevole lo può desiderare e con un tale errore di costruzione l'unione monetaria non può certo sopravvivere. Uscire potrebbe essere una follia, ma anche restare dentro certamente lo è.

Posso solo ripetere quello che ho già detto in piu' occasioni: chiunque voglia riformare l'Europa non si deve spostare a Bruxelles ma a Berlino. Chi come tedesco mette in discussione l'unione monetaria perché non vuole prendere in considerazione il giudizio di Bruxelles sui problemi strutturali della costruzione, deve immaginare la follia senza limiti con cui dovrebbe confrontarsi nel caso in cui ci fosse un governo tedesco non piu' legato all'Europa. Chi come me, con consapevolezza dei fatti, ha vissuto il modo in cui una coalizione permanente (non eletta) fra una Bundesbank tedesca "indipendente" e quasi ogni governo di ogni colore nel corso dei decenni ha preso una decisione sbagliata dietro l'altra, avrà i brividi ad immaginarsi un governo tedesco finalmente "liberato" dai vincoli europei.