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sabato 3 novembre 2018

Handelsblatt: la manovra italiana potrebbe essere la scelta giusta

Sulla stampa tedesca "di qualità" non è facile trovare una piccola apertura politica nei confronti della legge di bilancio italiana. Su Handelsblatt ci prova il prof. Bert Rürup, capo-economista nonché commentatore di punta del quotidiano economico-finanziario di Düsseldorf: cari amici tedeschi, la manovra italiana di per sé non è sbagliata, molto dipenderà dai provvedimenti con cui sarà attuata, l'Europa puo' fare passi avanti solo se il culto delle regole fini a se stesse, tipico dei nord-europei, viene affiancato dal sano pragmatismo dei popoli latini. Da Handelsblatt 


La protesta di Roma contro le regole di bilancio dell'UE è giusta e sbagliata allo stesso tempo. È senz'altro vero che il governo italiano sta mettendo in discussione le norme fiscali esistenti. Ma proprio questa battaglia potrebbe aiutare a rilanciare la tanto attesa modernizzazione dei limiti all'indebitamento, ormai decisamente antiquati.

Quando nel febbraio 1992 il ministro delle Finanze Theo Waigel e Hans-Dietrich Genscher e le loro undici controparti dell'UE firmarono il trattato di Maastricht, i membri dell'Unione monetaria si impegnarono a non far aumentare il livello del debito pubblico oltre il 60% del PIL nazionale. Inoltre, il deficit di bilancio annuale non doveva superare il 3% del PIL delle loro economie.

Ma queste regole sin dall'inizio sono state solo una stampella, una sostituzione incompleta per un accordo impossibile su una vera unione fiscale. E da quella siamo ancora molto lontani.

La soglia del 60% era approssimativamente uguale alla media ponderata del debito pubblico effettivo nei paesi dell'UE di allora. Allo stesso modo il criterio del deficit al tre percento non aveva alcuna giustificazione analitica.

Questo limite al deficit si basa su una semplice "regola del tre". A quel tempo, infatti, si presumeva che i paesi della zona euro avrebbero potuto registrare una crescita economica nominale del cinque percento.

Il tasso di crescita nominale è la somma della crescita reale più l'inflazione. Combinando questa crescita economica nominale con un rapporto annuale del disavanzo del 3%, dal punto di vista aritmetico il livello di indebitamento converge inevitabilmente verso il 60 %.

A parte il Belgio, con il suo rapporto debito/PIL che allora era circa al 130% e l'Italia a circa il 100%, nessun politico ragionevole all'epoca pensava che il rispetto del limite del 60% potesse diventare un problema serio.

Nel 2012, tredici anni dopo l'introduzione dell'euro, tutti i membri dell'UE, ad eccezione del Regno Unito e della Repubblica Ceca, hanno siglato il Fiskalpakt. Questo prevede che il disavanzo strutturale  a medio termine delle amministrazioni pubbliche, escluse quindi le componenti congiunturali, non superi lo 0,5% del PIL, almeno fino a quando il rapporto debito/PIL non abbia raggiunto il 60%. Se il rapporto debito/PIL di un paese supera il limite del 60%, la parte eccedente dovrebbe essere generalmente ridotta di un ventesimo all'anno.

A tale riguardo, dal punto di vista giuridico, è corretto che la Commissione europea accusi il governo italiano di violare i trattati. Perché il rapporto debito/PIL italiano è attualmente al 131 %. E il progetto di bilancio per il 2019, che l'Italia ha presentato all'UE, prevede che il deficit strutturale non scenda di 0,8 punti come promesso dal precedente governo, ma aumenti di 0,8 punti. La conseguenza: è molto improbabile che il rapporto debito/PIL dell'Italia, secondo ogni previsione, possa scendere.

Ma ciò che viola le leggi in vigore non è detto che sia economicamente e politicamente irragionevole. In realtà, il punto è che finora non è stato possibile stabilire un limite al di sopra del quale il debito pubblico diventa insostenibile dal punto di vista macroeconomico.

Il debito pubblico non è né buono né cattivo

Il debito pubblico è un mezzo legittimo di finanziamento dello stato e a priori non è né buono né cattivo. Per questo il consolidamento delle finanze non può avere come obiettivo quello di rimborsare quanto più debito possibile, ma dovrebbe sempre cercare di fare in modo che le "finanze pubbliche restino sostenibili", come affermato nell'articolo 121, paragrafo 1 dei trattati UE. Allo stesso tempo un indebitamento temporaneo non è necessariamente in conflitto con la sostenibilità del bilancio, a condizione che le fluttuazioni economiche di breve periodo siano attenuate.

Nel lungo periodo i programmi congiunturali finanziati a debito restano malvisti e considerati solo un "fuoco di paglia". Questo atteggiamento critico, anche grazie al lavoro di ricerca di Philippe Aghion ad Harvard, è stato sostituito da una posizione piu' moderata. Aghion ha dimostrato che un contenimento delle fluttuazioni cicliche, e quindi una stabilizzazione ad un livello elevato di utilizzo del prodotto potenziale è collegato ad effetti positivi sulla crescita tendenziale.

Una buona politica congiunturale migliora quindi le opportunità di crescita nel lungo periodo, ma solo se la politica nella fase di ripresa economica trova la forza per ridurre il debito fatto per finanziare gli stimoli congiunturali.

Ora è alquanto improbabile che in Italia la strana coalizione fra una "Lega" di destra e un "Movimento Cinque Stelle" di sinistra si lasci impressionare da tali fatti e da tali relazioni economiche, specialmente se con l'indebitamento aggiuntivo bisogna rispettare le promesse elettorali fatte, tutte orientate al consumo. Tuttavia il conflitto con la Commissione Europea alla fine potrebbe rivelarsi vantaggioso per questo governo: perché ora tutta l'Italia, con "quelli là a Bruxelles", finalmente ha trovato un nemico comune odiato da gran parte della popolazione - e questo notoriamente aiuta a saldare la popolazione.

In definitiva c'è solo una cosa che potrà costringere il governo in carica a Roma a cedere: un aumento significativo dei premi al rischio sui titoli di Stato italiani. Il governo è ben consapevole del fatto che sono stati questi premi al rischio che nel 2011 hanno costretto Silvio Berlusconi a dimettersi, portando al potere un governo tecnocratico fondato sull'austerità guidato da Mario Monti. L'Italia per poter rifinanziare il debito in scadenza deve chiedere circa 250 miliardi di euro all'anno ai mercati finanziari.

D'altra parte, se i prezzi diminuiscono, le banche italiane, che detengono gran parte del debito pubblico, dovrebbero svalutare una parte di questi titoli nei loro bilanci. E ogni svalutazione consumerebbe la già sottile capitalizzazione di molte istituzioni.

Se le agenzie di rating dovessero portare i titoli a livello di junk, le grandi società di fondi dovrebbero eliminare i titoli dai loro portafogli, il che potrebbe ulteriormente deprimere i prezzi e portare a fallimenti bancari e, nel caso improbabile, persino alla bancarotta.

Tuttavia, la disputa sul deficit "giusto" ci sta distraendo dai veri problemi economici della terza economia della zona euro, nonché ottava più grande al mondo. Perché l'Italia non soffre di una recessione economica di breve periodo, ma di una combinazione fra una disoccupazione di massa strutturale e una stagnazione macroeconomica decennale.

E non puoi combattere un cancro economico dando ai pensionati e ai disoccupati più soldi per i consumi. Ad alcuni l'Italia di oggi potrebbe addirittura ricordare la Germania di inizio secolo, a quel tempo era il "malato d'Europa".

La politica di crescita non si limita a chiudere un divario negativo di prodotto potenziale, ma piuttosto mira ad aumentare il potenziale produttivo di un'economia.

Risparmiare non è una panacea per tutti i mali

Pertanto la questione del deficit "giusto" è molto meno importante rispetto a quella di quale sia la politica economica "giusta". Dopo le esperienze fatte con la Grecia, la politica della svalutazione interna fatta mediante tagli massicci e risparmi deve essere considerata, in ogni caso, un fallimento. Nel frattempo lo ha riconosciuto anche il FMI, a differenza di quanto hanno fatto un certo numero di economisti tedeschi.

Naturalmente sono altrettanto sbagliati anche i piani del governo in carica a Roma per aumentare i consumi privati attraverso il deficit. In particolare, servirebbero più investimenti privati. E questi dipendono soprattutto dall'occupazione e dalle condizioni favorevoli alla crescita.

A tale riguardo, tuttavia, l'Italia ha un forte bisogno di agire: perché il mercato del lavoro non è flessibile, il carico fiscale è troppo elevato, la tassazione delle imprese è poco favorevole agli investimenti, il sistema legale è imprevedibile e la forza lavoro potenziale per ragioni demografiche continuerà a diminuire. Tutti questi problemi non possono essere superati da un programma di consumi finanziati a debito.

Un aumento sostenibile e duraturo del prodotto economico complessivo dell'Italia richiede riforme strutturali che creino condizioni quadro favorevoli alla crescita e consentano l'attuazione di idee imprenditoriali. L'implementazione di tali idee, tuttavia, richiede fiducia nelle politiche economiche e finanziarie nazionali - e quindi anche nella solidità della gestione finanziaria.

In breve: l'aumento del deficit pubblico in Italia potrà essere utile per ottenere una crescita tendenziale più elevata. Ma solo se questo aumento sarà affiancato da riforme strutturali nel mercato del lavoro, da un aumento della partecipazione della forza lavoro, dalla ristrutturazione del sistema fiscale e da riforme dei sistemi di sicurezza sociale, ad esempio una "Agenda 2020" intelligente.

Se nelle trattative in corso Roma mettesse insieme un pacchetto di crescita di questo tipo, in cambio l'UE potrebbe abbandonare la sua rigida posizione di veto.

Bruxelles potrebbe quindi ridiscutere regole superate, fondate su dati economici e ipotesi vecchie di 30 anni. Perché alla base di ogni passo fatto verso l'approfondimento dell'UE e quindi verso la stabilizzazione dell'euro c'è sempre stato un compromesso tra l'orientamento al rispetto delle regole dei paesi nordici e il pragmatismo dei latini. E ciò è sempre stato positivo nell'interesse della coesione europea.

Che la Commissione Europea ora insista nel voler far rispettare le regole di bilancio dominate dal pensiero ordoliberale tedesco, non solo non farà fare passi in avanti all'Europa, ma favorirà ulteriori divergenze.

Lo stesso vale naturalmente per le ripetute, ma non per questo sempre errate e tuttavia sempre sottovalutate richieste formulate dall'Europa "latina" in merito alla necessità che la Germania e altri stati del nord usino il loro spazio fiscale per stimolare la crescita.

Si può solo sperare che insistere sui criteri di stabilità non porti a una nuova crisi dell'euro. Perché queste regole, alla fine stupide, non ne valgono davvero la pena. Il più saggio cederà il passo all'altro - almeno si spera.




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mercoledì 16 ottobre 2013

Il sogno del salario minimo e la Grosse Koalition

Le consultazioni per formare un nuovo governo vanno avanti senza successo, la Grosse Koalition è ancora lontana. Al centro delle trattative fra SPD e CDU resta il salario minimo: sarà la volta buona? Bert Rürup, economista ed ex membro della commissione dei saggi, su Die Zeit.
Finalmente c'è la possibilità di mettere mano ai difetti congeniti dell'Agenda 2010: ovvero, come la politica potrebbe finalmente trovare un accordo sul salario minimo.

Il risultato delle elezioni federali ha dato alla politica tedesca un'opportunità storica. Otto anni dopo il grande sconvolgimento nel mercato del lavoro, probabilmente al Bundestag c'è una maggioranza per rimuovere il difetto di nascita delle riforme: la mancanza di un salario minimo fissato dalla legge. Negli ultimi 8 anni la sua assenza ha screditato l'intero impianto dell'Agenda 2010 e ha fatto sì che il nucleo delle riforme - l'Arbeitslosengeld II - abbia funzionato peggio di quanto avrebbe dovuto.

L'Arbeitslosengeld II (ALG II) - diversamente da quanto ritiene l'opinione pubblica - è un "salario combinato" (Kombilohnmodell). Vale a dire: se i lavoratori non riescono a vivere del loro salario, non è corretto definirli "Aufstocker". Di fatto lo stato non sta pagando un sostegno al reddito, ma contribuisce al salario del lavoratore. A voler essere precisi, il contributo puo' essere considerato anche una rinuncia: nel momento in cui lo stato calcola il contributo dovuto al lavoratore, non sta prendendo in considerazione il salario definito dal mercato del lavoro.

L'OCSE già da tempo ha sottolineato che un "salario combinato" senza un salario minimo ha una debolezza cruciale: i datori di lavoro, praticando dei bassi salari, avranno sempre maggiori incentivi ad appropriarsi di una parte del sostegno al reddito originariamente pensato per il lavoratore. Un salario minimo fissato dalla legge, sostengono gli esperti OCSE, invece, lo impedirebbe. Ed hanno perfettamente ragione.

Affiancare un salario minimo all'Arbeitslosengeld II tedesco sarebbe utile anche per un altro motivo: chi riceve ALG II e guadagna piu' di 100 € al mese aggiuntivi, subisce una detrazione sui trasferimenti sociali. Un destinatario di ALG II percio' non ha nessun incentivo a chiedere un salario piu' alto, oppure a cercarsi un lavoro meglio retribuito. Un salario minimo ridurrebbe questo effetto.

Gli oppositori del salario minimo sostengono invece che in questo modo si finirà per distruggere posti di lavoro. Ma la letteratura scientifica non chiarisce in maniera univoca l'effetto che l'introduzione di un salario minimo ha sull'andamento dell'occupazione. Pertanto la politica dovrebbe basarsi su di una legge ferrea dell'economia: ogni occupato deve guadagnarsi il costo del suo lavoro attraverso la propria produttività. In caso contrario sarebbe licenziato oppure non assunto. Sarà quindi decisivo il livello del salario minimo.

L'obiettivo centrale della politica tedesca dovrebbe pertanto essere quello di migliorare il reddito del maggior numero possibile di lavoratori - senza metterne in pericolo il posto di lavoro. Un salario minimo un po' piu' alto puo' ridurre i divari salariali. Ma se poi alla fine ci saranno piu' individui senza un lavoro, crescerà di fatto la diseguaglianza.

Le negoziazioni in corso fra SPD e CDU offrono la possibilità di un buon compromesso. La SPD vuole un salario minimo di 8.5 € l'ora per tutta la Germania, da adeguare periodicamente secondo le raccomandazioni di un comitato di esperti. L'Unione invece si affida a dei salari minimi specifici per ogni settore, che dovranno essere fissati dalle parti sociali per ogni differente settore e per ogni regione.

Entrambe le posizioni hanno delle debolezze. Contro la proposta dell'Unione gioca il fatto che la Germania verrebbe ricoperta da un complesso mosaico di salari minimi regionali e di categoria. L'impatto di un tale provvedimento sulle contrattazioni salariali sarebbe incalcolabile. Lo svantaggio della proposta SPD sarebbe invece: con un salario di 8.5 € l'ora per tutta la Germania, uno strumento di per sé corretto, perderebbe credibilità soprattutto nei nuovi Länder. Con un salario minimo di questo livello ci sarebbero molti licenziamenti.

Un compromesso sensato e che puo' salvare la faccia ad entrambe le parti potrebbe essere quello di iniziare con un salario minimo di 7.5 € l'ora nella Germania dell'ovest, e di 7 € al massimo nella Germania dell'est. Il presidente dell' Institut für Arbeitsmarkt-und Berufsforschung, Joachim Möller, ipotizza che un salario minimo di questo livello possa migliorare la situazione di almeno 1.5 milioni di lavoratori - senza che sia necessario arrivare a dei licenziamenti.

Se il salario minimo dovrà essere ridotto oppure aumentato - secondo l'esempio britannico - potrebbe poi essere una apposita commissione a deciderlo. Gli inglesi con la loro "Low Pay Commission", composta da esperti, datori di lavoro e rappresentanti sindacali, hanno avuto una buona esperienza. Una tale commissione indipendente potrebbe anche assicurare che la definizione del salario minimo resti depoliticizzata. Anche il rischio che la politica possa aumentare il salario minimo solo per ragioni di tattica elettorale, in questo modo verrebbe meno.

E' auspicabile che l'Unione e la SPD possano utilizzare la finestra appena aperta, e finalmente decidano di completare l'Agenda 2010.