mercoledì 27 marzo 2019

"Anche Karl Marx era solo un vecchio uomo bianco"

"Persino a Karl Marx, in quanto vecchio uomo bianco, oggi verrebbe negato il diritto di esprimere la propria opinione su tutta una serie di questioni. Cosa vuoi che ne sappia uno come Marx dell'oppressione?" scrive Michael Bröning della fondazione Friedrich Ebert (vicina alla SPD) su Die Zeit, facendo riferimento alle banalità politiche tipiche della sinistra tedesca di questi anni. Una riflessione molto interessante di Michael Bröning su Die Zeit


Si tratta solo di un fraintendimento? Tutta questa critica alle aberrazioni di politica identitaria in una parte della sinistra che sempre più spesso deve lottare per la sopravvivenza? "Non si può incolpare la politica dell'identità per la crisi", spiegano Robert Mueller-Stahl e Robert Pausch su DIE ZEIT il 14 marzo 2019. La politica della sinistra era politica dell'identità anche nel diciannovesimo secolo – solo che allora era in nome della classe operaia. Chiunque neghi questo "orientamento di base dato alla domanda di identità", oggi soffre di amnesia storica. A soffrire di percezione selettiva tuttavia non sono gli scettici della politica dell'identità, ma Robert Mueller-Stahl e Robert Pausch. La loro definizione di politica dell'identità ha poco o nulla a che fare con il suo orientamento liberale attuale. 


Senza dubbio anche il movimento operaio del diciannovesimo secolo faceva riferimento alle questioni dell’identità. I sindacati, i circoli di lettura, i giornali proletari, naturalmente avevano tutti una dimensione identitaria di classe. Alla fine, tutto è personale quando si tratta di persone. E le persone che si uniscono gettano le basi per una coscienza comune. "La costruzione della classe come identità", di cui parlano Mueller-Stahl e Pausch, non è affatto controversa. Ma non può essere la prova di una presunta tradizione del movimento operaio, piuttosto della diffusione dell'approccio politico-identitario.


Se in un modo o nell’altro tutto può essere considerato politica dell’identità, alla fine solo una cosa sarà completa: la confusione. Già oggi i suprematisti bianchi usano la politica dell'identità per affrontare la necessità di proteggere la "cultura bianca". Ma se anche i populisti di destra sono arrivati a chiedere spazi sicuri e luoghi dove non è consentita alcuna discriminazione, qualcosa è andato storto. 





"Reaganomics per la sinistra" 

La forma dominante di politica dell'identità liberale oggi non può essere considerata un legittimo successore, ma esattamente il contrario degli sforzi storici di emancipazione del movimento operaio. La loro grande attenzione per il riconoscimento di identità di gruppo sempre più piccole, costruite sulla base di aspetti etnici, sessuali, sociali o culturali non ha nulla a che fare con la solidarietà e lo spirito pubblico, ma con la soggettività e l'esclusione. Invece di avanzare richieste universalistiche per un accesso senza barriere all’istruzione, alla sanità, al benessere e alla partecipazione, ci si occupa di diritti speciali. Il risultato è una competizione a somma zero per le posizioni più redditizie nella gerarchia sacrificale della società. Alla fine di questa balcanizzazione non c’è l'azione comune, ma solo un risentimento rabbioso compatibile con lo status quo. 



Questo lo si può osservare in alcune parti della sinistra americana e nel milieau accademico di molti progressisti europei. Qui l'ossessione politico-identitaria non equivale all'empowerment, ma all'auto-esautorazione della sinistra. Certo, questo vale ancora di piu’ più se si combina con il disprezzo morale per il loro ambiente elettorale tradizionale popolato da guidatori di automobili, e carnivori che amano festeggiare il carnevale. 

"La politica delle identità", scrive Mark Lilla, professore alla Columbia University è una "Reagonomics per la sinistra". Poiché è compatibile con i dogmi di un neoliberismo polarizzante, l'ingiustizia economica si trasforma in una contraddizione secondaria, parte di una discriminazione presumibilmente più fondamentale, neutralizzata grazie a delle piroette di simbolismo progressista e ad un certo "atteggiamento". Una tale sinistra è molto preoccupata per le offese emotive derivanti dalle micro-aggressioni, ma ha solo un sensore selettivo per la progressiva scomparsa della democrazia all’interno della società, per la crescente disuguaglianza economica e per le ginocchia rotte di un piastrellista nell'anello esterno della S-Bahn. 

Al centro non c’è necessariamente l'ideale di uguaglianza civica, ma quello dell’eccezione. Invece di promuovere la comunità, le persone vengono ordinate in cassetti separati. In questo modo i conflitti economici si trasformano sempre più in lotte culturali. Le discussioni sull'identità del resto non possono essere risolte attraverso dei compromessi – senza considerate che, data la fluidità delle identità, è difficile concepire delle coalizioni durature. 

Nella lotta di sinistra sono necessarie delle ampie alleanze 

In tempi in cui l'assimilazione culturale è considerata una usurpazione, la partecipazione ai dibattiti politici è riservata esclusivamente alle persone coinvolte in maniera diretta. "Io come ..." così iniziano i contributi al dibattito considerati appena ammissibili. Persino a Karl Marx oggi, in quanto vecchio uomo bianco, verrebbe negato il diritto di esprimere la sua opinione su tutta una serie di questioni. Cosa vuoi che ne sappia Marx dell'oppressione

Poiché l'attenzione si focalizza sulle auto-percezioni, la realtà politica concreta diventa sfocata. Invece di confrontarsi con la disuguaglianza globale, una parte del milieau accademico guarda verso l’interno per esplorare il nucleo delle idee e dei concetti. Ciò è sicuramente legittimo, ma è l'esatto opposto dell'ambizione con cui il movimento operaio si batteva per l'emancipazione delle classi svantaggiate. Karl Marx, Friedrich Engels e l'Associazione Generale dei Lavoratori tedeschi non si occupavano del riconoscimento e della continuazione delle differenze esistenti, ma del loro superamento. L'obiettivo non erano i privilegi, ma l'uguaglianza. 

Martin Luther King nel 1963 formulava un sogno e si augurava che i suoi quattro figli un giorno potessero vivere in un mondo "nel quale non sono giudicati per il colore della loro pelle ma per la natura del loro carattere". In gran parte dei circoli ispirati dal tema dell’identità politica, questo sogno oggi probabilmente verrebbe registrato come una micro-aggressione. Dopotutto l'origine e il colore della pelle non dovrebbero essere superati, ma essere invece enfatizzati come unici punti di riferimento decisivi. Non dovremmo superare la visione universalista di Martin Luther King con tanta facilità. Anche il candidato alla presidenza democratica Bernie Sanders, in occasione dell'annuncio della sua ricandidatura, ha fatto riferimento all’attualità del messaggio di "I have a dream". 

È altrettanto chiaro: nulla sarebbe più sbagliato che riportare la politica ai presumibilmente buoni e vecchi tempi in cui a dominare era l’uomo bianco, eterosessuale. La lotta contro la discriminazione e l'emancipazione deve essere sempre lasciata alla sinistra - e qui sono necessarie ampie alleanze. Ma deve essere guidata da una visione complessiva e senza il paraocchi della divisione. Una sinistra che lo dimentica, fa un assist alla destra radicale. L'ex capo-stratega di Donald Trump, Steve Bannon, ritiene che la politica identitaria di sinistra per lui sia un grande regalo. "Più parlano di politica dell'identità", diceva Bannon, "prima li riacciuffo”. Voglio che parlino di razzismo ogni giorno. “Se la sinistra si concentra sulla razza e sull'identità, possiamo schiacciarli". È ora di smetterla di fare a Steve Bannon questo favore.   





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