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martedì 5 gennaio 2021

Andreas Nölke - Vi spiego perché gli attacchi a Ungheria e Polonia sono pretestuosi

"Se i tedeschi si mettono anche a dare giudizi sulla politica e la giustizia nell'Europa orientale, allora l'accusa di imperialismo risulta alquanto ovvia" scrive il grande intellettuale tedesco Andreas Nölke in merito al duro scontro sul rispetto dello Stato di diritto in Ungheria e Polonia. Nelle settimane che hanno preceduto il fragile compromesso di dicembre, dalla politica e dai media tedeschi sono arrivati degli attacchi molto duri nei confronti dei due paesi dell'Europa orientale, attacchi per lo piu' pretestuosi, secondo l'autore, che servirebbero piu' che altro a coprire le ambizioni egemoniche e geopolitiche nell'Europa dell'est. Per Andreas Nölke a Bruxelles le leggi si interpretano per i governi amici, mentre si applicano per quelli ostili e sovranisti, come nel caso di Orban e Morawiecki. Un commento molto interessante del grande Andreas Nölke da Makroskop.de



Chi nei media e nella politica accusa la condotta di Polonia e Ungheria sullo stato di diritto ritiene di avere dalla sua la legittimazione democratica. Un errore.

Polonia e Ungheria per settimane sono state costantemente sotto il fuoco dei media e della politica a causa del blocco al bilancio UE e del relativo fondo post-corona. Quasi tutti i principali mezzi stampa o televisivi hanno condannato la posizione dei due governi dell'Europa dell'est, come del resto hanno fatto il governo tedesco e l'opposizione.

Alcuni rappresentanti dei socialdemocratici si sono addirittura esposti in maniera particolarmente pronunciata. Katarina Barley, vicepresidente del Parlamento europeo, ad esempio, in relazione al primo ministro ungherese ha dichiarato a Deutschlandfunk: "dobbiamo affamarlo (Orbán) dal punto di vista finanziario" arrivando a sostenere che "regimi come quello di Orbán e quello di Kaczynski, [...] prima di tutto pensano a mettere soldi nelle loro tasche".

Heiko Maas, che in qualità di Ministro degli Esteri dell'attuale presidenza del Consiglio europeo dovrebbe, dopo tutto, agire come farebbe un "onesto mediatore", ha affermato, secondo quanto riferito dal Tagesschau, in merito al meccanismo proposto in materia di stato di diritto:

"Avremo quindi uno strumento aggiuntivo che sarà molto doloroso per paesi come Polonia e Ungheria".

Andreas Noelke

Protagonisti sgradevoli, ma comunque

Una certa mancanza di simpatia per i governi di Polonia e Ungheria è più che legittima. Le politiche sociali del governo ultra-conservatore polacco sono ripugnanti, dalla posizione sull'aborto fino alla discriminazione contro la comunità LGBT. E il governo ungherese non è certo da meno, anzi è famoso per i suoi favoritismi nei confronti di amici e parenti e per i generosi sussidi alle imprese nazionali e transnazionali a scapito delle fasce più povere della popolazione.


Ora, naturalmente, si potrebbero indicare anche alcuni aspetti progressisti di questi governi, come la "definanziarizzazione" in Ungheria o le politiche ridistributive sotto l'egida del PiS (Polonia), dagli assegni familiari al salario minimo, soprattutto in considerazione del forte aumento delle disuguaglianze causato dalle politiche dei precedenti governi liberali.

Ma in questa discussione né la simpatia politica, né il disgusto politico dovrebbero essere il fattore decisivo; si tratta piuttosto di questioni fondamentali per la democrazia, della capacità dell'UE di funzionare e della gestione della democrazia negli Stati membri - e del posizionamento dei nostri media e della politica su questi temi.

Chi sta bloccando chi?

Un argomento comune nei nostri media - e fra i nostri rappresentanti politici - è l'affermazione secondo la quale Polonia e Ungheria starebbero bloccando il bilancio dell'UE e (peggio ancora) il fondo per il post-Corona. E questa condotta li renderebbe colpevoli delle sofferenze nei paesi dell'Europa del sud, particolarmente colpiti dalla pandemia.

Ma questa ovviamente è una sciocchezza. Fin dall'inizio, i governi di Polonia e Ungheria non hanno fatto segreto della loro determinazione nell'impedire qualsiasi accordo che li mettesse sotto pressione su posizioni controverse in materia di Stato di diritto. Il compromesso sul bilancio al vertice dei capi di governo dell'estate scorsa è stato possibile solo dopo che la Cancelliera Merkel (presumibilmente) ha dato garanzie in tal senso.

Il recente confronto è nato chiaramente all'interno del Parlamento europeo, dove nei negoziati sul bilancio UE la maggioranza ha insistito per un significativo inasprimento delle regole in materia di possibili violazioni dello Stato di diritto. A tale proposito è assurdo, pertanto, scaricare la responsabilità unilateralmente sui governi di Polonia e Ungheria. Entrambe le parti ne sono responsabili.


Ancora più pericolose sono le attuali proposte (per esempio quelle dell'unionista Jaques Delors Institute) finalizzate a superare la situazione di stallo lasciando la gestione del Fondo Corona a livello intergovernativo, superando quindi le istituzioni dell'UE e aggirando in questo modo il veto di Polonia e Ungheria. Anche se ciò in linea di principio fosse giuridicamente concepibile, non farebbe altro che aggravare ulteriormente il conflitto.

Dopotutto il Corona-Fund non è una di quelle aree del diritto europeo in cui un "gruppo di volenterosi" può unire le proprie forze secondo le regole dell'UE per approfondire l'integrazione, mentre altri Stati membri non sono (ancora) disposti a farlo.

Polonia e Ungheria giustamente considererebbero una tale mossa sul Recovery Fund come una sorta di dichiarazione di guerra. In tal caso, farebbero certamente dei passi ulteriori per bloccare l'UE - uno Stato membro determinato, del resto, ha molte opzioni, soprattutto in quegli ambiti in cui viene ancora richiesta l'unanimità intergovernativa - e la spirale diell'escalation continuerebbe, con danni incalcolabili per l'UE, già indebolita da molte crisi.

Chi ha la legittimità democratica?

Chi, nei media tedeschi e nella politica tedesca, condanna la posizione di Polonia e Ungheria, naturalmente presuppone di avere dalla sua parte la legittimazione democratica. Ma le cose non stanno cosi'.

Nello scontro in atto la legittimazione democratica del Parlamento europeo si contrappone a quella dei governi di Polonia e Ungheria, che a loro volta possono contare su ampie maggioranze nei rispettivi parlamenti nazionali. Il Consiglio dei ministri dell'UE è diviso - e in ogni caso ha una legittimazione molto più indiretta rispetto a queste due parti, per non parlare della Commissione UE.

In questo confronto, i governi di Polonia e Ungheria (per tutti i limiti della democrazia ungherese, vedi sotto) possono chiaramente rivendicare un grado di legittimità democratica superiore rispetto a quello del Parlamento europeo. Il Parlamento europeo in un simile confronto manca semplicemente di una legittimazione democratica di base rispetto ai parlamenti nazionali.

Il deficit di legittimità del PE dipende da moltissimi fattori, ad esempio lo squilibrio fra il peso del voto degli elettori (un confronto Germania-Lussemburgo è di ca. 1:10, vale a dire che un voto del Lussemburgo conta fino a 10 volte un voto tedesco), l'assenza di campagne elettorali paneuropee (gli scienziati politici considerano le elezioni europee come "elezioni nazionali di secondo ordine", che non riguardano tanto un voto sulle politiche europee, quanto un voto sui partiti nazionali), la bassa affluenza alle urne a livello europeo (in Polonia/Ungheria alle ultime europee è stata di ca. il 45%, contro piu' del 60% delle elezioni parlamentari nazionali), oppure la mancanza di partecipazione pubblica ai dibattiti del Parlamento europeo (rispetto a quelli dei parlamenti nazionali).


Non c'è quindi ancora - almeno dal punto di vista di una prospettiva repubblicana di legittimità democratica - nessuna alternativa ai parlamenti nazionali, almeno quando si tratta di questioni veramente importanti. E la questione del rispetto dello Stato di diritto negli Stati membri dell'UE è senza dubbio una di queste. Dobbiamo riconoscere ai governi di Polonia e Ungheria che nei confronti del Parlamento europeo hanno ancora dalla loro parte la piena legittimazione democratica, anche se siamo molto insoddisfatti in merito allo sviluppo della democrazia e dello Stato di diritto in questi paesi.

Tutti coloro che hanno un rapporto molto rilassato con tali questioni fondamentali in materia di sovranità democratica, dovrebbero anche considerare cosa accadrebbe al nostro paese se il Parlamento europeo mettesse in discussione la legittimità del nostro sistema giudiziario e chiedesse il blocco degli stanziamenti finanziati dall'UE. Le obiezioni (molto caute) della Corte costituzionale federale ai programmi di acquisto della BCE della scorsa estate e i conseguenti intralci sarebbero solo un mite assaggio di una rivolta contro l'UE e il suo governo, che poi scoppierebbero nel nostro Paese.

Polonia = Ungheria?

Un altro aspetto molto problematico nella discussione mediatica e nella politica tedesca è l'equazione fra Polonia e Ungheria, come nel caso delle affermazioni di Barley e Maas. Questa equazione all'inizio potrebbe anche essere comprensibile, dato che entrambi i paesi sono governati da partiti comunemente definiti come "populisti di destra". Tuttavia è fatale quando si parla di democrazia e di Stato di diritto - in questo caso però aspetti fondamentali. Polonia e Ungheria, tuttavia, sotto questo aspetto si differenziano notevolmente.


Il lungo governo di Fidesz in Ungheria, in effetti, ha portato ad una serie di limitazioni per la democrazia - anche se dovremmo essere cauti sui criteri di giudizio, dato il dominio incontrastato della CSU in Baviera, che ormai dura da diversi decenni.

Per conoscere i misfatti del governo ungherese è molto istruttiva una visita al "Verfassungsblog", misfatti che vanno dalle pressioni sulle università, sulle ONG e sulla stampa, fino alla limitazione dei diritti parlamentari, all'indipendenza dei tribunali amministrativi e all'assegnazione dei casi alla Corte costituzionale.

La democrazia ungherese, tuttavia, sembra ancora funzionare, come abbiamo visto nelle elezioni locali del 2019, quando l'opposizione a Budapest e in altre grandi città si è ripresa il potere strappandolo a Fidesz. In un paese governato in modo autocratico, questo non sarebbe successo.

In Polonia, invece, parlare di una forma di governo anche lontanamente autocratica è del tutto pretestuoso. Il paese gode di una pronunciata libertà di stampa, il PiS al potere deve fare i conti in maniera permanente con le sconfitte elettorali, e anche il funzionamento della Corte costituzionale polacca non viene fondamentalmente messo in discussione dal PiS - almeno quando vengono applicati standard equi (vedi sotto).

E una corte costituzionale forte resta in ogni caso una pietra angolare della democrazia, ma solo in un'ottica liberale. In una concezione repubblicana della democrazia - come rappresentata in Germania da Dirk Jörke o Ingeborg Maus, per esempio - la sovranità democratica del popolo (incarnata in particolare dai parlamenti nazionali) assume un ruolo molto più importante.

Ancora più astrusa, però, è l'equazione fra Polonia e Ungheria in termini di cleptocrazia, fatta in particolare da Katarina Barley. Ci sono dati credibili che mettono a confronto i paesi, compilate dall'agenzia anticorruzione dell'UE, l'OLAF. L'Ungheria nel 2018 assume infatti in questa lista un inglorioso ruolo guida, con la percentuale di gran lunga più alta di fondi il cui utilizzo viene messo in discussione dall'OLAF. La Polonia, invece, in questa statistica è tra i Paesi che fanno un uso più corretto dei fondi, con un risultato tra l'altro migliore rispetto a quello della Germania.

È perfettamente legittimo che l'Unione europea verifichi la correttezza in merito all'assegnazione dei fondi e faccia ricorso contro i destinatari che si sono comportati in modo scorretto (come l'Ungheria). Ma ciò è già previsto e non è affatto l'oggetto della attuale controversia. Quest'ultima, infatti, riguarda l'assegnazione dei fondi sulla base di una vaga clausola in merito allo Stato di diritto, la cui interpretazione sarà poi decisa dalle autorità di Bruxelles. Dovrebbe essere ormai chiaro che Polonia e Ungheria siano comprensibilmente preoccupate per questa interpretazione.

Stiamo misurando con lo stesso metro?

Le preoccupazioni da parte di Ungheria e soprattutto Polonia di non essere trattate equamente dall'UE non sono infondate. Sono ovviamente legate al fatto che questi due governi sono retti da partiti populisti di destra. Altri paesi vengono trattati con molta più clemenza. Che dire di Malta e della Slovacchia, ad esempio, dove i governi sono stati coinvolti in omicidi politici? E la Bulgaria e la Romania, con la loro corruzione endemica? Chi difende lo Stato di diritto quando si parla di questi paesi?

L'applicazione disomogena disomogenea degli standard diventa particolarmente evidente quando ci si concentra sulla nomina dei giudici costituzionali nel caso polacco, vale a dire il nucleo della controversia tra il PiS e i suoi critici.

Prima di tutto dobbiamo notare che nell'UE non esiste uno standard comune per la nomina dei giudici costituzionali. Al contrario, la pratica è molto eterogenea, per non parlare del fatto che in alcuni paesi UE non esistono nemmeno la corte costituzionale.

Nel caso polacco, invece, si critica in particolar modo l'influenza della politica (più precisamente: la maggioranza parlamentare guidata dal PiS) in merito alla nomina dei giudici costituzionali. Ora bisogna ammettere che anche noi in Germania dovremmo essere un po' cauti quando si parla di criticare l'influenza della politica nella selezione dei giudici costituzionali, perché tutti i nostri giudici costituzionali sono nominati dalla politica (Bundesrat e Bundestag) - i quali vengono selezionati secondo una procedura molto poco trasparente. Molti giudici costituzionali in passato erano stati anche dei politici di professione legati al governo, ad esempio l'attuale presidente Stephan Harbarth, un ex-parlamentare della CDU di lunga data - ecco perché molti polacchi non capiscono le critiche tedesche.

Dopo tutto, per l'elezione dei giudici costituzionali in Germania viene richiesta dalla legge una maggioranza schiacciante dei 2/3 (anche se non con rango costituzionale), in modo che anche l'opposizione possa avere una voce in capitolo, una chiara differenza rispetto alla Polonia - ma anche in molti altri paesi dell'UE spesso è sufficiente una maggioranza semplice, i giudici costituzionali vengono così de facto nominati dal governo (maggioranza) come in Polonia.


Ancora più irritante per i polacchi, ad esempio, sarebbe dare uno sguardo alla Francia: lì il parlamento non ha nessuna voce in capitolo nella nomina dei giudici costituzionali, tre di loro sono nominati dal presidente della Repubblica, tre dal presidente dell'Assemblea nazionale e tre dal presidente del Senato - e se tutti e tre appartengono al partito di governo, l'opposizione ha avuto sfortuna.

L'irritazione di molti polacchi - e soprattutto del loro governo - nei confronti dei "due pesi e delle due misure" europee, tuttavia, non deriva essenzialmente dall'assenza di un "gold standard europeo" nella nomina dei giudici costituzionali, ma dai doppi standard applicati dall'Unione europea e dall'opinione pubblica europea, in rapporto ai diversi governi polacchi.

A tal proposito bisognerebbe notare che il dramma attuale è stato causato dal precedente governo liberale. Nel 2015, infatti, quando il governo già poteva prevedere di perdere le elezioni, ha comunque eletto un terzo dei giudici costituzionali nell'ultima sessione del vecchio parlamento (contrariamente alle norme precedentemente in vigore) - anche se i vecchi giudici in realtà avrebbero dovuto terminare il loro mandato solo dopo l'elezione del nuovo parlamento. Questo tentativo di usurpazione della Corte costituzionale da parte del governo uscente, tuttavia, non ha interessato nessuno dei nostri media e neanche la politica - probabilmente perché è stato fatto da un governo liberale. L'irritazione del governo del PiS per questa disparità di trattamento è facile da capire.

La pressione esterna è controproducente

La ricostruzione delle irritazioni polacche non deve distogliere l'attenzione dal fatto che la sottomissione forzata della Corte costituzionale - e di alcune parti del più ampio apparato giudiziario - alla maggioranza parlamentare guidata dal PiS a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, può essere vista come problematica (anche se meno per gli standard repubblicani che per quelli liberali). E non c'è dubbio che anche in Ungheria ci siano state massicce violazioni delle norme democratiche.

Ma anche l'operato dell'Unione Europea contro questi governi è alquanto problematico. E questo vale non solo per i doppi standard alquanto discutibili, le generalizzazioni polacco-ungheresi, la scarsa legittimità democratica da parte dell'Unione europea e la disputa puerile su chi abbia iniziato per primo a bloccare il fondo post-Corona.

In generale ci si dovrebbe chiedere se il tentativo di imporre la propria idea di democrazia e di stato di diritto dall'esterno attraverso la coercizione in ultima analisi non sia controproducente. Se si guarda agli sviluppi politici interni di entrambi gli Stati negli ultimi anni, si ha l'impressione che questo colpo sia stato decisamente controproducente.

In entrambi i paesi, la pressione esterna dell'UE (e della politica tedesca) tende ad aiutare i governi in carica e a stabilizzare la loro posizione interna grazie alla retorica nazionalista. Nei Paesi appena usciti da decenni di dominazione straniera da parte dell'Unione Sovietica (e nel caso della Polonia anche da secoli di occupazione da parte dei vicini imperialisti), i tentativi di coercizione esterna in materia di politica nazionale vengono visti con particolare scetticismo. Chi dall'estero viene attaccato in maniera generalizzata è quindi più propenso a mostrare solidarietà con il governo in carica, nonostante vi possano essere delle eventuali riserve in merito alle sue politiche.

Meglio lasciar stare la postura imperiale tedesca

Non sono quindi di aiuto: la democrazia e lo stato di diritto - nella misura in cui sono già compromessi - devono essere raggiunti dai polacchi e dagli ungheresi stessi attraverso la lotta (i bavaresi ci sono riusciti a metà con la CSU). Il resto dell'UE farebbe meglio a tacere, anche se è difficile.

Questo vale soprattutto per i media e i politici tedeschi. L'egemonia economica e politica della Germania all'interno dell'UE viene già vista con grande scetticismo non solo nell'Europa meridionale (dopo la crisi dell'Euro). C'è molta preoccupazione anche per il predominio economico tedesco nell'Europa dell'Est, soprattutto a causa della sua dipendenza dalle multinazionali tedesche e dai loro investimenti diretti. Se i tedeschi si mettono a dare giudizi anche sulla politica e la giustizia dell'Europa orientale, l'accusa di imperialismo risulta alquanto ovvia.

E ancora una volta torniamo ai nostri socialdemocratici tedeschi: anche se si rifiutano tutti gli argomenti in favore di un approccio più moderato nei confronti di Polonia e Ungheria, ci si chiede ancora se, dopo quanto è accaduto nella seconda guerra mondiale, sia davvero opportuno che i principali rappresentanti della politica tedesca possano parlare di "doloroso" oppure "affamarli" quando si rivolgono a questi Paesi.

domenica 27 dicembre 2020

Wolfgang Streeck - Il vero obiettivo del Recovery Fund

"La prima cosa da sapere è che il Recovery Fund non ha nulla a che vedere con il Coronavirus, e invece ha molto a che fare con il salvataggio del governo italiano dal signor Salvini" scrive il grande intellettuale tedesco Wolfgang Streeck commentando il recente accordo sul Recovery Fund, e prosegue: "gli imperi dipendono dalla buona gestione delle periferie da parte delle élite centrali. Nell'UE ci si aspetta che le élite periferiche siano decisamente "pro-europee". Una riflessione molto interessante del grande Wolfgang Streeck sul recente compromesso europeo in materia di Recovery Fund. Da Makroskop.de


Dopo due giorni e una notte, per non parlare delle diverse settimane di recriminazioni reciproche e di ricatti, ventisette governi nazionali, la Commissione europea e il Parlamento europeo si sono dichiarati tutti vincitori. Un miracolo?

La prima cosa che bisogna sapere su Bruxelles è che nulla è come sembra, e che tutto può essere presentato nei modi più diversi - a ciascuno la sua "narrazione". Il numero di giocatori e di campi da gioco, inoltre, è enorme e confuso, ed è inserito in un quadro istituzionale chiamato "i trattati", così complicato che nessun estraneo può capirlo. Chi li conosce saprà che sono pieni di opportunità di occultamento, di truffe procedurali, di equivoci evasivi, di finzioni e di scuse - le interpretazioni contraddittorie e i fatti alternativi sono sempre benvenuti.

E oltre a ciò, c'è una profonda e tacita intesa tra i membri di quell'organo altamente esclusivo e segreto, vale a dire il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Secondo tale accordo, infatti, è compito di ciascuno di loro fare in modo che nessuno debba tornare a casa da perdente, dando quindi a tutti la possibilità di non perdere la faccia e di continuare a giocare la partita.

Ne è un esempio il Fondo di solidarietà per la ricostruzione post-Corona (Recovery Fund). La prima cosa da sapere è che non ha nulla a che fare con il Coronavirus, e invece molto a che fare con il salvataggio del governo italiano dal signor Salvini. La seconda cosa da sapere è che non c'entra nulla con la solidarietà europea: ogni paese ottiene qualcosa e nessuno paga nulla perché il fondo è finanziato dal debito e solo dal debito - un'estensione sovranazionale dello stato debitore (debito al posto delle tasse). Inoltre, nessuno sa come questo debito potrà essere ripagato, e a nessuno in fondo importa piu' di tanto, perché il rimborso non inizierà prima di sette anni.

Molto probabilmente sarà rimborsato facendo comunque nuovo debito o attraverso qualche canale misterioso, ad esempio tramite la Banca Centrale Europea. E questo ovviamente sarebbe illegale ai sensi dei Trattati, ma lo stesso probabilmente vale anche per il prestito stesso. Presumibilmente anche tutti i 27 parlamenti nazionali dovrebbero approvare il fondo, ma nessuno si preoccupa di farlo, visto che tutti riceveranno una parte del bottino.

Questo non significa però che in Europa ora prevarranno la pace, l'amicizia e i pancake. Gli imperi dipendono dalla buona gestione delle periferie da parte delle élite centrali. Nell'UE ci si aspetta che le élite periferiche siano decisamente "pro-europee". In particolare, ciò significa che dovranno essere a favore di una "sempre più stretta unione dei popoli d'Europa", gestita dalla Germania e, in misura piu' o meno rilevante anche dalla Francia, tramite le burocrazie di Bruxelles.

La Germania e la Commissione Europea hanno a lungo sospettato che gli attuali governi di Ungheria e Polonia non fossero sufficientemente "pro-europei". Simili sospetti vengono espressi anche all'interno del cosiddetto Parlamento europeo, dove non vengono tollerati i membri contrari al "più Europa". ("Più Europa" è la ragion d'essere di questo strano Parlamento, che non ha né opposizione, né diritto di iniziativa legislativa). I parlamentari europei dei partiti liberali di opposizione ungheresi e polacchi ricevono pertanto un ampio sostegno quando chiedono di non elargire i fondi europei ai governi illiberali dei loro paesi d'origine, con l'obiettivo di far credere agli elettori che se dovessero votare per i partiti "pro-europei", otterrebbero più soldi "dall'Europa". Allora perché non subordinare i pagamenti del Recovery Fund all'adesione da parte di un paese ai principi dello "Stato di diritto", dove lo "Stato di diritto" viene definito in modo che le politiche dei governi eletti, non liberali, vengano considerate in difetto di Stato di diritto?

Suona bene? Beh, ci sono i trattati. E secondo i trattati, i paesi membri, compresi i beneficiari di aiuti come l'Ungheria e la Polonia, rimangono sovrani, e le loro istituzioni nazionali e le decisioni in materia di politica della famiglia e di immigrazione vengono decise dai loro elettori, non da Bruxelles o Berlino. Quando si tratta delle istituzioni di un paese, l'unica cosa che legittimamente dovrebbe riguardare l'UE, è se il denaro europeo viene speso e contabilizzato correttamente. Qui, però, la Polonia ha un primato immacolato, e l'Ungheria sembra essere ancora al livello dei paesi "pro-europei" come Bulgaria e Romania, per non parlare di Malta.

Allora, cosa bisogna fare? A Bruxelles si riesce sempre a trovare una soluzione. La Commissione e il Parlamento da molto tempo ormai cercano di punire Polonia e Ungheria con una nuova disposizione all'interno dei trattati che vieti agli Stati membri di limitare l'indipendenza politica ("Stato di diritto") del loro potere giudizario. Ma questo sarebbe un randello così potente che la sua applicazione richiederebbe l'unanimità fra i rimanenti Stati membri; qui, Ungheria e Polonia si coprirebbero a vicenda. (Inoltre, una tale procedura potrebbe sollevare questioni imbarazzanti sull'indipendenza politica di altre corti supreme, ad esempio il Conseil d'Etat francese).

Ora però entra in gioco il Recovery Fund, e con esso l'idea di un cosiddetto "meccanismo per lo stato di diritto", con l'aiuto del quale gli aiuti UE potrebbero essere cancellati o essere richiesti indietro senza il requisito dell'unanimità, ma comunque in maniera indipendente dal caso individuale di un uso illegale dei fondi ancora tutto da dimostrare. E proprio nel caso in cui un paese, secondo la valutazione dell'UE, non dovesse piu' rispettare lo stato di diritto, cioè avere una magistratura indipendente, compresa una corte costituzionale liberale, e forse anche la volontà di accogliere i rifugiati secondo le quote di distribuzione UE.

Può funzionare? A Bruxelles, come ho già detto, molte cose sono possibili. L'argomentazione è simile a quella con la quale la Banca Centrale Europea ha prevalso sulla Corte Costituzionale Federale Tedesca davanti alla Corte di Giustizia Europea (nella cosiddetta sentenza PSPP). Le istituzioni dell'UE stanno oltrepassando le loro competenze, se nell'esercitarle le interpretano in modo cosi' ampio, in quanto, a loro avviso, non possono (o non possono più) esercitarle efficacemente in maniera diversa? D'altro canto, la Corte tedesca aveva insistito sul fatto che i poteri europei sono strettamente limitati a quanto i paesi membri hanno espressamente concesso nei trattati, e se fossero necessari maggiori poteri europei, i trattati dovrebbero essere modificati di conseguenza, il che richiederebbe non solo l'unanimità, ma anche diversi referendum. È proprio questo che i governi di Polonia e Ungheria hanno invocato (il ministro degli Esteri polacco in un articolo della FAZ del 26 novembre, dal titolo "I trattati UE sono sacri"), e questo è stato il punto sul quale è iniziata la battaglia.

Parte prima (l'UE): vi invitiamo ad accettare il Recovery Fund, compreso il meccanismo relativo allo stato di diritto, incluso il rischio che non otteniate nulla se non fate un'inversione di marcia e non abbandonate il vostro corso anti-liberale. Quello che dovrete fare per raggiungere l'obiettivo, vi sarà comunicato al momento opportuno. Contromossa (Polonia e Ungheria): non voteremo mai per questo meccanismo, quindi dimenticate il vostro fondo. Parte seconda: se votate contro il meccanismo e quindi contro il fondo, creeremo un fondo per gli altri 25 paesi, e troveremo anche per questo una base nei trattati, i trattati sono abbastanza lunghi e complessi, la carta è paziente, come dicono i tedeschi, e non otterrete un dannato centesimo. Contrordine: ma non sarebbe affatto bello, non sarebbe europeo (beh...), e tra l'altro, sarebbe illegale. Il coro (la stampa tedesca, che canta e balla): guardate qui, il denaro governa il mondo; fanno quello che gli viene detto di fare, perché vogliono solo i nostri soldi. Non è bello essere ricchi?

Entrano i presidenti, guidati da Merkel, dea ex machina, titolare della Sessione chiusa, in rappresentanza del Paese che si trova a presiedere formalmente gli altri Paesi, proprio nella seconda metà del 2020, e comunque in modo informale. La Germania ha bisogno dell'Europa dell'Est per i suoi affari. Ritiene inoltre di non potersi permettere di regalare agli americani il monopolio nella geopolitica anti-russa. Quindi, per "ragioni storiche" sarebbe preferibile non discutere con la Polonia in merito alla sovranità polacca. Dopo molti avanti e indietro, nella camera oscura della diplomazia internazionale con 27 paesi, Polonia e Ungheria accettano il Fondo per la ricostruzione e la solidarietà post-Corona, integrato da un documento sullo stato di diritto. In base a ciò, la Commissione adotterà una "direttiva di salvaguardia del bilancio" che vincola i sussidi post-Corona dell'UE e tutti gli altri aiuti ad un sistema giudiziario nazionale che dovrebbe essere politicamente abbastanza indipendente da garantire un uso corretto dei fondi UE incassati, nell'ambito di un quadro normativo che va oltre l'attuale situazione giuridica. (Come, vedremo).

La direttiva europea probabilmente non entrerà in vigore fino a quando non sarà esaminata dalla Corte Europea. Nel frattempo - probabilmente fino all'inizio del 2023 - la Commissione non intraprenderà nessuna azione mentre i fondi post-Corona e gli altri aiuti inizieranno a fluire verso tutti i 27 paesi. Se e quando il "meccanismo" avrà passato l'esame della Corte, la Commissione potrà avviare un procedimento contro la Polonia, l'Ungheria o entrambi i paesi per recuperare il denaro già versato, e potrà sostenere, a titolo di giustificazione, che i sistemi giudiziari di Polonia e Ungheria sono talmente marci, cioè politicizzati, che in linea di principio non ci si può aspettare che essi si pronuncino secondo le modalità dello Stato di diritto. E' chiaro che ci vorrà ancora del tempo, e nessuno sa come sarà allora il mondo, e quali saranno le preoccupazioni degli Stati membri.

In Europa, le tregue fanno miracoli. Al momento si respira gioia ovunque: tra i vari presidenti, in Parlamento (che crede di poter correggere la mancanza di sentimento "pro-europeo" ritirando i soldi), nella Commissione (che si è procurata un nuovo giocattolo per intimidire gli Stati membri ai margini dell'impero), nella Corte di giustizia (che può gioire per una nuova giurisdizione), e tra i governi nazionali, fra questi anche Ungheria e Polonia (che invece non vogliono parlare delle rassicurazioni informali che credono di aver ricevuto al buio). La politica della procrastinazione però, la disciplina preferita da Merkel, conosce dei vincitori, solo finché dura.

giovedì 23 luglio 2020

Il Recovery Fund era già pronto?

Nel dicembre del 2019 il  professore Harald Benink (olandese) su Handelsblatt proponeva per l'Italia e gli italiani la strategia del bastone e della carota: un piano quinquennale di investimenti per convincere l'opinione pubblica dello stivale ad accettare le solite riforme strutturali altrimenti molto difficili da digerire. Secondo Benink questa pioggia di soldi europei avrebbe dato la possibilità ai governanti italiani di spiegare ai loro elettori che l'Europa non è solo austerità e riforme strutturali, ma anche solidarietà. Il Covid-19 potrebbe essere stata l'occasione buona per tirare fuori dal cassetto un piano già pronto.  Il professor Harald Benink su Handelsblatt.


Gli ultimi mesi nella politica italiana sono stati alquanto turbolenti. Per rafforzare la leadership politica e sostenere i mercati finanziari europei, è nato un nuovo governo, senza la Lega di Matteo Salvini. Il leader della Lega chiedeva infatti nuove elezioni per poter diventare lui stesso il primo ministro.


Ma la fase di stabilità politica potrebbe non durare a lungo. L'Europa non dovrebbe farsi sfuggire l'occasione e dovrebbe invece tendere una mano all'Italia per trovare un accordo generale.

L'Unione europea si trova in una situazione critica. Da un lato, l'avvicinarsi della Brexit crea nuove incertezze sulle relazioni future con la Gran Bretagna, dall'altro, a causa dei problemi economici e finanziari, in Italia presto potrebbe svilupparsi una nuova crisi ancora più grande. La situazione attuale dovrebbe essere utilizzata per ripensare l'instabile situazione economica, finanziaria e politica europea.


E' necessario circoscrivere le dinamiche negative del discorso politico. E ciò è particolarmente vero per la maggioranza della popolazione in alcuni paesi dell'UE, che vede il progetto europeo come una minaccia, più che come un'opportunità.

E ciò è particolarmente evidente in Italia. Essendo fra i membri fondatori dell'UE, il paese sta vivendo con difficoltà l'allontanamento e la mancanza di solidarietà nella governance dell'eurozona e nella gestione dell'immigrazione, in particolare da parte dei paesi dell'Europa settentrionale come Germania e Paesi Bassi. Ciò ha portato i partiti populisti ad essere ancora più popolari.

È ovvio che in Italia ci sono dei problemi strutturali ed economici. E questi riguardano soprattutto la mancanza di drastiche riforme strutturali nel mercato del lavoro e dei servizi, nella riscossione delle imposte e nel sistema pensionistico. Per troppo tempo il paese ha rinviato le riforme necessarie, e in questo modo ha ridotto la sua competitività e il suo potenziale di crescita di lungo periodo.

La politica della BCE non ha creato gli incentivi

Allo stesso tempo le politiche dell'UE spesso non sono state adeguate. Da un lato la politica monetaria della BCE ha mantenuto i tassi di interesse sui titoli di stato italiani a un livello molto basso, senza pretendere delle condizioni speciali.

Questi bassi tassi di interesse hanno ridotto gli incentivi per la realizzazione delle necessarie riforme economiche di vasta portata. D'altro canto le regole del Patto di stabilità e crescita dell'UE sono vincolanti e presto potrebbero portare a delle multe nei confronti dell'Italia, che a loro volta finirebbero per peggiorare ulteriormente la dinamica politica.

È giunto il momento di stringere un grande accordo fra Italia ed UE per migliorare la situazione politica. E ciò richiede un piano d'azione economico e politico per i prossimi cinque anni che metta in collegamento un'agenda dettagliata per le riforme economiche e strutturali da realizzare con dei potenziali investimenti europei.

L'idea di base è che per ciascuno dei cinque anni siano previsti passi concreti sul piano normativo e nell'attuazione delle riforme. Alla fine di ciascuno di questi cinque anni, si dovrà quindi verificare se l'Italia ha attuato le misure concordate. In caso positivo l'Italia potrebbe essere premiata con ingenti investimenti dell'UE, in particolare nei settori come le infrastrutture e l'economia della conoscenza.

C'è molto in ballo

Un simile approccio fatto di carota e bastone non è mai stato provato prima. Ciò cambierebbe il discorso politico e darebbe la possibilità alla leadership politica italiana di spiegare ai propri elettori che l'Europa non solo richiede difficili riforme economiche e disciplina di bilancio, ma agisce anche in maniera solidale sotto forma di investimenti. E questo potrebbe promuovere l'accettazione politica di misure anche difficili da parte dell'elettorato.

La sfida è quella di prevenire un'escalation della crisi politica tra Italia ed Europa. Tale escalation potrebbe portare a una crisi di fiducia nell'affidabilità creditizia del debito italiano e nelle banche del paese che hanno investito pesantemente in titoli di stato.

Date le dimensioni dell'economia italiana e, soprattutto, dato l'enorme debito pubblico, una crisi in Italia molto probabilmente porterebbe a una grave crisi bancaria e finanziaria nel resto d'Europa, fatto che avrebbe anche enormi conseguenze sul futuro dell'euro.

È quindi importante che il nuovo presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il nuovo presidente della BCE, Christine Lagarde, approfittino del momento per concludere con l'Italia un Grand Dearl. C'è molto in ballo ed è urgente un nuovo approccio.