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martedì 16 febbraio 2021

Dalla concorrenza sulla qualità al dumping salariale

"Oggi il vero progresso tecnologico avviene principalmente negli Stati Uniti e in Cina. L'economia tedesca, fondata sull'export, d'altro canto, fino ad ora è riuscita a tenere la testa fuori dall'acqua solo grazie alla moderazione salariale e alla bassa pressione fiscale. Nel breve periodo (e nella concorrenza intra-europea) questa competizione sul prezzo fondata sul dumping salariale può ancora funzionare, ma nel lungo periodo (e a livello globale) difficilmente funzionerà" scrive il grande intellettuale tedesco Andreas Nölke, che su Makroskop propone una rilfessione molto interessante sulla principale malattia che da almeno due decenni affligge l'economia tedesca, l'Esportismo, vale a dire la profonda dipendenza dall'export. Andreas Nölke da Makroskop.de


Chi difende gli avanzi commerciali tedeschi, spesso sostiene che in fondo non è colpa nostra se il mondo è così interessato ai nostri meravigliosi prodotti. Il mondo adora le auto e le macchine tedesche.

Ora questo potrebbe anche essere vero in alcuni casi, se consideriamo le nostre esportazioni nel settore dell'ingegneria meccanica di punta o delle automobili di lusso. Ma se si dà un'occhiata più sistematica allo sviluppo delle esportazioni tedesche, si noterà che una parte crescente di queste esportazioni viene venduta essenzialmente perché è "a buon mercato".

In linea di principio, l'acquisto di un prodotto riguarda sempre entrambi gli aspetti: qualità e prezzo. Nel caso delle esportazioni tedesche, tuttavia, c'è uno spostamento alquanto problematico verso questo secondo aspetto. Su questo argomento ormai è già disponibile un grande numero di studi empirici.


Dalla concorrenza sulla qualità al dumping

Negli ultimi cinque decenni l'economia tedesca si è trasformata da un'economia forte nell'export, ma relativamente equilibrata, in un'economia estremamente dipendente dalle esportazioni. Colpisce il fatto che l'intensificazione "patologica" dell'orientamento all'export tedesco non sia stato accompagnato da innovazioni tecnologiche di rilievo, ma sempre più da una spinta alla concorrenza sui prezzi. Il successo nelle esportazioni tuttavia non è da considerarsi un segno di potenza industriale, ma di debolezza - anche se questa debolezza è solo quella dei nostri vicini europei ("troppo cari").


Arndt Sorge e Wolfgang Streeck, ad esempio, facendo riferimento al loro concetto di "produzione di qualità diversificata", tipica dell'industria tedesca, notano che questa in termini di caratteristiche fondamentali resta ancora in parte intatta, come ad esempio la differenziazione di prodotto, anche se ora fondamentalmente non si basa piu' sui "beneficial constraints" del salario elevato e delle innovazioni che ne conseguono, ma si fonda sempre piu' spesso sui dei vantaggi legati al costo.

Dopo un primo crollo iniziale avvenuto intorno al 1980, sin dalla metà degli anni '90, l'industria tedesca ha interrotto la sua tendenza di lungo periodo finalizzata ad un "upgrading" verso una qualità maggiore, e da allora h puntato sempre di piu' sui vantaggi legati al prezzo. Lucio Baccaro ha mappato quantitativamente questo sviluppo calcolando il rapporto tra i prezzi delle esportazioni e quelli delle importazioni. Al più tardi a partire dal 1995, questo rapporto - come indicatore dell'upgrading - non è piu' cresciuto, in netto contrasto con lo sviluppo osservato nei decenni precedenti. L'argomento secondo il quale le esportazioni tedesche a partire da metà anni '90 sono diventate più competitive in termini di prezzi viene confermato anche dalla Bundesbank, indipendentemente dagli indicatori scelti.

La rilevanza del prezzo delle esportazioni diventa particolarmente chiara se si fa un confronto con l'Italia, un concorrente tradizionalmente molto competitivo nei settori chiave dell'export tedesco, tra questi la produzione di automobili e di macchinari. Nel frattempo, però, in termini di performance dell'export la Germania ha nettamente superato l'Italia, anche se, stando ad uno studio del Fondo Monetario Internazionale, questo successo per circa la metà sarebbe da attribuire ad un accrescimento della produttività tedesca - in parte dovuto anche alla moderazione salariale praticata in Germania.

L'OCSE riporta che, soprattutto nel primo decennio del millennio, vi è stata una chiara tendenza dell'economia tedesca a raggiungere i suoi successi nell'export non più attraverso la qualità dei propri prodotti, ma sempre più spesso grazie al contenimento dei prezzi, in contrasto con le fasi precedenti in cui erano soprattutto le innovazioni - misurate, per esempio, dal numero di domande di brevetto - a garantire tali successi.


Un'analisi dettagliata sul "commercio internazionale di beni ad alta intensità di ricerca" mostra anche che i vantaggi comparativi della Germania restano prevalentemente e relativamente stabili nelle "tecnologie ad alto valore" (veicoli a motore, ingegneria meccanica), ma non nelle attuali "tecnologie d'avanguardia", con alcune eccezioni nel settore della tecnologia medica, della misurazione e del controllo. La Cina, invece, ha notevolmente ampliato le sue quote di mercato in entrambi i segmenti, soprattutto nelle tecnologie di punta.

E anche nelle tecnologie di fascia alta del settore automobilistico e della componentistica, il successo dell'export si basa sempre di più sulla concorrenza di prezzo, invece che su quella fondata sulla qualità, sempre stando a questo studio. Dopo tutto, in Germania non si producono solo veicoli di lusso per i quali - in quanto status symbol - il prezzo ha relativamente poca importanza. Baccaro e Benassi giungono a conclusioni simili, misurando una maggiore sensibilità al prezzo delle esportazioni tedesche nel settore automobilisitico e dell'ingegneria meccanica negli anni a partire dal 1990, in contrasto con i decenni precedenti.

Questi risultati sono ulteriormente confermati da un recente studio di Sebastian Dullien, Heike Joebges e Gabriel Palazzo. Lo studio evidenzia l'importanza della competitività di prezzo per le esportazioni tedesche, comprese le esportazioni di beni "high-tech". Questa competitività basata sui costi è stata notevolmente migliorata nei primi anni '80 da un lato e in seguito tra il 1995 e il 2012, vale a dire dopo le 2 grandi crisi dell'economia tedesca.

La fine dello stallo

Queste osservazioni, tuttavia, non sono di buon auspicio per lo sviluppo di lungo periodo dell'economia tedesca. Da tempo, infatti, questa ha smesso di essere alla frontiera del progresso tecnologico, ad esempio nelle biotecnologie o nell'economia digitale. È innovativa in alcune sue aree, ma solo per quanto riguarda lo sviluppo incrementale di innovazioni tecnologiche che nelle loro caratteristiche di base sono già vecchie di molti decenni, specialmente nella chimica, nell'ingegneria meccanica e nell'industria automobilistica, basata sui motori a combustione.

Oggi il vero progresso tecnologico avviene principalmente negli Stati Uniti e in Cina. L'economia tedesca, fondata sull'export, d'altro canto, fino ad ora è riuscita a tenere la testa fuori dall'acqua solo grazie alla moderazione salariale e alla bassa pressione fiscale. Nel breve periodo (e nella concorrenza intra-europea) questa competizione di prezzo basata sul dumping salariale può ancora funzionare, ma nel lungo periodo (e a livello globale) difficilmente funzionerà.

In altre parole: aver salvato i posti di lavoro attraverso la moderazione salariale e l'austerità nelle recenti crisi economiche può aver contribuito a stabilizzare questo modello. Nel frattempo, però, questa strategia sembra essere arrivata al capolinea.

Nel lungo periodo, un'economia con un elevato costo del lavoro, come quella tedesca, può sopravvivere solo se si investe molto di più nella ricerca, nella tecnologia e nelle competenze della forza lavoro - e se la crescita economica e i posti lavoro non dipenderanno solo dagli sviluppi incerti dei mercati di esportazione esteri, ma anche, in modo complementare, da una domanda interna stabile.

In questo contesto, sarebbe un errore molto grande reagire alla recessione del 2021 causata dal Coronavirus continuando a spingere il modello di export basato sulla compressione dei costi, ad esempio attraverso l'austerità e la moderazione salariale collettiva. Questo non farebbe altro che intensificare ulteriormente una disuguaglianza di per sé già molto  pronunciata.

Affinché le esportazioni possano avere un ruolo cruciale, ma all'interno di una struttura economica più equilibrata, sarebbe utile se queste esportazioni fossero realizzate grazie a prodotti di qualità e non solo attraverso una concorrenza basata su dei prezzi sempre piu' bassi. Quest'ultima è incompatibile con la necessaria stimolazione della domanda interna fatta attraverso l'aumento dei salari e la spesa pubblica. Anche nel lungo periodo, non si può vincere contro i paesi a basso salario.

La qualità superiore dei prodotti - oppure un loro posizionamento piu' alto come oggetti di status - permetterebbero d'altra parte anche di strappare prezzi più alti e sarebbero quindi compatibili con la necessità di aumentare i salari e quindi riequilibrare l'economia tedesca. Sono necessari anche maggiori investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle aziende, che a loro volta serviranno ad aumentare la domanda interna. I salari più alti fungono quindi da "beneficial constraints" (Wolfgang Streeck), e costringono le imprese a fare il loro bene, cioè a fare gli investimenti.


In Germania ci sono ancora i presupposti per fare export di qualità e ad alto prezzo

Ribilanciare l'economia con una strategia di alti salari non è fattibile con ogni struttura dell'export. Quando i salari e i prezzi aumentano, i paesi con una struttura dell'export elastica al prezzo, come ad esempio quelli legati al tessile di base, devono fare i conti con un brusco crollo delle loro esportazioni, dato che i compratori possono facilmente passare ad altri fornitori.

Non è così facile, inoltre, per un paese passare da beni semplici a beni più evoluti e a livelli di tecnologia piu' elevati. Ci sono inoltre notevoli ostacoli, che in particolare nel lungo periodo possono ostacolare una ripresa delle economie dell'Europa meridionale, come dimostrano Jakob Kapeller, Claudius Gräbner e Philipp Heimberger. L'economia tedesca, d'altra parte, in un confronto interno all'UE occupa ancora una posizione di primo piano per quanto riguarda il concetto di "complessità economica", un importante indicatore della capacità tecnologica di un paese, un concetto sviluppato da un gruppo di ricercatori dell'Università di Harvard.

La Germania ha ancora dei presupposti tutto sommato buoni per poter riequilibrare con successo la sua economia nell'ambito di un confronto europeo. Certo, abbiamo visto che la quota di esportazioni tedesche elastiche rispetto al prezzo negli ultimi decenni è aumentata - uno sviluppo molto problematico. Ma se confrontiamo la posizione relativa della Germania con quella degli altri classici paesi più industrializzati sia all'interno dell'UE (Francia, Italia, Spagna) che all'esterno (Regno Unito, Giappone, Stati Uniti), vedremo che la Germania mantiene una quota relativamente più alta del suo export in termini di beni sofisticati e meno sensibili al prezzo rispetto a questi paesi, stando ad uno studio realizzato dall'Istituto di ricerca economica della Bassa Sassonia.

Per la Germania - come accade all'orbo in mezzo ai ciechi, per così dire - nel confronto internazionale, dovrebbe essere ancora più facile mantenere un alto livello di esportazioni anche a fronte di una ridotta competitività di prezzo dovuta a dei salari più alti, diversamente da quanto accade in Italia, ad esempio, dove negli ultimi decenni ci sono state notevoli perdite in termini di quote di mercato causate da beni maggiormente sensibili al prezzo, ad esempio il tessile e i mobili, come risultato dell'ascesa della Cina.

Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale citati in precedenza, non esiste nessun'altro paese al mondo il cui profilo dei beni esportati negli ultimi decenni abbia avuto cosi' tanta somiglianza con quello della Cina, piu' di quanto è accaduto all'Italia. L'Italia è stato quindi il paese che negli ultimi decenni piu' di tutti ha sofferto a causa del "miracolo economico cinese".

Lo stesso destino nel prossimo futuro potrebbe toccare anche alla Germania - dato il "miglioramento" del portafoglio dell'export cinese. Non è ancora troppo tardi per cercare di difendere il vantaggio competitivo tramite investimenti maggiori nella ricerca, nello sviluppo e nella formazione di lavoratori altamente qualificati e ben pagati.

Ma questo riequilibrio sarà un adattamento doloroso per alcune parti significative dell'industria tedesca. E questo è particolarmente vero per quelle aziende che negli ultimi decenni hanno investito sempre meno in innovazione e produttività e si sono invece sempre piu' adagiate sulla moderazione salariale e su di una moneta sottovalutata. In molti casi, senza il sostegno attivo dello Stato, tutto questo non sarà possibile, specie nell'area della politica per lo sviluppo tecnologico

martedì 5 gennaio 2021

Andreas Nölke - Vi spiego perché gli attacchi a Ungheria e Polonia sono pretestuosi

"Se i tedeschi si mettono anche a dare giudizi sulla politica e la giustizia nell'Europa orientale, allora l'accusa di imperialismo risulta alquanto ovvia" scrive il grande intellettuale tedesco Andreas Nölke in merito al duro scontro sul rispetto dello Stato di diritto in Ungheria e Polonia. Nelle settimane che hanno preceduto il fragile compromesso di dicembre, dalla politica e dai media tedeschi sono arrivati degli attacchi molto duri nei confronti dei due paesi dell'Europa orientale, attacchi per lo piu' pretestuosi, secondo l'autore, che servirebbero piu' che altro a coprire le ambizioni egemoniche e geopolitiche nell'Europa dell'est. Per Andreas Nölke a Bruxelles le leggi si interpretano per i governi amici, mentre si applicano per quelli ostili e sovranisti, come nel caso di Orban e Morawiecki. Un commento molto interessante del grande Andreas Nölke da Makroskop.de



Chi nei media e nella politica accusa la condotta di Polonia e Ungheria sullo stato di diritto ritiene di avere dalla sua la legittimazione democratica. Un errore.

Polonia e Ungheria per settimane sono state costantemente sotto il fuoco dei media e della politica a causa del blocco al bilancio UE e del relativo fondo post-corona. Quasi tutti i principali mezzi stampa o televisivi hanno condannato la posizione dei due governi dell'Europa dell'est, come del resto hanno fatto il governo tedesco e l'opposizione.

Alcuni rappresentanti dei socialdemocratici si sono addirittura esposti in maniera particolarmente pronunciata. Katarina Barley, vicepresidente del Parlamento europeo, ad esempio, in relazione al primo ministro ungherese ha dichiarato a Deutschlandfunk: "dobbiamo affamarlo (Orbán) dal punto di vista finanziario" arrivando a sostenere che "regimi come quello di Orbán e quello di Kaczynski, [...] prima di tutto pensano a mettere soldi nelle loro tasche".

Heiko Maas, che in qualità di Ministro degli Esteri dell'attuale presidenza del Consiglio europeo dovrebbe, dopo tutto, agire come farebbe un "onesto mediatore", ha affermato, secondo quanto riferito dal Tagesschau, in merito al meccanismo proposto in materia di stato di diritto:

"Avremo quindi uno strumento aggiuntivo che sarà molto doloroso per paesi come Polonia e Ungheria".

Andreas Noelke

Protagonisti sgradevoli, ma comunque

Una certa mancanza di simpatia per i governi di Polonia e Ungheria è più che legittima. Le politiche sociali del governo ultra-conservatore polacco sono ripugnanti, dalla posizione sull'aborto fino alla discriminazione contro la comunità LGBT. E il governo ungherese non è certo da meno, anzi è famoso per i suoi favoritismi nei confronti di amici e parenti e per i generosi sussidi alle imprese nazionali e transnazionali a scapito delle fasce più povere della popolazione.


Ora, naturalmente, si potrebbero indicare anche alcuni aspetti progressisti di questi governi, come la "definanziarizzazione" in Ungheria o le politiche ridistributive sotto l'egida del PiS (Polonia), dagli assegni familiari al salario minimo, soprattutto in considerazione del forte aumento delle disuguaglianze causato dalle politiche dei precedenti governi liberali.

Ma in questa discussione né la simpatia politica, né il disgusto politico dovrebbero essere il fattore decisivo; si tratta piuttosto di questioni fondamentali per la democrazia, della capacità dell'UE di funzionare e della gestione della democrazia negli Stati membri - e del posizionamento dei nostri media e della politica su questi temi.

Chi sta bloccando chi?

Un argomento comune nei nostri media - e fra i nostri rappresentanti politici - è l'affermazione secondo la quale Polonia e Ungheria starebbero bloccando il bilancio dell'UE e (peggio ancora) il fondo per il post-Corona. E questa condotta li renderebbe colpevoli delle sofferenze nei paesi dell'Europa del sud, particolarmente colpiti dalla pandemia.

Ma questa ovviamente è una sciocchezza. Fin dall'inizio, i governi di Polonia e Ungheria non hanno fatto segreto della loro determinazione nell'impedire qualsiasi accordo che li mettesse sotto pressione su posizioni controverse in materia di Stato di diritto. Il compromesso sul bilancio al vertice dei capi di governo dell'estate scorsa è stato possibile solo dopo che la Cancelliera Merkel (presumibilmente) ha dato garanzie in tal senso.

Il recente confronto è nato chiaramente all'interno del Parlamento europeo, dove nei negoziati sul bilancio UE la maggioranza ha insistito per un significativo inasprimento delle regole in materia di possibili violazioni dello Stato di diritto. A tale proposito è assurdo, pertanto, scaricare la responsabilità unilateralmente sui governi di Polonia e Ungheria. Entrambe le parti ne sono responsabili.


Ancora più pericolose sono le attuali proposte (per esempio quelle dell'unionista Jaques Delors Institute) finalizzate a superare la situazione di stallo lasciando la gestione del Fondo Corona a livello intergovernativo, superando quindi le istituzioni dell'UE e aggirando in questo modo il veto di Polonia e Ungheria. Anche se ciò in linea di principio fosse giuridicamente concepibile, non farebbe altro che aggravare ulteriormente il conflitto.

Dopotutto il Corona-Fund non è una di quelle aree del diritto europeo in cui un "gruppo di volenterosi" può unire le proprie forze secondo le regole dell'UE per approfondire l'integrazione, mentre altri Stati membri non sono (ancora) disposti a farlo.

Polonia e Ungheria giustamente considererebbero una tale mossa sul Recovery Fund come una sorta di dichiarazione di guerra. In tal caso, farebbero certamente dei passi ulteriori per bloccare l'UE - uno Stato membro determinato, del resto, ha molte opzioni, soprattutto in quegli ambiti in cui viene ancora richiesta l'unanimità intergovernativa - e la spirale diell'escalation continuerebbe, con danni incalcolabili per l'UE, già indebolita da molte crisi.

Chi ha la legittimità democratica?

Chi, nei media tedeschi e nella politica tedesca, condanna la posizione di Polonia e Ungheria, naturalmente presuppone di avere dalla sua parte la legittimazione democratica. Ma le cose non stanno cosi'.

Nello scontro in atto la legittimazione democratica del Parlamento europeo si contrappone a quella dei governi di Polonia e Ungheria, che a loro volta possono contare su ampie maggioranze nei rispettivi parlamenti nazionali. Il Consiglio dei ministri dell'UE è diviso - e in ogni caso ha una legittimazione molto più indiretta rispetto a queste due parti, per non parlare della Commissione UE.

In questo confronto, i governi di Polonia e Ungheria (per tutti i limiti della democrazia ungherese, vedi sotto) possono chiaramente rivendicare un grado di legittimità democratica superiore rispetto a quello del Parlamento europeo. Il Parlamento europeo in un simile confronto manca semplicemente di una legittimazione democratica di base rispetto ai parlamenti nazionali.

Il deficit di legittimità del PE dipende da moltissimi fattori, ad esempio lo squilibrio fra il peso del voto degli elettori (un confronto Germania-Lussemburgo è di ca. 1:10, vale a dire che un voto del Lussemburgo conta fino a 10 volte un voto tedesco), l'assenza di campagne elettorali paneuropee (gli scienziati politici considerano le elezioni europee come "elezioni nazionali di secondo ordine", che non riguardano tanto un voto sulle politiche europee, quanto un voto sui partiti nazionali), la bassa affluenza alle urne a livello europeo (in Polonia/Ungheria alle ultime europee è stata di ca. il 45%, contro piu' del 60% delle elezioni parlamentari nazionali), oppure la mancanza di partecipazione pubblica ai dibattiti del Parlamento europeo (rispetto a quelli dei parlamenti nazionali).


Non c'è quindi ancora - almeno dal punto di vista di una prospettiva repubblicana di legittimità democratica - nessuna alternativa ai parlamenti nazionali, almeno quando si tratta di questioni veramente importanti. E la questione del rispetto dello Stato di diritto negli Stati membri dell'UE è senza dubbio una di queste. Dobbiamo riconoscere ai governi di Polonia e Ungheria che nei confronti del Parlamento europeo hanno ancora dalla loro parte la piena legittimazione democratica, anche se siamo molto insoddisfatti in merito allo sviluppo della democrazia e dello Stato di diritto in questi paesi.

Tutti coloro che hanno un rapporto molto rilassato con tali questioni fondamentali in materia di sovranità democratica, dovrebbero anche considerare cosa accadrebbe al nostro paese se il Parlamento europeo mettesse in discussione la legittimità del nostro sistema giudiziario e chiedesse il blocco degli stanziamenti finanziati dall'UE. Le obiezioni (molto caute) della Corte costituzionale federale ai programmi di acquisto della BCE della scorsa estate e i conseguenti intralci sarebbero solo un mite assaggio di una rivolta contro l'UE e il suo governo, che poi scoppierebbero nel nostro Paese.

Polonia = Ungheria?

Un altro aspetto molto problematico nella discussione mediatica e nella politica tedesca è l'equazione fra Polonia e Ungheria, come nel caso delle affermazioni di Barley e Maas. Questa equazione all'inizio potrebbe anche essere comprensibile, dato che entrambi i paesi sono governati da partiti comunemente definiti come "populisti di destra". Tuttavia è fatale quando si parla di democrazia e di Stato di diritto - in questo caso però aspetti fondamentali. Polonia e Ungheria, tuttavia, sotto questo aspetto si differenziano notevolmente.


Il lungo governo di Fidesz in Ungheria, in effetti, ha portato ad una serie di limitazioni per la democrazia - anche se dovremmo essere cauti sui criteri di giudizio, dato il dominio incontrastato della CSU in Baviera, che ormai dura da diversi decenni.

Per conoscere i misfatti del governo ungherese è molto istruttiva una visita al "Verfassungsblog", misfatti che vanno dalle pressioni sulle università, sulle ONG e sulla stampa, fino alla limitazione dei diritti parlamentari, all'indipendenza dei tribunali amministrativi e all'assegnazione dei casi alla Corte costituzionale.

La democrazia ungherese, tuttavia, sembra ancora funzionare, come abbiamo visto nelle elezioni locali del 2019, quando l'opposizione a Budapest e in altre grandi città si è ripresa il potere strappandolo a Fidesz. In un paese governato in modo autocratico, questo non sarebbe successo.

In Polonia, invece, parlare di una forma di governo anche lontanamente autocratica è del tutto pretestuoso. Il paese gode di una pronunciata libertà di stampa, il PiS al potere deve fare i conti in maniera permanente con le sconfitte elettorali, e anche il funzionamento della Corte costituzionale polacca non viene fondamentalmente messo in discussione dal PiS - almeno quando vengono applicati standard equi (vedi sotto).

E una corte costituzionale forte resta in ogni caso una pietra angolare della democrazia, ma solo in un'ottica liberale. In una concezione repubblicana della democrazia - come rappresentata in Germania da Dirk Jörke o Ingeborg Maus, per esempio - la sovranità democratica del popolo (incarnata in particolare dai parlamenti nazionali) assume un ruolo molto più importante.

Ancora più astrusa, però, è l'equazione fra Polonia e Ungheria in termini di cleptocrazia, fatta in particolare da Katarina Barley. Ci sono dati credibili che mettono a confronto i paesi, compilate dall'agenzia anticorruzione dell'UE, l'OLAF. L'Ungheria nel 2018 assume infatti in questa lista un inglorioso ruolo guida, con la percentuale di gran lunga più alta di fondi il cui utilizzo viene messo in discussione dall'OLAF. La Polonia, invece, in questa statistica è tra i Paesi che fanno un uso più corretto dei fondi, con un risultato tra l'altro migliore rispetto a quello della Germania.

È perfettamente legittimo che l'Unione europea verifichi la correttezza in merito all'assegnazione dei fondi e faccia ricorso contro i destinatari che si sono comportati in modo scorretto (come l'Ungheria). Ma ciò è già previsto e non è affatto l'oggetto della attuale controversia. Quest'ultima, infatti, riguarda l'assegnazione dei fondi sulla base di una vaga clausola in merito allo Stato di diritto, la cui interpretazione sarà poi decisa dalle autorità di Bruxelles. Dovrebbe essere ormai chiaro che Polonia e Ungheria siano comprensibilmente preoccupate per questa interpretazione.

Stiamo misurando con lo stesso metro?

Le preoccupazioni da parte di Ungheria e soprattutto Polonia di non essere trattate equamente dall'UE non sono infondate. Sono ovviamente legate al fatto che questi due governi sono retti da partiti populisti di destra. Altri paesi vengono trattati con molta più clemenza. Che dire di Malta e della Slovacchia, ad esempio, dove i governi sono stati coinvolti in omicidi politici? E la Bulgaria e la Romania, con la loro corruzione endemica? Chi difende lo Stato di diritto quando si parla di questi paesi?

L'applicazione disomogena disomogenea degli standard diventa particolarmente evidente quando ci si concentra sulla nomina dei giudici costituzionali nel caso polacco, vale a dire il nucleo della controversia tra il PiS e i suoi critici.

Prima di tutto dobbiamo notare che nell'UE non esiste uno standard comune per la nomina dei giudici costituzionali. Al contrario, la pratica è molto eterogenea, per non parlare del fatto che in alcuni paesi UE non esistono nemmeno la corte costituzionale.

Nel caso polacco, invece, si critica in particolar modo l'influenza della politica (più precisamente: la maggioranza parlamentare guidata dal PiS) in merito alla nomina dei giudici costituzionali. Ora bisogna ammettere che anche noi in Germania dovremmo essere un po' cauti quando si parla di criticare l'influenza della politica nella selezione dei giudici costituzionali, perché tutti i nostri giudici costituzionali sono nominati dalla politica (Bundesrat e Bundestag) - i quali vengono selezionati secondo una procedura molto poco trasparente. Molti giudici costituzionali in passato erano stati anche dei politici di professione legati al governo, ad esempio l'attuale presidente Stephan Harbarth, un ex-parlamentare della CDU di lunga data - ecco perché molti polacchi non capiscono le critiche tedesche.

Dopo tutto, per l'elezione dei giudici costituzionali in Germania viene richiesta dalla legge una maggioranza schiacciante dei 2/3 (anche se non con rango costituzionale), in modo che anche l'opposizione possa avere una voce in capitolo, una chiara differenza rispetto alla Polonia - ma anche in molti altri paesi dell'UE spesso è sufficiente una maggioranza semplice, i giudici costituzionali vengono così de facto nominati dal governo (maggioranza) come in Polonia.


Ancora più irritante per i polacchi, ad esempio, sarebbe dare uno sguardo alla Francia: lì il parlamento non ha nessuna voce in capitolo nella nomina dei giudici costituzionali, tre di loro sono nominati dal presidente della Repubblica, tre dal presidente dell'Assemblea nazionale e tre dal presidente del Senato - e se tutti e tre appartengono al partito di governo, l'opposizione ha avuto sfortuna.

L'irritazione di molti polacchi - e soprattutto del loro governo - nei confronti dei "due pesi e delle due misure" europee, tuttavia, non deriva essenzialmente dall'assenza di un "gold standard europeo" nella nomina dei giudici costituzionali, ma dai doppi standard applicati dall'Unione europea e dall'opinione pubblica europea, in rapporto ai diversi governi polacchi.

A tal proposito bisognerebbe notare che il dramma attuale è stato causato dal precedente governo liberale. Nel 2015, infatti, quando il governo già poteva prevedere di perdere le elezioni, ha comunque eletto un terzo dei giudici costituzionali nell'ultima sessione del vecchio parlamento (contrariamente alle norme precedentemente in vigore) - anche se i vecchi giudici in realtà avrebbero dovuto terminare il loro mandato solo dopo l'elezione del nuovo parlamento. Questo tentativo di usurpazione della Corte costituzionale da parte del governo uscente, tuttavia, non ha interessato nessuno dei nostri media e neanche la politica - probabilmente perché è stato fatto da un governo liberale. L'irritazione del governo del PiS per questa disparità di trattamento è facile da capire.

La pressione esterna è controproducente

La ricostruzione delle irritazioni polacche non deve distogliere l'attenzione dal fatto che la sottomissione forzata della Corte costituzionale - e di alcune parti del più ampio apparato giudiziario - alla maggioranza parlamentare guidata dal PiS a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, può essere vista come problematica (anche se meno per gli standard repubblicani che per quelli liberali). E non c'è dubbio che anche in Ungheria ci siano state massicce violazioni delle norme democratiche.

Ma anche l'operato dell'Unione Europea contro questi governi è alquanto problematico. E questo vale non solo per i doppi standard alquanto discutibili, le generalizzazioni polacco-ungheresi, la scarsa legittimità democratica da parte dell'Unione europea e la disputa puerile su chi abbia iniziato per primo a bloccare il fondo post-Corona.

In generale ci si dovrebbe chiedere se il tentativo di imporre la propria idea di democrazia e di stato di diritto dall'esterno attraverso la coercizione in ultima analisi non sia controproducente. Se si guarda agli sviluppi politici interni di entrambi gli Stati negli ultimi anni, si ha l'impressione che questo colpo sia stato decisamente controproducente.

In entrambi i paesi, la pressione esterna dell'UE (e della politica tedesca) tende ad aiutare i governi in carica e a stabilizzare la loro posizione interna grazie alla retorica nazionalista. Nei Paesi appena usciti da decenni di dominazione straniera da parte dell'Unione Sovietica (e nel caso della Polonia anche da secoli di occupazione da parte dei vicini imperialisti), i tentativi di coercizione esterna in materia di politica nazionale vengono visti con particolare scetticismo. Chi dall'estero viene attaccato in maniera generalizzata è quindi più propenso a mostrare solidarietà con il governo in carica, nonostante vi possano essere delle eventuali riserve in merito alle sue politiche.

Meglio lasciar stare la postura imperiale tedesca

Non sono quindi di aiuto: la democrazia e lo stato di diritto - nella misura in cui sono già compromessi - devono essere raggiunti dai polacchi e dagli ungheresi stessi attraverso la lotta (i bavaresi ci sono riusciti a metà con la CSU). Il resto dell'UE farebbe meglio a tacere, anche se è difficile.

Questo vale soprattutto per i media e i politici tedeschi. L'egemonia economica e politica della Germania all'interno dell'UE viene già vista con grande scetticismo non solo nell'Europa meridionale (dopo la crisi dell'Euro). C'è molta preoccupazione anche per il predominio economico tedesco nell'Europa dell'Est, soprattutto a causa della sua dipendenza dalle multinazionali tedesche e dai loro investimenti diretti. Se i tedeschi si mettono a dare giudizi anche sulla politica e la giustizia dell'Europa orientale, l'accusa di imperialismo risulta alquanto ovvia.

E ancora una volta torniamo ai nostri socialdemocratici tedeschi: anche se si rifiutano tutti gli argomenti in favore di un approccio più moderato nei confronti di Polonia e Ungheria, ci si chiede ancora se, dopo quanto è accaduto nella seconda guerra mondiale, sia davvero opportuno che i principali rappresentanti della politica tedesca possano parlare di "doloroso" oppure "affamarli" quando si rivolgono a questi Paesi.

giovedì 14 marzo 2019

Intervista ad Andreas Nölke: "Non possiamo fare a meno dello stato nazione"

Andreas Nölke è professore di scienze politiche a Francoforte nonché la mente dietro il raggruppamento di sinistra Aufstehen!. Intervistato da Welt ci spiega perché non possiamo fare a meno dello stato nazione e perché l'immigrazione è un problema serio. Da Welt.


Welt: Herr Nölke, come professore di scienze politiche a Francoforte lei si è schierato a favore dello stato-nazionale. Perché?

Andreas Nölke: in realtà fra i sostenitori della sinistra è qualcosa di insolito, la maggior parte vorrebbe superare lo stato nazione. Io invece nel medio periodo non voglio, perché ci sono importanti funzioni che al momento vengono svolte meglio a livello nazionale. La democrazia, lo stato sociale e lo stato di diritto funzionano meglio nello stato nazionale che nell'UE. In questo senso, credo che l'aspirazione della sinistra a creare un super-stato europeo e poi uno stato mondiale non siano adeguate.

Welt: quindi apprezza le funzioni dello stato-nazionale, ma per ragioni diverse dalle destre?

Nölke: in realtà ci sono diversi motivi per sostenere lo stato nazionale. Non mi interessa il superamento della cultura tedesca. Ma lo stato-nazione, in quanto stato sociale, dispone dei mezzi per migliorare la situazione delle persone piu' svantaggiate, e rimane l'istanza più importante per protegge la loro libertà e sicurezza.


Welt: per quanto tempo ne avremo ancora bisogno?

Nölke: fino a quando non ci saranno segnali evidenti che la democrazia può funzionare meglio a un livello più elevato. Se emergesse un'opinione pubblica europea, se aumentasse l'identificazione con l'UE, se l'affluenza alle elezioni europee fosse più elevata - allora potremmo pensare di lasciarci alle spalle lo stato nazione.

Welt: quali elementi dell'UE sono anti-democratici?

Nölke: distinguo fra deficit democratico strutturale e attuale. Quest'ultimo include un'affluenza significativamente inferiore alle elezioni europee. La legittimità della democrazia si basa sulla volontà dei cittadini di andare a votare. Darei una maggiore legittimità a quel livello per il quale i cittadini votano con maggiore partecipazione.

Inoltre, anche alle prossime elezioni europee le questioni nazionali avranno un ruolo importante, anche perché non abbiamo un'opinione pubblica europea e sappiamo molto di più sulla politica di Berlino che non su quella di Bruxelles. Ma questi sono tutti problemi risolvibili. I deficit strutturali sono più difficili da risolvere.

Welt: quali sono?

Nölke: empiricamente, si può stabilire una stretta connessione tra le dimensioni di una comunità e il funzionamento della democrazia. Non so come ciò possa essere risolto nel quadro dell'UE. Inoltre, se osservo da sinistra vedo dei problemi con la mancanza di neutralità economica della costituzione europea. I trattati europei non erano destinati a diventare una costituzione, ma grazie all'interazione fra la Corte di giustizia europea e la Commissione sono diventati de facto una costituzione europea - attraverso due istituzioni con una legittimazione democratica estremamente indiretta.

Welt: cosa non la soddisfa dal punto di vista del contenuto?

Nölke: le quattro libertà fondamentali per i beni, i capitali, i servizi e il lavoro, sono state prima inserite nei trattati, con intenzioni di politica economica, per poi insinuarsi nella costituzione. Una cosa del genere, tuttavia, non dovrebbe trovare posto in una costituzione perché significa che queste libertà economiche non sono più accessibili al potere politico.

Ecco perché questa costituzione per me non è accettabile. Ci sono proposte per rimuovere queste norme dai trattati, sarebbero quindi soggette alla legislazione normale, e in quel caso non avrei alcun problema.

Welt: tra le quattro libertà fondamentali viene soprattutto contestata la circolazione illimitata dei lavoratori all'interno dell'UE. Questo diritto alla mobilità degli europei e l'accettazione della migrazione irregolare non sono forse di sinistra?

Nölke: dal mio punto di vista: no. Per me, in quanto uomo di sinistra, si tratta prima di tutto della protezione dei lavoratori. E una forte immigrazione mina le condizioni lavorative dei più deboli all'interno della nostra società. Perché è soprattutto la migrazione irregolare a portare da noi persone poco qualificate, fatto che aumenta la concorrenza in questo settore del mercato del lavoro. Diversi studi mostrano che un tale afflusso di lavoratori nel segmento meno qualificato ha effetti alquanto problematici. Dal punto di vista dell'economia nel suo complesso, tuttavia, l'immigrazione può anche avere degli effetti positivi.
Welt: a quali studi si riferisce?

Nölke: dopo la forte immigrazione da Cuba verso la zona di Miami, nell'ambito dell'esodo di Mariel del 1980, è stata osservata una ripresa generale dell'economia, ma una riduzione fino a un terzo del livello dei salari fra le persone meno qualificate. Un altro studio ha fornito un quadro simile dopo l'apertura da parte dell'Austria agli europei dell'Est nel 2011: è stato buono per il prodotto interno lordo, ma catastrofico per le persone poco qualificate.

Le aziende hanno un legittimo e razionale bisogno di ottenere una buona manodopera al miglior prezzo possibile. Un'alta offerta significa prezzi bassi. Tuttavia, questi interessi spesso non sono in sintonia con quelli della società ospitante, né con quelli delle società che hanno formato queste persone. E spesso nemmeno con quelli dei migranti stessi, molti dei quali preferirebbero vivere nel loro paese, ma lì non trovano lavoro.

Welt: non è forse ragionevole se molte persone provenienti da economie disfunzionali si spostano nelle aree economiche più forti? In questo modo non si aiutano i migranti e le aziende?

Nölke: nel breve termine, sì, ma il mio interesse si rivolge più che altro al sostegno alle aree economiche disfunzionali. Ciò riguarda anche la politica di sviluppo, ma soprattutto la politica del commercio estero. Ad esempio, negli ultimi 20 anni, l'UE ha optato per una politica di libero scambio molto più severa nei confronti dell'Africa sub-sahariana. Le esportazioni agricole stanno distruggendo grandi parti dell'agricoltura di quei paesi. Una politica economica esterna meno aggressiva aiuterebbe questi paesi molto più dell'emigrazione di una parte della loro popolazione verso l'Europa.

Welt:  almeno ora i dazi all'importazione sui beni africani sono stati ampiamente aboliti, in modo che questi paesi possano esportare a basso costo in Europa..

Nölke: sì, ma il problema riguarda molto meno i nostri dazi all'importazione, e molto di piu' invece la pressione esercitata sulle economie di questi paesi costretti ad aprire i loro mercati ai nostri prodotti. La mia ricerca sui modelli economici dei mercati emergenti mostra che i paesi con un protezionismo selettivo sono di gran lunga i paesi di maggior successo: India e Cina. Le economie emergenti, che volontariamente o forzatamente si sono aperte, spesso hanno strangolato l'economia locale.

A proposito, penso anche che la Germania dovrebbe frenare il suo forte orientamento all'export. Da un lato per rispetto nei confronti di queste economie, ma anche nel proprio interesse. Abbiamo il più forte orientamento all'export fra tutte le principali economie. Nel lungo termine, per la Germania non è una buona idea, siamo totalmente dipendenti da ciò che accade nell'economia globale come non accade a nessun'altra grande economia. Se ci fosse un'ondata di protezionismo, delle guerre commerciali o un crollo economico globale, la Germania sarebbe seriamente minacciata.

Welt: lei è una delle principali menti di Aufstehen, questo raggruppamento ha la possibilità di raggiungere una dimensione rilevante?

Nölke: penso che sia possibile, ma ci vorrà del tempo. Da un lato, vogliamo riunire persone che socio-economicamente pensano a sinistra, ma con i partiti di sinistra attuali, fortemente cosmopoliti e globalisti, non riescono a fare nulla. Dall'altro lato, vogliamo spingere verso un ripensamento all'interno della SPD e dei Verdi. Dopo una buona partenza, da due o tre mesi affrontiamo dei problemi organizzativi. Per ora non siamo un movimento forte, ma la situazione potrebbe cambiare rapidamente in una prossima crisi economica.

Welt: cosa significa per Aufstehen la partenza di Sahra Wagenknecht?

Nölke: il suo ritiro dalla ristretta cerchia della leadership di "Aufstehen" in favore di nuovi volti politici era già stato annunciato mesi fa. Mi aspettavo che sarebbe accaduto durante il congresso di giugno, quando dovrà essere eletta una nuova leadership. Da quel momento la fase di avvio, influenzata in maniera relativamente pesante da politici professionisti, sarà finita, e a prendere il timone saranno coloro che organizzano il movimento a livello locale. Questa attualmente è la vera forza di "Aufstehen".



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