sabato 4 maggio 2019

Primi colpi di avvertimento da Parigi

E' normale che un paese indebitato, con un enorme disavanzo commerciale e una demografia scoppiettante possa avere interessi diversi da quelli di un paese creditore, con un gigantesco surplus commerciale e una demografia asfittica. Checché ne scrivano i soloni prezzolati di casa nostra, il cosiddetto asse franco-tedesco perde colpi e in Europa si aprono scenari fino a poco tempo fa impensabili. German Foreign Policy prova a mettere in fila i colpi di avvertimento sparati da Parigi.


L'offerta di Macron

Il presidente francese Emmanuel Macron sin dall'inizio del suo mandato si è dato da fare per ottenere da Berlino, in cambio della politica di "austerità à l'allemande" applicata a livello nazionale, delle concessioni in materia di politica europea. Le sue proposte erano state illustrate in maniera esemplare durante il famoso discorso alla Sorbona del settembre 2017. A rivestire un ruolo centrale c'era la richiesta di una riforma dell'eurozona, che Macron avrebbe voluto dotare di un ministro delle finanze e di un proprio bilancio; ciò avrebbe dovuto creare le condizioni per ridurre le disuguaglianze all'interno dell'area valutaria e stabilizzare in maniera tempestiva e duratura i paesi in crisi. Il presidente francese chiedeva inoltre il rapido sviluppo di una forza di intervento, con una particolare attenzione alle operazioni militari nell'area africana di grande interesse per le élite francesi. Per riuscire ad attutire l'impatto delle critiche provenienti dal popolo francese e causate dei tagli, erano indispensabili, non da ultimo, dei notevoli successi in materia di politica estera e militare.

Con le spalle al muro

Appena due anni dopo la sua elezione Macron si è accorto di essere rimasto a mani vuote. Berlino non solo ha bloccato i suoi piani di riforma dell'eurozona, perché contrari al rigido modello dell'austerità tedesca [1]; ha anche iniziato a rallentare i piani del presidente francese per una militarizzazione dell'UE ("Iniziativa d'intervento europeo") e al suo posto ha iniziato a spingere il ​​suo progetto "PESCO" [2]. "PESCO" è un progetto militare di lungo termine e non corrisponde al desiderio francese di avere a disposizione una forza a dispiegamento rapido. Berlino inoltre insiste per una "europeizzazione" del seggio francese al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e delle armi nucleari francesi [3], spingendo in questo modo il governo francese sempre di piu' sulla difensiva. Anche in patria Macron è con le spalle al muro. Le proteste dei "gilets jaunes" vanno avanti da mesi; il tentativo di levare il vento dalle vele della protesta con un dibattito controllato dallo Stato ("grand débat") non sta portando frutti: secondo gli ultimi sondaggi circa il 75 % della popolazione ritiene che il progetto non sia in grado di risolvere la crisi [4]. Già all'inizio dell'anno la percentuale di francesi insoddisfatti dall'amministrazione Macron era salita a tre quarti della popolazione [5]. 

Colpi di avvertimento

E' in questa situazione che Macron ha iniziato la sua manovra difensiva nei confronti dell'egemonia tedesca nell'UE: nonostante la sua politica di "austerità à l'allemande" e la sua lealtà, infatti, Berlino non ha voluto accordargli nemmeno delle piccole concessioni utili a facilitare il suo consolidamento interno. Un primo sorprendente colpo di avvertimento in direzione Germania è arrivato a febbraio con il ritiro dell'appoggio francese al gasdotto Nord Stream 2; il governo federale solo esercitando una grande pressione in seguito è poi riuscito a mantenere aperta una possibile soluzione per il progetto [6]. Un altro affronto, sebbene simbolico, è stata la disdetta da parte di Macron di un'uscita dimostrativa congiunta con la cancelliera Angela Merkel durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco - motivando la scelta con la necessità di dedicarsi urgentemente al desolato stato interno della Francia. A metà aprile Parigi ha anche votato contro l'apertura di negoziati formali per un accordo commerciale con gli Stati Uniti. I negoziati, infatti, sono di particolare interesse per Berlino: Washington, soprattutto a causa dell'eccedenza commerciale tedesca, minaccia di applicare tariffe punitive e dazi sulle auto che colpirebbero duramente l'industria tedesca. Questa volta il voto contrario della Francia, a causa del voto a maggioranza, non ha avuto alcun effetto, ma è stato comunque un segnale molto chiaro.

Le eccedenze commerciali tedesche

La settimana scorsa Macron, durante una conferenza stampa, ha annunciato ulteriori "scontri" con la Repubblica federale, promettendo anche nuovi sforzi per riformare l'Eurozona. [7] Come constatava anche una relazione recente dell'Institut de Relations Internationales et stratégiques (IRIS) di Pargi, si tratta di elementi di importanza fondamentale: la fissazione tedesca sull'export fondata su dei surplus commerciali enormi, viene realizzata "a spese dei paesi partner" e nel lungo periodo non è sostenibile. Nel frattempo, il ministro francese dell'Economia e delle finanze, Bruno Le Maire, a Berlino ha iniziato ad insistere per ottenere dalla parte tedesca un ripensamento in merito alla sua fissazione unilaterale sull'export. Parigi nei prossimi mesi affronterà di nuovo e "in maniera piu' o meno esplicita" la questione del "considerevole surplus commerciale tedesco", si dice all'IRIS: alla fine, questo grava piu' "sui partner europei della Germania" che non sugli Stati Uniti, il cui presidente è riuscito ad imporre nell'agenda internazionale il tema dell'eccesso di export tedesco [8]. Anche nell'UE, la Francia è lungi dall'essere la sola a criticarlo.

"Completamente normale"

Prima della riunione fra Macron e Merkel tenutasi a margine del vertice sui Balcani occidentali di Berlino, il governo federale ha cercato di minimizzare il conflitto. Ci sono solo dei "disaccordi occasionali" tra i due paesi, ha riferito un portavoce del governo; ciò tuttavia sarebbe "normale e necessario". Fino ad ora si è sempre riusciti a trovare una "soluzione" alle controversie. [9] Nella realtà dei fatti però la "soluzione" è sempre stata quella che favoriva gli interessi della Germania. Uno degli esempi più recenti è stato quello della tassa sul digitale che la Francia avrebbe dovuto introdurre a livello nazionale a marzo - ma che Berlino aveva ostinatamente bloccato a livello europeo [10].

Non c'è piu' una minoranza di blocco

I predecessori di Macron, Nicolas Sarkozy e François Hollande, avevano già fallito nel tentativo di limitare gli avanzi commerciali tedeschi e di ottenere una corrispondente riforma della zona euro. Nei loro confronti Macron tuttavia ha un vantaggio significativo: dopo l'uscita della Gran Bretagna dall'UE non ci sarà piu' una minoranza di blocco contro quei paesi che rifiutano i diktat tedeschi in materia di politica dell'austerità. "La Brexit", era scritto recentemente in un commento, "regala ai paesi mediterranei la maggioranza dei voti". [11] Ciò dà agli stati dell'unione economicamente più deboli la speranza di potersi liberare dalla morsa della spietata austerità imposta da Berlino. Di conseguenza Macron ora appoggia una Brexit rapida - e in questo modo ancora una volta finisce per entrare in rotta di collisione con Berlino.
--> ..



[1] S. dazu Der Lohn des Chauvinismus und Hegemonie nach deutscher Art.
[2] S. dazu Die Koalition der Kriegswilligen (II).
[3] S. dazu Die nukleare Frage.
[4] Opposés à Macron, les français soutiennent les #giletsjaunes #acte24 #sondage. agoravox.fr 27.04.2019.
[5] Dreiviertel der Franzosen unzufrieden mit Präsident Macron. handelsblatt.com 04.01.2019.
[6] S. dazu Weltpolitik unter Druck.
[7] Catherine Chagitnoux: Macron assume ses désaccords avec l'Allemagne. lesechos.fr 25.04.2019.
[8] Rémi Bourgeot: Le "modèle allemand": de totem à tabou. iris-france.org 26.04.2019.
[9] Macron sucht "fruchtbare Konfrontationen" mit Berlin. Frankfurter Allgemeine Zeitung 27.04.2019.
[10] S. dazu Streit um die Digitalsteuer.
[11] S. dazu Zuckerbrot und Peitsche und Deutsche Hybris.

venerdì 3 maggio 2019

Verso un crollo dell'export tedesco in Gran Bretagna

La Brexit non c'è ancora stata ma l'export tedesco verso la Gran Bretagna è già in crisi e i segnali in arrivo dalla chimica e da altri importanti settori industriali lasciano ipotizzare un forte rallentamento. Ne scrive Die Welt


Da quasi tre anni si ripetono gli allarmi sul crollo degli scambi commerciali fra Germania e Regno Unito in caso di Brexit. Per ora siamo ancora in attesa dell'uscita dell'UE, ma il commercio tra Germania e Gran Bretagna si è già ridotto in maniera significativa. "I numeri sono drammatici", afferma Christian Kille, direttore dell'Istituto per la logistica applicata (IAL) presso l'Università di Würzburg-Schweinfurt.

Nel 2018 le esportazioni tedesche verso la Gran Bretagna sono diminuite dell'11,4 %, scendendo a 16,5 milioni di tonnellate. Le importazioni sono addirittura diminuite del 15,4 %, passando a 14,7 milioni di tonnellate. "Un importante fattore del forte calo nelle importazioni è stato il crollo delle materie prime come il petrolio greggio e il gas naturale", afferma Kille.

Ma anche i settori chiave ad alto valore aggiunto hanno registrato un calo significativo. "La Gran Bretagna già ora sta sperimentando le conseguenze della Brexit", afferma l'esperto di logistica Kille, il cui istituto, insieme ad una società di software specializzata nella logistica, pubblica il  cosiddetto sismografo dell'import e dell'export - una valutazione costante degli scambi fra la Germania e il resto del mondo.


Sia nell'industria chimica che in quella farmaceutica, le importazioni e le esportazioni hanno già subito delle perdite elevate senza che siano state ancora applicate delle barriere tariffarie. "Gli ordini nell'industria chimica sono un buon indicatore precoce dello stato dell'economia. Quando diminuiscono gli ordini nella chimica, è perché l'industria in generale si aspetta meno ordini e chiede meno prodotti chimici intermedi", afferma Kille. "Se il settore è in grado di mantenere la sua reputazione di indicatore precoce dell'andamento dell'economia, ci possiamo aspettare una ulteriore diminuzione nel commercio estero".

Soprattutto nel settore alimentare sensibile ai prezzi, l'applicazione di tariffe doganali porterebbe a dei sensibili cambiamenti. Anche nell'industria automobilistica e nella componentistica, fino ad oggi fortemente interconnesse, secondo lo IAL, sono già state registrate perdite a due cifre in entrambe le direzioni. Le importazioni tedesche dall'isola sono diminuite del 12,1% passando a 430.000 tonnellate, le esportazioni dell'11,4% passando a 1,73 milioni di tonnellate.

La Brexit tuttavia non sarebbe l'unico fattore ad aver scatenato i cambiamenti in corso nel commercio estero britannico. Per l'industria automobilistica parla Mike Hawes, il leader dell'associazione dei produttori di auto britannici SMMT, il quale fa riferimento ad una "catena di circostanze sfortunate". È tuttavia vero che la Brexit imminente e la situazione poco chiara in merito ai futuri rapporti con l'UE a 27 stanno mettendo in difficoltà i produttori, i quali sono strettamente legati ai fornitori del continente. Secondo Hawes, a ciò tuttavia bisogna aggiungere anche l'incertezza sul futuro dei motori diesel e l'indebolimento della domanda in Europa e in Cina.


La produzione sull'isola di auto da parte dei fabbricanti come Nissan, Honda, Jaguar, Land Rover o BMW va per l'80% nell'export. I produttori recentemente hanno considerevolmente ridotto la loro produzione. Gli ultimi dati mostrano che il numero di auto prodotte nel paese, nel primo trimestre si è ridotto del 16% rispetto all'anno precedente. Solo 370.289 veicoli sono usciti dalle catene di montaggio fra gennaio e marzo, tradizionalmente il trimestre più forte per l'industria.

Il crollo del commercio tedesco con il Regno Unito diventa chiaro se confrontato con lo sviluppo degli altri stati dell'UE, afferma Kille. Nel 2017, le esportazioni tedesche verso l'UE, compreso il Regno Unito, sono cresciute del 2,1 % salendo a 322 milioni di tonnellate, mentre le importazioni sono cresciute del 3,1 %, passando a 349 milioni di tonnellate. La Gran Bretagna si sta allontanando da questa traiettoria di sviluppo.

Ciò diventa ancora più chiaro nel confronto di lungo termine: dal 2015 al 2018, le esportazioni tedesche verso l'UE sono aumentate del 12% e le importazioni addirittura del 15%. Le esportazioni verso il Regno Unito sono scese dell'8%, le importazioni del 4%.

"Le aziende non possono permettersi di aspettare che il poker della Brexit arrivi alla fine. Hanno già preso le loro decisioni e agito sulla base di queste", commenta Ulrich Lison, esperto di dogane, riferendosi alle cifre attuali sul commercio estero. In altri settori, il big bang probabilmente deve ancora arrivare. "Le tariffe doganali porteranno a dei cambiamenti evidenti, specialmente nell'industria alimentare sensibile ai prezzi".

L'attuale boom nei trasporti fra l'UE e le isole britanniche, come riportato dal barometro del mercato del trasporto merci Timocom, serve piu' che altro per ricostituire le scorte e come misura precauzionale in caso di una hard Brexit . Kille cita un interlocutore del settore immobiliare britannico: "Ogni magazzino disponibile attualmente viene affittato per immagazzinare merci".


-->

mercoledì 1 maggio 2019

Berlino isolata dopo la fine del matrimonio franco-tedesco

"Il discorso del presidente Macron del 25 aprile, non solo segna la fine del rapporto speciale fra Francia e Germania. Ma le conseguenze di questa rottura dell'asse europeo vanno ampiamente al di là dell'UE", scrive Uwe Schramm, un importante diplomatico tedesco, su Tichys Einblick. Mentre i pennivendoli di casa nostra ci spiegano che l'Italia in Europa sarebbe isolata ed esclusa dai tavoli che contano, scopriamo che da Parigi arrivano dei segnali molto chiari: il matrimonio franco-tedesco non è finito, ma si avvicina alla fase della separazione in casa. Commento molto interessante di Uwe Schramm su Tichys Einblick.


Alcune cose semplicemente accadono all'improvviso, anche se ad un certo punto te le saresti potute aspettare. E' successo con il discorso del presidente francese Emmanuel Macron di giovedì scorso. L'argomento più importante doveva essere la politica interna francese dopo le proteste dei Gilets Jaunes. Ma poi Macron, con una chiarezza senza precedenti, si è spostato sui crescenti conflitti fra Parigi e Berlino. Ha menzionato gli esempi nella politica energetica e climatica, le differenze in materia di politica commerciale con gli Stati Uniti e nei negoziati sulla Brexit. Avrebbe potuto elencarne di più: come le divergenze in materia di politica finanziaria e sociale nell'UE, nella difesa comune e nell'esportazione di armi. A ciò si aggiungono le delicate questioni interne in materia di politica migratoria dell'UE e la difesa delle frontiere esterne dell'UE.

Anche solo come provocazione, Macron nel suo discorso di Parigi, avrebbe potuto aggiungere altri elementi ancora piu' recenti. Come la richiesta fatta dal nuovo leader della CDU Kramp-Karrenbauer di chiudere la seconda sede del Parlamento europeo a Strasburgo, oppure la polemica inutilmente scatenata dalla parte tedesca sul seggio francese al Consiglio di Sicurezza, che a Berlino, per ovvie ragioni, si pensa debba diventare un seggio comune dell'UE. Dal punto di vista francese, c'è come l'impressione che a Berlino si voglia sminuire il ruolo di Parigi. A Parigi ovviamente la cosa non è stata presa molto bene. Non era andata diversamente in passato, come ad esempio è accaduto con le reazioni evasive arrivate da Berlino in seguito alle ripetute proposte di riforma europea lanciate da Macron.

Macron nel suo discorso ha evitato una escalation delle parole. Ha parlato di "un confronto fruttuoso" e della volontà di scendere a compromessi. Il suo discorso tuttavia conteneva un  messaggio chiaro: basta con il divertimento. Il tempo delle avances di Parigi in materia di politica europea è finito. D'ora in poi ognuno farà ciò che ritiene giusto e ciò che riesce a far rispettare. Non c'è più una corsia preferenziale franco-tedesca. D'ora in poi nell'UE ci sarà una libera scelta del partner con cui mettersi in viaggio.

Fra le righe ciò significa anche che Berlino ha perso il suo partner più importante nell'UE. Non è ancora opposizione aperta, ma si tratterà sempre di piu' di prendere decisioni sulla base degli interessi in ogni singola situazione, caso per caso. E questo accade proprio nel momento peggiore in cui la Gran Bretagna dice addio all'Unione europea, un paese che in materia di politica economica e finanziaria si era mosso quasi sempre insieme a Berlino. Londra mancherà quando si tratterà di decidere sull'appetito finanziario dei paesi del sud. Anche su altri temi, Berlino avrà il vento in faccia, all'interno dell'UE. A est, resta il gruppo di Visegrad con la Polonia, l'Ungheria e gli altri, i quali cercheranno di contrastare i diktat reali o presunti provenienti da Bruxelles o Berlino, mentre da Vienna, se sarà necessario, per questioni di pura utilità, si sceglierà un ruolo da suggeritore. Nel sud la Spagna resta vicina a Berlino, ma al momento ha altre preoccupazioni. Su dei paesi come Italia e Grecia bisogna farsi delle preoccupazioni. Berlino nell'UE nel complesso non è isolata. Ma non ha piu' amici. O piu' precisamente: ci sono dei partner con una diversa vicinanza e rilevanza e con motivazioni, obiettivi e interessi non corrispondenti.

Il discorso del presidente Macron del 25.04.2019, non solo segna la fine dello speciale rapporto franco-tedesco. Ma le conseguenze di questa rottura nell'asse europeo vanno ampiamente al di là dell'UE.

C'è una spiegazione a questa situazione. La geometria della politica estera tedesca può essere descritta con tre cerchi. Tre cerchi che corrispondono agli ambiti più importanti per la sicurezza del paese, e non solo per gli interessi economici. Si potrebbe anche parlare di tre dimensioni della politica estera: l'Europa, l'Atlantico e l'Oriente. Il problema ora è che dopo la correzione di rotta di Macron, nessuno di questi tre cerchi può ancora essere considerato intatto.

La dimensione europea ha il suo centro nell'UE, integrata da vari strumenti formali come il Consiglio d'Europa e un gran numero di meccanismi e istituzioni informali. Ma il centro di questo nucleo era costituito dal tandem franco-tedesco. Se questo asse soffre una perdita di qualità, come sta accadendo ora, ci saranno delle conseguenze per l'intero cerchio europeo della nostra geometria di politica estera. Il cuore continua a battere, ma sta soffrendo.

La seconda dimensione della nostra geometria di politica estera sono le relazioni transatlantiche; prima di tutto con gli Stati Uniti, che per la nostra sicurezza ancora oggi restano essenziali come lo sono sempre stati. Sfortunatamente la nostra politica e la stampa di casa nostra non hanno ancora capito che il presidente Donald Trump è tutt'altro che un imbarazzante incidente di percorso della politica americana. Berlino senza dubbio resta una voce importante nel bilancio della politica estera degli Stati Uniti. In queste circostanze, tuttavia, essere scivolati quasi in fondo alla classifica delle simpatie americane deve essere considerato un notevole svarione. Ciò puo' essere spiegato non solo con gli egoismi rabbiosi della politica americana, ma anche dal comportamento di Berlino e da altre questioni sostanziali come il non rispetto degli impegni tedeschi nel settore della difesa, o dal bigottismo di carattere guglielmino della stampa tedesca, e da certe dichiarazioni pubbliche, anche a livello politico. È così mentre il presidente Macron e sua moglie invitano la coppia Trump per un'elegante cena nel ristorante della Torre Eiffel, alla parte tedesca spesso, in materia di decenza civile, manca l'essenziale. Ciò trova vendetta nel fatto che la dimensione emotiva continua ad influenzare gli aspetti piu' fattuali. Inoltre, ciò non sembra essere d'aiuto anche nell'interpretazione delle dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti sugli impegni dell'Alleanza NATO. 

Nel terzo cerchio della nostra architettura di politica estera, quello della politica orientale, senza peraltro averne molta colpa, ci troviamo di fronte alle macerie della politica di distensione, nella sua formulazione finale, contenuta negli Accordi di Helsinki del 1975, i quali poi dal 1989 avevano reso possibile il processo di riunificazione tedesco. Per molti di noi si tratta di un addio difficile, che non viene accettato ovunque. Il ricordo di Willy Brandt è indimenticabile. Persino l'attuale presidente federale Steinmeier nei suoi anni da Ministro degli Esteri ha cercato di salvare ciò che sembrava possibile, e forse ha  tentato di tornare ai buoni propositi iniziali. Ma era come voler guidare alla massima velocità sull'autostrada orientandosi solo con lo specchietto retrovisore. Il suo successore Heiko Maas invece sembra essere in procinto di  tornare a separare un'altra volta i desideri dalla realtà.

Tornando a Emmanuel Macron e al suo discorso del 25.04.2019: non porterà al divorzio definitivo della coppia franco-tedesca, ma piuttosto ad una vita da separati in casa.

Con questa decisione del presidente francese, Berlino si trova ora in una situazione in cui nessuno dei tre ambiti della geometria della politica estera tedesca resta completamente intatto. La rottura dell'asse franco-tedesco ha colpito la dimensione europea sia nella sua qualità, che nella sua efficacia. Anche il rapporto con Washington sta soffrendo, ma non si può dire quale delle 2 parti abbia la responsabilità maggiore. Sarebbe molto bello, tuttavia, se sul lato tedesco, almeno per un po' si riuscisse a spegnere gli altoparlanti. La terza, vale a dire la dimensione della politica orientale, a causa della condotta russa in Crimea e in Ucraina orientale e di altri spiacevoli inconvenienti, non ha più alcuna valenza pacificatrice, come era accaduto sotto Brandt, Schmidt e Kohl, ma si è trasformata invece in un fattore di rischio, purtroppo con una tendenza crescente.

Se si confronta la situazione attuale con quella della politica estera sotto il cancelliere Helmuth Kohl, quando tutte e tre le dimensioni erano stabili, allora la Repubblica federale  odierna è messa molto peggio. Non c'è ragione per drammatizzare. Ma ci stiamo dirigendo verso una situazione di politica estera che in caso di shock interni o esterni imprevisti  potrebbe diventare problematica.


-->

lunedì 29 aprile 2019

Il riposizionamento di Macron

"La Germania senza dubbio si trova alla fine di una fase di crescita in cui ha tratto un enorme vantaggio dagli squilibri dell'eurozona", ha detto Macron giovedì a Parigi. Dopo i mesi difficili segnati dalla proteste dei Gilets Jaunes, per il presidente francese è arrivato il momento di riposizionarsi e di prendere le distanze da Berlino. E' una vera svolta oppure solo uno show a fini elettorali? Ne scrive Der Spiegel


La seconda parte del mandato del presidente francese Macron inizia con un riposizionamento nei confronti della Germania. Per Macron il paese vicino non è più il modello per le riforme, ma un modello in via di progressivo superamento.

Quando il presidente francese Emmanuel Macron due anni fa si presentò a Berlino per la visita inaugurale alla Cancelliera Angela Merkel, lo fece in maniera quasi sottomessa. A quel tempo, l'auto-proclamato riformatore economico considerava la Germania un modello dal quale c'era ancora molto da imparare.

Quando questo lunedì Macron tornerà a Berlino, i presagi lasciano ipotizzare una situazione completamente diversa. In realtà il presidente sarà solo un ospite al vertice sui Balcani organizzato nella Cancelleria federale. Ma nella cronologia francese è appena iniziata la seconda parte del mandato di Macron: dopo cinque mesi di proteste da parte del movimento dei Gilets Jaunes, che gli sono quasi costati il mandato, il presidente, dopo un tour di tre mesi nella provincia francese, recentemente è riuscito anche a riconquistare un po' di prestigio.

Macron in questi giorni, quindi, dà avvio al "secondo atto" del suo mandato. "Il primo atto era stato completamente focalizzato sulla Germania, nel secondo atto invece ha elaborato la delusione causatagli dalla Germania, e guarda in altre direzioni", spiega a Der Spiegel Sébastien Maillard, direttore dell'Istituto Jacques Delors di Parigi.

Per il suo rapporto con la Germania in pratica significa che il vicino non è più il modello per le riforme francesi, ma solo il principale modello economico d'Europa, in via di progressivo superamento.

"La Germania senza dubbio si trova alla fine di una fase di crescita in cui ha tratto un enorme vantaggio dagli squilibri dell'eurozona" ha detto Macron in una conferenza stampa al Palazzo dell'Eliseo giovedì scorso. Ed è stato ancora più esplicito: "La Germania ha un modello di produzione basato sul fatto che in Europa vi siano paesi con dei bassi costi di produzione - vale a dire esattamente l'opposto del progetto sociale che io intendo rappresentare per l'Europa".

In realtà la critica di Macron al modello economico tedesco non è nuova. "Già Xavier Musca, l'attuale vicepresidente della banca Crédit Agricole, nel suo ruolo di segretario generale del presidente Nicolas Sarkozy, dieci anni fa all'Eliseo aveva espresso lo stesso punto di vista", ricorda l'esperto di politiche europee Maillard. A Parigi c'è sempre stata la preoccupazione che la forza dell'economia tedesca, tutta basata sulle esportazioni, alla fine avrebbe avvantaggiato solo i tedeschi. Ma dopo la crisi finanziaria del 2008, per un lungo periodo di tempo il successo della loro economia sembrava aver dato ragione ai tedeschi.

"La Germania ha fatto le sue riforme al momento giusto, non l'ho mai incolpata per questo", dice ora Macron. Eppure ritiene che queste riforme, per le quali anche lui in Francia negli ultimi due anni si è speso, oggi non siano più un modello.

"Ho chiesto a Macron: la Germania è consapevole delle difficoltà che per noi rappresentano le aggressive politiche economiche degli Stati Uniti e della Cina?", riferisce la star dell'economia di Parigi, Elie Cohen. Cohen è stato professore di economia alla Scuola di Amministrazione di Parigi ENA, dove studiava Macron, ed è tuttora uno dei consiglieri presidenziali.

Quello che Cohen intende è: l'atteggiamento sempre più protezionistico degli Stati Uniti sotto la presidenza di Donald Trump e la politica economica espansiva di Pechino nell'ambito della cosiddetta nuova "Via della seta", dal suo punto di vista, già da tempo avrebbero dovuto garantire nuove condizioni in Europa. Le riforme liberali che la Germania ha predicato fino ad ora, sono diventate inutili. "In realtà, sarebbe proprio nell'interesse economico della Germania concentrarsi sempre di più sull'Europa", dice Cohen, che considera i mercati di vendita tedeschi nei paesi emergenti, come ad esempio quello delle costruzioni meccaniche, a rischio collasso.

La Germania guarda solo alle sue case automobilistiche?

Ma le esportazioni tedesche verso la Cina non continuano a crescere? Parigi non vuole sentirne parlare. "La Germania è troppo dipendente dalla sua industria automobilistica", dice l'esperto di politiche europee Maillard con un sorriso - lui stesso sa che questa è la solita storia, come del resto si ripeteva anche in passato ogni volta che in Germania si parlava degli agricoltori francesi. Come dicevano sempre a Berlino: Parigi in Europa si preoccupa solo della sua agricoltura. Ora sta arrivando il vagone di ritorno.

"La Germania ritiene di aver compreso la crisi del diesel, ma in realtà non si sta muovendo", afferma la star dell'economia Cohen. E fa riferimento anche al rifiuto di Berlino di applicare una tassa digitale sulle principali società tecnologiche statunitensi. Dal punto di vista di Parigi, non si è fatta solo perché il governo federale ha voluto proteggere le aziende automobilistiche tedesche, che altrimenti sarebbero state minacciate da nuove tasse o nuovi dazi negli Stati Uniti.

Macron ora vorrebbe usare la discussione per riposizionare la Francia: allontanarsi dal ruolo di studente modello delle riforme tedesche per diventare il promotore di una nuova politica economica europea sempre meno basata sul semplice credo nel libero mercato.

Macron vorrebbe contrastare gli USA e la Cina. L'esempio più recente: Parigi non vuole avere nuovi colloqui commerciali con gli Stati Uniti - non vuole averli con un paese che è uscito dal trattato sul clima. "Sarebbe incoerente", ha detto Macron.

Il fatto che in questo modo a Berlino Macron abbia provocato molti scuotimenti di capo, lo sa bene anche lui. Sa anche che quando la scorsa settimana gli hanno chiesto dello stato dei rapporti franco-tedeschi, ha subito trovato un nuovo modo per ridefinirli: "un confronto fruttuoso". Si possono chiamare anche così.


-->

domenica 28 aprile 2019

Per Deutsche Bank non è questione del se, ma solo del quando

"Deutsche Bank si trova in un vicolo cieco. Da sola non è in grado di sopravvivere, ma le fusioni falliscono a causa della sua struttura troppo complessa" scrive Ulriche Herrmann sulla Taz, e ancora: "la questione quindi non è se Deutsche Bank sarà insolvente - ma solo quando". Ne scrive Ulriche Herrmann sulla Taz


Deutsche Bank è alla fine. La fusione con Commerzbank è fallita e non esiste nemmeno un "Piano B" per porre fine alla sua interminabile miseria. Senza dubbio questo venerdì la banca annuncerà un profitto trimestrale netto di 200 milioni di euro, ma questa notizia apparentemente positiva non ha scaldato affatto gli azionisti. Le azioni continuano a soffrire e restano ai minimi.


Due numeri sono sufficienti per illustrare le dimensioni del dramma. Gli azionisti dal 2008 hanno sborsato circa 33 miliardi di euro per gli aumenti di capitale, ma al momento in borsa la banca vale solo 15,7 miliardi di euro. Per gli azionisti aver scelto di investire nella banca è stato un errore gigantesco. Conseguenza logica: non ci sono nuovi investitori in vista.

Ma Deutsche Bank, anche volendo fare ricorso solo alle proprie forze, non può essere risanata. Le mancano dei business profittevoli, ed il fatto che anche in una fase di boom economico la banca abbia continuato ad accumulare miliardi di perdite è un chiaro segnale di allarme. Se la Germania dovesse finire in una recessione, la banca si troverebbe sull'orlo della bancarotta. Perché durante una crisi ci sono sempre aziende e famiglie private che non possono rimborsare i loro prestiti. Deutsche Bank tuttavia non ha un buffer di capitale per assorbire le perdite. La questione quindi non è se Deutsche Bank sarà insolvente - ma solo quando.

Deutsche Bank in un vicolo cieco

Il ministro delle finanze Scholz è pienamente consapevole di questo rischio. Ha gestito il tentativo di fusione con Commerzbank solo con l'obiettivo di ridurre i costi e fare in modo che entrambe le banche potessero diventare più stabili. La fusione auspicata tuttavia è fallita perché le strutture di Deutsche Bank sono troppo complesse e  ipertrofiche. Il caos strutturale è evidente nel sistema IT, noto in tutto il settore come un incubo disfunzionale.

Al momento Deutsche Bank si trova in un vicolo cieco. Da sola non è in grado di sopravvivere, ma le fusioni falliscono a causa della sua struttura troppo complessa. Questo caos interno può essere ridotto solo vendendo le singole divisioni di business. Per quanto possa essere paradossale: Deutsche Bank può sopravvivere solo se viene smontata in pezzi.

Soprattutto l'investment banking è troppo rischioso e troppo costoso. Questa valutazione viene condivisa anche da altre importanti banche: la svizzera UBS ha già ridotto diversi anni fà le sue attività nelle scommesse. Il confronto tutto sommato è ingiusto: l'uscita di UBS dall'investment banking è stata semplice perché c'erano altre attività redditizie. Deutsche Bank invece non ha un area di business profittevole in cui ritirarsi. Anche la "normale" attività bancaria ha costi troppo alti. Deutsche Bank è alla fine.



sabato 27 aprile 2019

Alternative für Deutschland sull'euro e l'EUROpa: "la moneta unica è un fallimento"

I programmi elettorali dei partiti, si sa, spesso non valgono nemmeno la carta su cui sono stampati, tuttavia vale la pena dare uno sguardo a quello di AfD e analizzare le loro proposte sull'euro e l'UE per le europee di maggio. Paul Steinhardt su Makroskop lo ha fatto ed è giunto a delle conclusioni interessanti: AfD potrebbe essere una vera alternativa per l'Europa e l'euro. Ne scrive Paul Steinhardt su Makroskop


Dopo aver letto i programmi elettorali dei partiti analizzati fino ad ora in questa serie di articoli, una cosa è certa: per la Germania c'è davvero bisogno di un'alternativa politica. Già il nome del partito, il cui programma elettorale cercheremo di analizzare oggi, ci rende curiosi. Se poi nel preambolo si legge che è "arrivato il momento per riconsiderare radicalmente lo sviluppo dell'UE", allora siamo davvero curiosi di sapere cosa c'è scritto nel loro programma elettorale per le europee.

È interessante notare che AFD dedica espressamente un intero capitolo al sistema monetario dell'euro. Già nel titolo di questo capitolo viene formulata una tesi che altrove avevo formulato esattamente allo stesso modo:


Devo tuttavia confessare che la mia curiosità si mescola a qualche preoccupazione. (...)

Bisogna avere il coraggio di pensare alla DEXIT

Bisogna prima di tutto ammettere che AfD intende formulare una vera alternativa alla politica perseguita fino ad ora. Dice chiaramente che se i loro "elementi di riforma fondamentale del sistema UE esistente non dovessero essere realizzati a tempo debito", loro chiederanno "l'uscita della Germania o una dissoluzione ordinata dell'Unione europea".

Una dichiarazione coraggiosa, perché in questo modo danno agli altri partiti e alla maggior parte dei media un elemento per poter etichettare AfD come un pericolo per la pace e una forza sciovinista. Ad esempio, Dagmar Pepping di "ARD Capital Studio" ha colto al volo e con estrema gratitudine questa opportunità per attaccare il partito. Ciò che per lei resta incomprensibile è il fatto che AfD in realtà "vorrebbe restringere radicalmente i poteri della Corte di giustizia europea, tanto quanto la Commissione europea".

Per una simile restrizione dei loro poteri, tuttavia, pare ci siano davvero delle buone ragioni. Come il nostro autore Daniel Seikel ha sottolineato in un suo eccellente articolo, la Commissione e la Corte di giustizia europea (CGCE) perseguono una politica "che per sua natura è finalizzata all'ampliamento del mercato e quindi contraria alle misure di natura pubblica orientate al contenimento del mercato". La Commissione e la Corte di giustizia europea contribuiscono pertanto a scardinare le disposizioni di tutela previste dalla legge tedesca, senza che i rappresentanti eletti dal popolo tedesco possano fare nulla in merito.


Con le sue critiche AfD colpisce nel segno. Inoltre, non sembra essere affatto un colpo di fortuna, come mostra la seguente citazione:

"La crescente ingerenza dell'UE non si realizza tanto per l'influenza diretta della legislazione europea (il Trattato di Lisbona), ma piuttosto attraverso l'ingresso dalla porta di servizio della giurisprudenza della corte di giustizia le cui decisioni hanno efficacia immediata ("fanno giurisprudenza") e determinano sempre più la politica sociale".

Senza dubbio - si tratta di una critica radicale all'EUROpa. Ma è davvero riprovevole pretendere che l'organizzazione del sistema sanitario e del welfare sia un tema di cui si devono occupare i rappresentanti eletti dal popolo ai sensi dell'articolo 20 della Legge fondamentale tedesca? Non è forse la natura della democrazia quella di dover rispondere ai propri elettori per il contenuto delle leggi? Un partito che considera il Parlamento europeo una piattaforma dalla quale richiamare l'attenzione sui problemi dell'Europa è da ritenersi "schizofrenico"?

È l'opinione di Pepping, perché per lei i rappresentanti di AFD allo stesso tempo "cercano di ottenere a Bruxelles e Strasburgo un posto da parlamentare ben pagato". Ma ad essere criticati non dovrebbero essere forse quei deputati che permettono che lo stato sociale tedesco venga minato con l'aiuto dell'EUROpa, proprio per il fatto di non aver informato i propri cittadini di questa situazione patologica? E un parlamentare seriamente interessato ad avere un sistema sanitario e sociale funzionante, non dovrebbe forse essere disposto a rischiare la sua "posizione da parlamentare ben pagato", proprio perché questo obiettivo per lui è cosi' importante da non poter escludere una DEXIT? 

(...) Chi supporta e chi invece sta mettendo in pericolo la democrazia? Chi vuole tenere un referendum sulla DEXIT, come fa AfD, o coloro che hanno  contribuito ad eliminare i servizi pubblici senza aver mai ricevuto una legittimazione democratica per farlo?

Naturalmente anche AfD resta ossessionata dallo Zeitgeist neo-liberista. Non vi è alcuna critica al "libero commercio e ai mercati aperti": il programma afferma addirittura che "il libero scambio è la forma più efficace e meno burocratica di aiuto allo sviluppo".

Politica monetaria

Nulla mostra più chiaramente del capitolo sull'euro, che si tratta di un partito in cui l'ordoliberismo ha trovato casa e in cui anche i padri fondatori di Friburgo potrebbero sentirsi estremamente a proprio agio.

Non sorprende quindi il fatto che per sostenere la loro tesi, e cioè che l'euro è fallito, essi evitino di parlare della riduzione dello spazio a disposizione della politica fiscale avvenuto con l'entrata nell'unione monetaria europea dei diversi paesi europei. L'intera critica all'euro deve essere letta più come una spiegazione delle posizioni che su questo tema sono presenti anche nel programma elettorale della CDU/CSU.

Non manca nulla infatti di quanto è già presente anche nel programma elettorale della CDU/CSU. Viene chiaramente esplicitato quello che la  CDU/CSU lascia solo ipotizzare, come mostra il seguente passaggio estratto dal programma di AfD:

"La politica di salvataggio rompe tutte le rassicurazioni fatte agli elettori a partire dagli anni '90, vale a dire di non accettare alcuna responsabilità tedesca per i debiti fatti dagli altri".

Non fanno davvero un passo falso in cui potersi insinuare. Così chiedono "di bloccare l'uso eccessivo, fino ad ora tollerato, dei saldi di compensazione TARGET2" e "di garantirli con un collaterale (oro, riserve di valuta estera o altro bene di proprietà dello stato)".

Non bisogna essere troppo severi con AfD. Dopo tutto un economista tedesco di livello mondiale ha scritto un libro intero sulla cosiddetta trappola Target e, secondo l'autore, si tratterebbe di un "pericolo per i nostri soldi e i nostri figli". Anche Silke Tober dell'IMK, istitituto di ricerca vicino ai sindacati, in passato ha sostenuto che "Fuest e Sinn con la loro analisi teorica hanno ragione":

"i saldi TARGET2 restano rischiosi, anche se un paese debitore non dovesse lasciare l'area dell'euro"

Quando leggo tali affermazioni, mi viene in mente sempre la stessa domanda: come è possibile che persone intelligenti che si occupano di questa materia possano inventarsi idee così assurde?

(...) Come ho spiegato in dettaglio altrove, i "presunti pericoli per i nostri soldi e i nostri figli" sono una pura finzione. Ma non è naturalmente un caso il fatto che AFD usi questa finzione, perché loro non sono interessati a descrivere le disfunzioni del sistema dell'euro, ma intendono presentare la Germania come una vittima di questo sistema. È nazionalista, sciovinista, persino fascista o forse semplicemente stupido?

La stupidità gioca un ruolo senza dubbio importante e ha un nome: "ordoliberalismo", di solito viene chiamata cosi'. E' una forma di stupidità che colpisce anche le persone abbastanza intelligenti. Si basa sull'incrollabile fede nella capacità di autoregolamentazione dei mercati. Quanto questa convinzione sia fortemente ancorata in AFD è particolarmente chiaro quando in totale accordo con la CDU/CSU si lamentano per il ladro di interessi Draghi:

"Una politica dei tassi di interesse artificialmente manipolati a zero o negativi porta alla distruzione del mercato delle obbligazioni e all'esproprio dei piccoli risparmiatori e delle assicurazioni sulla vita e quindi alla povertà in vecchiaia".

L'accusa mossa alla BCE di essere "colpevole per aver manipolato il libero mercato dei capitali", tuttavia, non riguarda solo la BCE di Draghi. Dovrebbe essere rivolta praticamente a tutte le banche centrali del mondo. Perché tutte le banche centrali desiderano controllare l'inflazione attraverso la "manipolazione" dei tassi di interesse.

Ora si può legittimamente dubitare del fatto che una banca centrale sia persino in grado di controllare l'inflazione con la politica monetaria. Ma come avremmo dovuto imparare dalla crisi dell'euro, chi lascia che i tassi di interesse vengano liberamente determinati dai mercati mette a repentaglio la stabilità finanziaria. Un sistema finanziario stabile ha semplicemente bisogno di un ancoraggio del tasso di interesse, che deve essere gestito dalla politica monetaria.

Per un vero ordo-liberale, si tratta di un pensiero intollerabile. Perché egli immagina il capitalismo contemporaneo come un'economia di scambio in cui i fenomeni monetari non giocano alcun ruolo. (...)

Il fatto che l'euro sia un fallimento è dimostrato, tra le altre cose, anche dal fatto che la BCE in questo senso non sta agendo saggiamente. Ammette che i tassi di interesse in Italia sono più alti di quelli in Germania, sebbene disponga dei mezzi per portare i tassi di interesse italiani al livello di quelli tedeschi.

Un'alternativa per la Germania?

Sfortunatamente non è così facile rispondere a questa domanda come si potrebbe sperare, anche solo per non destare il sospetto di avere qualche simpatia per AfD.

Una ragione di ciò paradossalmente è il fatto che sono ordo-liberali fino al midollo. Mentre i padri fondatori dell'ordoliberalismo e i loro seguaci fino agli anni '60 hanno sostenuto un sistema monetario basato sull'oro, questa posizione iniziale, grazie all'influenza esercitata da Milton Friedman, in seguito è stata notevolmente modificata. L'argomento secondo cui i tassi di cambio flessibili potevano depoliticizzare e automatizzare la politica monetaria si è incagliato. Perché l'alternativa, sosteneva l'influente ordo-liberale Friedrich Lutz, è quella dei tassi di cambio fissi, che nelle circostanze politiche prevalenti portano inevitabilmente alla "imposizione di controlli valutari, o per lo meno alla restrizione dei quantitativi all'importazione".

Dal momento che AfD segue i padri fondatori, il programma rifiuta i sistemi a tasso fisso. Riconoscono che l'euro in definitiva è un tale sistema e quindi giungono ad una conclusione che non può essere trovata nel programma di nessun'altro partito. Vale a dire che "la perdita di competitività dei paesi mediterranei [...] è un problema sistemico e quindi [...] può essere risolta solo sistemicamente" .

"La soluzione è la reintroduzione delle valute nazionali [...]"

Le cose si fanno davvero interessanti quando provano a giustificare il motivo per cui una simile mossa darebbe la speranza di riportare sotto controllo la "disoccupazione strutturalmente elevata nel sud Europa":

"per recuperare la propria competitività perduta nessun paese euro dovrà ricevere ulteriori linee guida (eccessivamente rigide) da realizzare attraverso una svalutazione reale dei redditi, delle pensioni e dei benefici sociali. I paesi della zona euro potranno quindi ripristinare la propria competitività come accadeva prima dell'introduzione dell'euro con una propria decisione sovrana sulla modifica dei tassi di cambio della valuta nazionale (ad esempio mediante svalutazione), come del resto l'economia moderna chiede da molto tempo".

La visione del mondo ordoliberale fornisce loro un'immagine realistica delle conseguenze della dissoluzione dell'unione monetaria europea. Si rendono conto che se l'unione monetaria europea si dissolvesse, senza alcun dubbio il nuovo "D-mark" si apprezzerebbe, ma questo per loro avrebbe solo effetti positivi:

"l'enorme riduzione dei costi sul lato delle importazioni, associata ad un aumento del potere d'acquisto comporterebbe un aumento dei redditi reali, che all'interno dell'economia tedesca andrebbe a vantaggio di tutti e non solo di alcune aziende attive nell'export, come accade attualmente".

L'unico problema è che la Germania è estremamente dipendente dal settore delle esportazioni. Un apprezzamento della nuova valuta, infatti, influenzerebbe pesantemente la competitività di prezzo ottenuta grazie al dumping salariale. Se la politica non dovesse essere in grado di gestire la situazione, in Germania subirà inevitabilmente una perdita di posti di lavoro, dal momento che la struttura economica estremamente orientata all'export non può essere riconvertita da un giorno all'altro. Se la perdita di reddito dei lavoratori "liberati" potrà essere compensata da importazioni a buon mercato, è più che discutibile.

In breve: tutti gli elementi lasciano ipotizzare che AFD a causa della sua fede incrollabile nel potere della mano invisibile del mercato finirà per allearsi con forze che vogliono impedire con tutti i mezzi disponibili una politica fiscale espansiva.

Profilo degli elettori AfD

AfD è raccomandabile agli elettori conservatori, per i quali la CDU/CSU ormai è socio-politicamente troppo a sinistra e la FDP è economicamente troppo statalista. È particolarmente raccomandata per coloro che ritengono che "l'avanzata aggressiva dell'Islam [...] porterà alla destabilizzazione delle nostre democrazie liberali ".

La domanda interessante è se AfD possa essere votata anche da un elettore il quale ritiene che il più grande pericolo non sia l'Islam, ma il neoliberalismo dilagante. Sebbene in termini politici, senza ombra di dubbio possa essere assegnato al campo neo-liberale, il tema è se questo partito potrà essere considerato un elemento in grado di rimettere in discussione le ricette politiche neo-liberiste. In altre parole: AfD potrà diventare l'ostetrica involontaria che aiuta la nascita di una nuova interpretazione delle funzioni dello stato per la gestione dell'economia nell'interesse comune?

Nel programma elettorale ci sono senza dubbio elementi che suggeriscono una risposta affermativa a questa domanda. Non si può tuttavia negare che il voto ad AfD potrebbe contribuire al consolidamento del nazionalismo dell'export tedesco. La visione ristretta sul benessere "tedesco", insieme ai propositi di mercato ordoliberali, fanno ipotizzare che AFD nel lungo periodo potrebbe dare vita ad una coalizione con la CDU/CSU. Un'occhiata all'Austria rivela che anche quando la musica di accompagnamento cambia, il neoliberismo con un nuovo accompagnamento di fiati è persino capace di radicalizzarsi.
-->

venerdì 12 aprile 2019

"Il tasso di disoccupazione tedesco è troppo bello per essere vero"

Secondo la Linke e i sindacati tedeschi, dalle statistiche ufficiali sulla disoccupazione, ai minimi storici, mancherebbero circa 900.000 persone, sistematicamente ignorate dai dati ufficiali. Ne scrive MDR


Il tasso di disoccupazione tedesco è troppo bello per essere vero - afferma Matthias W. Birkwald, capogruppo della Linke in Commissione Lavoro e affari sociali al Bundestag. Dalle statistiche mancano infatti i disoccupati di lunga durata con piu' di 58 anni, i lavoratori in formazione e gli occupati a un euro l'ora.

"La cosa piu' assurda è che quando un disoccupato la mattina va al centro per l'impiego e si mette in malattia, allora scompare anche dalle statistiche sulla disoccupazione. Cioè, se uno è malato, ufficialmente non è più disoccupato. Lo trovo assolutamente sbagliato"


Matthias W. Birkwald, della Linke

Birkwald ha rifatto il calcolo. Il numero dei disoccupati, dice, è di circa 900.000 persone piu' alto rispetto al numero dichiarato ufficialmente. Di fatto, i diversi governi federali hanno rimosso molti gruppi di persone dalle statistiche.

La sottoccupazione inserita nelle statistiche

L'arbeitsamt nelle sue pubblicazioni è vincolato dalle direttive della politica. Nonostante ciò, ogni mese, fra le cifre pubblicate, fa intravedere che ci sono più disoccupati rispetto al numero ufficiale, come spiega la portavoce Susanne Eikemeier. Negli anni si è capito che le persone desideravano avere un'immagine più chiara della disoccupazione. "Abbiamo voluto soddisfare questa richiesta e dal 2010, abbiamo quindi iniziato a indicare la cosiddetta sottoccupazione", spiega Eikemeier.

Questa cosiddetta sottoccupazione riguarda anche le persone coinvolte nelle misure per il reinserimento nel mercato del lavoro. Vengono calcolati allo stesso modo anche i lavoratori con orario ridotto e i lavoratori autonomi che vivono con i sussidi pubblici per la creazione d'impresa.

Anche i sindacati chiedono un tasso di disoccupazione più trasparente

Per il presidente della DGB (confederazione sindacale) della Sassonia, Markus Schlimbach, questo numero non viene calcolato in maniera sufficientemente ampia da mostrare il tasso di disoccupazione reale. Egli chiede infatti che il dato ufficiale venga integrato con determinati gruppi. 

Ad esempio, per Schlimbach le cifre sulla disoccupazione sarebbero più realistiche se coloro che sono coinvolti in una misura di formazione fossero inclusi nelle statistiche. Perché anche loro sono in cerca di un lavoro e avrebbero il diritto di apparire nelle statistiche sulla disoccupazione. Per Schlimbach si tratta di una questione di trasparenza.

Linke: le statistiche sulla disoccupazione dovrebbero essere più comprensive

Il politico della Linke Matthias W. Birkwald, chiede invece che le statistiche sulla disoccupazione siano redatte nella maniera piu' ampia possibile. Bisognerebbe inoltre menzionare quante sono le persone che lavorano involontariamente solo part-time.

"È il momento di agire invece di usare i soliti trucchetti. Tutti i disoccupati non ancora conteggiati devono essere inclusi nelle statistiche ufficiali sulla disoccupazione in modo che questi dati possano indicare la disoccupazione reale"

Matthias W. Birkwald della Linke

Se si chiede ai partiti di governo cosa ne pensano, rispondono con il silenzio. Diversi politici dell'Unione e della SPD non hanno voluto commentare una riforma dei metodi di calcolo.

L'ultima volta in cui c'è stata un po' di onestà fu nel 2005. Il governo di Gerhard Schröder incluse centinaia di migliaia di beneficiari di welfare nelle statistiche. Per la sua SPD fu uno smacco, perché sulla carta il numero ufficiale dei disoccupati fece da un giorno all'altro un balzo enorme.