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lunedì 7 ottobre 2024

Monopoli nella vita reale: a Berlino il gioco da tavolo si trasforma in una drammatica crisi abitativa

Monopoly è un gioco da tavolo che tutti conosciamo, nato negli Stati Uniti e arrivato in molte case tedesche: il vincitore conquista la città, mentre i perdenti rimangono a mani vuote. Tuttavia, nella vita reale, quello che era un semplice gioco si è trasformato in un problema serio e in una drammatica crisi abitativa. E a Berlino, la capitale tedesca, questa situazione diventa un esempio lampante di come il mercato immobiliare stia sfuggendo di mano. Articolo molto interessante di Frank Blenz sulle Nachdenkseiten


crisi abitativa berlino

Le conseguenze reali di un gioco spietato

Gli interessi e i diritti degli inquilini, dei cittadini berlinesi, vengono messi da parte, referendum popolari o meno. Nel peggiore dei casi, le persone si ritrovano senza un tetto sopra la testa in una profonda crisi abitativa, e questi casi sono in aumento.

Nel 2021, il referendum berlinese sulla socializzazione delle grandi società immobiliari private ha visto la maggioranza dei cittadini votare per l’esproprio di gruppi come “Deutsche Wohnen”. Tuttavia, nonostante il chiaro esito, nulla è cambiato. La politica è rimasta silente, e le promesse fatte non sono state mantenute.

Die Linke, partito di opposizione, ha recentemente dichiarato con fermezza:

“Il voto dei berlinesi è stato chiaro. Ancora più chiaro è il fatto che CDU e SPD non siano interessati a rispettare il risultato del referendum e, quindi, la volontà dei berlinesi.”

La frustrazione cresce, così come gli affitti, e la fiducia nella democrazia diminuisce.


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Una crisi immobiliare senza fine

Tre anni dopo il successo del referendum, la politica non ha ancora agito concretamente. Il Senato ha promesso una “legge quadro per la socializzazione”, ma le azioni concrete contro la crisi abitativa a Berlino tardano ad arrivare. Stefan Evers, senatore delle Finanze, ha recentemente ammesso che la perizia necessaria per la redazione della legge non è ancora stata commissionata.

Nel frattempo, il mercato immobiliare continua a peggiorare. Gli affitti aumentano, le persone vengono sfrattate e i grandi gruppi immobiliari privati, insieme a investitori internazionali, ne approfittano.

Chi non ricorda la gioia maliziosa di acquistare la Schlossallee durante una partita di Monopoly? Ma nel mondo reale, i “signori della Schlossallee” – i grandi gruppi immobiliari e le società finanziarie – chiedono sempre di più. La crisi abitativa a Berlino è sfuggita di mano, come evidenziato dal cantautore Klaus Lage già nel 1984, quando criticava il mercato immobiliare nel suo brano “Monopoly”:

Monopoly, Monopoly, siamo solo comparse in un pessimo gioco. Monopoly, Monopoly. E i signori della Schlossallee chiedono troppo.


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Gli effetti devastanti sulla città e i suoi abitanti

Berlino, una città una volta amata per la sua vitalità, sta diventando una fredda metropoli. Gli attivisti di “Deutsche Wohnen enteignen” nel 2021 avevano lanciato l’allarme:

Berlino è la casa di tutti noi, ma rischia di diventare una città per ricchi. Gli affitti esplodono, siamo sfrattati, i profitti aziendali aumentano e i nostri politici stanno a guardare. Ne abbiamo abbastanza!”

E come dargli torto? Il mercato degli affitti continua a essere governato dalla legge della domanda e dell’offerta, ma con un twist: l’offerta di alloggi accessibili è troppo scarsa, e gli affitti non sono più equi, ma dettati dall’avidità.

Il risultato è una continua espulsione degli inquilini storici. A Friedrichshain, ad esempio, si parla di sfratti per necessità del proprietario, una tattica legale per rimuovere gli inquilini e affittare a prezzi più alti. Questo problema non riguarda solo una zona della città, ma tutta Berlino.

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Chi trae profitto? Solo i grandi proprietari

La situazione è esasperata dalla presenza di grandi gruppi finanziari internazionali come Blackstone, che comprano appartamenti per venderli a ricchi investitori, trasformando case accessibili in appartamenti di lusso. Questi attori agiscono senza freni e senza vergogna, aumentando ulteriormente i prezzi.

Alla fine, chi soffre sono le persone comuni. Molti rimangono senza casa, e la situazione non sembra destinata a migliorare. Secondo le associazioni di beneficenza, la crisi della senzatetto a Berlino continuerà almeno fino al 2030.

Ursula Schoen, direttrice della Diakonie, ha dichiarato:

“Dovremo abituarci alla persistenza della senzatetto. Berlino ha un vero problema di dignità umana.”

Anche il supporto offerto dalle organizzazioni di assistenza, come il programma di aiuto invernale, non è sufficiente a fronteggiare l’emergenza crescente.

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Negli ultimi tempi, ci siamo forse chiesti tutti se viviamo ancora in un paese che possa davvero definirsi “sicuro”, dove la pace sociale è garantita e le persone possono condurre una vita serena. La verità, purtroppo, è molto diversa.

La pace sociale non è solo minacciata; c’è una sensazione diffusa di insicurezza per ciò che sta accadendo nella nostra società, nella nostra comunità. Guardiamo Berlino, per esempio: i nostri diritti e bisogni, compreso quello fondamentale dell’abitare, sono in crisi. Non è solo una percezione, la pace sociale è stata revocata e la nostra società, libera e democratica per natura, sembra in ginocchio.

Libertà e democrazia: cosa ci insegna il Patto delle Nazioni Unite

Parlando di libertà e democrazia, vale la pena ricordare che il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite (UN-Sozialpakt) contiene un articolo che invita alla riflessione:

Ogni persona ha il diritto a un alloggio adeguato. Il diritto all’abitazione è parte del diritto a un livello di vita dignitoso, sancito dall’Articolo 11 del Patto.

Eppure, la realtà che viviamo è ben diversa. Se non sono i proprietari delle case ad adempiere ai loro obblighi derivanti dalla proprietà – perché, ricordiamolo, la proprietà comporta obblighi – chi altro dovrebbe farlo?

crisi abitativa berlino

Il caso di Berlino e il fallimento del referendum sulla socializzazione degli alloggi

Guardiamo al caso di Berlino. Nonostante l’enorme necessità di cambiamenti per il bene comune, il referendum sulla socializzazione delle proprietà immobiliari non ha ancora portato al successo auspicato. Un risultato positivo sarebbe stato fondamentale per la nostra comunità e per i cittadini.

In un articolo pubblicato sul Tagesspiegel, un team di autori ha discusso i possibili vantaggi della socializzazione delle abitazioni.

Tra i principali obiettivi vi è quello di ampliare la partecipazione e il controllo da parte degli inquilini, trasferendo le abitazioni in una istituzione di diritto pubblico (AöR), che ne permetterebbe la gestione con la partecipazione democratica della comunità urbana e degli stessi inquilini. Questa maggiore partecipazione rappresenterebbe un’importante espansione della libertà d’azione umana – non solo individuale, ma collettiva.

Nel contesto attuale, gli inquilini hanno pochissime possibilità di decidere o partecipare attivamente, sia nel settore privato che in quello pubblico. Ma attraverso la socializzazione, la loro voce e il loro controllo sarebbero decisamente più forti.

Immaginate un mondo in cui gli inquilini possano decidere liberamente su questioni come:

  • La ristrutturazione e le misure di protezione del clima
  • La creazione di spazi comuni e il verde nei cortili
  • La progettazione di parchi giochi e alloggi accessibili
  • Sperimentare forme abitative alternative

In questo modo, più persone si assumerebbero la responsabilità per l’ambiente in cui vivono.


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mercoledì 3 aprile 2019

Mi' cuggino nella startappe di Berlino

Il fantastico mondo delle start-up berlinesi da anni attrae migliaia di giovani da tutta Europa. Arrivano a Berlino sedotti dalla città e dalla presunta liberazione garantita da un nuovo modo di lavorare. Ma le cose non stanno esattamente cosi' e in molti restano profondamente delusi dall'esperienza. Mathilde Ramadier è una di queste, e sul mondo delle start-up berlinesi ha scritto un libro molto interessante. Der Freitag intervista l'autrice


Un cortile interno a Berlino-Kreuzberg, una cucina spaziosa, ufficio e camera dei bambini. Nel corridoio è appesa una mappa storica della Francia e l'immagine di una donna nuda a cavallo. L'ha preso al mercato delle pulci di Parigi, dice dolcemente Mathilde Ramadier. Quando parla tuttavia sembra molto più risoluta.

Der Freitag: Frau Ramadier, lei hai lavorato in dodici start-up berlinesi. Come è entrata in questo mondo?

Mathilde Ramadier: nel 2011 sono arrivata a Berlino da Parigi, ho iniziato a cercare un lavoro perché con la mia attività di scrittrice non potevo vivere. Gli annunci di lavoro nelle start-up sembravano sexy, come un mondo del lavoro liberato.

Era un po‘ ingenuo?

Mathilde Ramadier: sì, dopo pochi giorni ho subito notato che le persone sono sotto pressione e hanno paura. Sebbene avessi già lavorato a Parigi come stagista nel settore pubblicitario e sapessi quanto possa essere privo di senso quel lavoro. Ma li‘ almeno c’era piu‘ onestà, non vengono a raccontarti bugie. Nessuno dice "stiamo migliorando il mondo".

In quali settori ha lavorato?

Mathilde Ramadier: quasi sempre nell’e-commerce, su piattaforme che hanno qualcosa da vendere. Ho lavorato soprattutto come gestore di contenuti, traducendo ogni giorno le newsletter o compilando fogli di calcolo Excel con le parole chiave per i robot di Google, per aiutare i motori di ricerca a trovare gli articoli. Per farlo dovevi avere un master.

Lei aveva quello di un'università d'élite.

Mathilde Ramadier: dovevo fare cose monotone. Una start-up vendeva mobili, un'altra aveva un database per l'arte, un'altra offriva formazione a distanza. Lì i professori dovevano essere disponibili 24 ore su 24 e guadagnavano dieci euro l'ora. È quel tipo di lavori per i quali si è troppo qualificati e che il sociologo David Graeber chiama "Bullshit Jobs". Mi hanno distrutto, fino al bore-out.

Quanto arrivava a guadagnare?

Mathilde Ramadier: come lavoratore autonomo prendevo circa dieci euro l'ora. Nella mia prima start-up ho fatto gli straordinari tutti i giorni e sono arrivata a 500 euro al mese. Dicevano: vogliamo assumerti, ma dobbiamo farti fare prima un mese di prova. Per questo ho ottenuto un contratto di lavoro autonomo. Il mio capo mi aveva inizialmente promesso 1.500 euro al mese di stipendio, poi ha parlato con l'amministrazione e mi hanno dato solo 500 euro. Ho riso e mi sono messa immediatamente il cappotto. Il mio capo ha chiesto con arroganza: "Mathilde, non puoi, o non vuoi? Se non sei disponibile, puoi anche lavorare come hostess ad una fiera". Quest‘uomo migliorerà il mondo?

Molti si sottomettono volontariamente a questa schiavitù.

Mathilde Ramadier: sì, vogliono vivere ad ogni costo a Berlino o in qualsiasi altra metropoli europea. Non vogliono lavorare nelle grandi aziende.

La promessa è: "gerarchie piatte, ognuno è libero, ognuno ha la sua possibilità".

Mathilde Ramadier: c'erano start-up in cui eravamo tutti manager di qualcosa: People-Manager, Country-Manager, l'addetto alla reception era Office-Manager. La parola non aveva senso

Perché tutti erano manager?

Mathilde Ramadier: distribuivano titoli come dolci o carote. Come se fossimo tutti un'unica grande famiglia, tutti sono uguali. Ma tutti i CEO che ho incontrato erano bianchi e maschi, tedeschi o americani provenienti da famiglie benestanti, tutti tra i 30 e 45. Donne in posizioni direttive ce n'erano solo nel reparto risorse umane o nella comunicazione. Gli uomini avevano tutti questa "coolness", questa bro-culture, giocavano a ping-pong, con i videogiochi, indossavano scarpe da ginnastica.

Coolitude?

Mathilde Ramadier: intendo una finta coolness. Questo stare sempre fra uomini e bere una birra.

Lei ha pubblicato un libro sulle sue esperienze. In esso lei analizza la lingua delle aziende. In cosa consiste?

Mathilde Ramadier: a un certo punto ho notato che non importa quanto sia grande l'azienda o cosa faccia esattamente: la lingua è sempre la stessa. È quella della Silicon Valley, dei superlativi e delle metafore. Tutto è eccessivamente ottimista. Tutti sono unici e liberi. E quando qualcuno viene licenziato, dicono: "E‘ partito per un’altra avventura". Si dedica a delle nuove sfide. È il linguaggio spesso fuorviante del neoliberismo.

Il suo libro è nato nel bel mezzo della campagna elettorale francese.

Mathilde Ramadier: sì, Macron voleva fare della Francia una nazione di start-up. Era un argomento scottante Dall'altro lato sono stato attaccata - quasi sempre da uomini.

Trolls?

Mathilde Ramadier: Sì, ma c'erano anche persone dal mondo delle start-up. Mi hanno accusata di voler esagerare: "lei ha fatto un paio di esperienze negative, e ora scrive un libro per trarne beneficio”. Una volta ho ricevuto un'email da un uomo membro dell’associazione francese delle start-up: "mi chiedo come riesca ad essere su tutti i media senza avere nulla da dire. Ma almeno è molto dolce". Ho preso uno screen-shot e l'ho postato su Twitter per l'8 marzo, in occasione della festa della donna.

Il libro è stato molto discusso anche in Germania. Ci sono stati anche commenti che mettevano in dubbio i fatti. Lei ha appena risposto su LinkedIn.

Mathilde Ramadier: sì. All'inizio dell'anno la Deutsche Welle ha pubblicato un breve video in cui parlavo dei miei stipendi e dei miei contratti di lavoro precari. Poco dopo ho ricevuto posta da una persona responsabile dell'Associazione nazionale delle start-up tedesche: ha chiesto i nomi delle aziende per le quali ho lavorato. Non volevo divulgarli per motivi legali, anche per proteggermi dalle molestie. Gli ho tuttavia inviato altri articoli e pagine dei miei contratti di lavoro (con i nomi delle aziende resi illeggibili).

E da questi emergono le condizioni di lavoro precarie?

Mathilde Ramadier: sì, ma mi ha accusato nuovamente di dire una bugia. Semplicemente non ha creduto che si potesse lavorare anche per meno di 1.000 euro al mese. Non sapeva che nel suo paese fino al 2015 non c'era un salario minimo, e semplicemente non voleva credere al fatto che le start-up spesso tentano di "annullare" i diritti conquistati a fatica dai lavoratori. Segno che appartiene a una élite privilegiata. Non si trattava di dialogo, ma di bieco lobbismo.

Il salario minimo non si applica ai liberi professionisti.

Mathilde Ramadier: come lavoratore autonomo mi è stato sempre chiesto: quante parole riesci a fare in breve tempo? E mai: di quanto tempo hai bisogno per fare un buon lavoro? Una volta durante il colloquio mi hanno chiesto: puoi scrivere testi a cottimo?

Redattore di testi in batteria.

Mathilde Ramadier: sì. Le start-up pensano a breve termine e sono miopi. Questo ha qualcosa a che fare con la nostra era, con il consumo.

Perché il suo libro "Bienvenue dans le nouveau monde" non è ancora stato pubblicato in tedesco?

Mathilde Ramadier: mi è stato detto che gli editori sono interessati all'argomento, ma preferiscono un autore tedesco. Altri pensano che i media tedeschi abbiano già parlato troppo dell'edizione francese. Come se il buzz fosse più importante del contenuto.

Il presidente Macron vorrebbe guidare il paese come se fosse una start-up, molti sono indignati.

Mathilde Ramadier: sì, è estremamente neo-liberale. Le istituzioni pubbliche vengono smantellate, i potenti sono protetti e le persone vengono sfruttate. Nel 2017 Macron ha inaugurato alla Station F, una ex stazione ferroviaria, un grande incubatore, un centro di start-up per le nuove aziende tecnologiche.

È il più grande campus di start-up al mondo.

Mathilde Ramadier: sì, il principale fondatore Xavier Niels è un miliardario, uno degli uomini più ricchi di Francia. Macron ha tenuto un discorso e ha detto: "Ci sono persone che hanno successo, e ci sono persone che non sono niente". Macron non ha mai fatto nulla per proteggere coloro che lavorano per Uber o per i servizi di consegna come Deliveroo. Ma anche a Berlino vedo come le start-up stanno cambiando il volto della città.

Come?

Mathilde Ramadier: ovunque nascono spazi di coworking in cui siedono i freelancer delle start-up e devono pagare per poter lavorare. Molte aziende usano l'inglese come lingua ufficiale. Accelera la gentrificazione. A Hermannplatz, dalle impalcature di un edificio pende un gigantesco cartellone, alto circa 20 metri, largo 10 metri: è una pubblicità di Uber.

Un simbolo forte

Mathilde Ramadier: Il filosofo francese Éric Sadin critica questa "siliconizzazione del mondo", il potere crescente  delle start-up, il rapido sviluppo dell'intelligenza artificiale. Tutto ciò alla fine porta ad un degrado della condizione umana causato da questo "brillante capitalismo".

Google voleva costruire un enorme campus a Kreuzberg, ma dopo massicce proteste la società ha dovuto rinunciare. Lei era lì?

Mathilde Ramadier: ho lavorato in rete insieme ad alcune persone e ci siamo incontrati qualche volta. Un anno fa ho partecipato ad una tavola rotonda dell'organizzazione di sinistra Top B3rlin. Anche se non sono un'attivista, in Francia al momento sono vista come un ambasciatrice. A dicembre sono stato invitata da un'incubatrice di start-up in Francia per condividere le mie esperienze. Queste persone erano aperte e volevano discutere, anche se non erano d'accordo. E' stato intelligente e davvero piacevole. (...)

Come filosofa e autrice di un romanzo grafico su Sartre, cos'è la libertà per lei?

Mathilde Ramadier: La libertà delle start-up è un falso, non è liberale in senso classico, ma neo-liberista. I capi che dicono "i nostri dipendenti sono liberi" fanno qualcosa di sbagliato. Spetterebbe ai lavoratori dirlo! Per me libertà significa che non sono limitata a un solo ruolo: lavoratrice, moglie o madre. Voglio poter decidere da sola ogni giorno chi voglio essere.


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