venerdì 24 luglio 2020

Il Recovery Fund secondo Jörg Meuthen

"Chi se ne frega dei trattati europei, se poi con l'amichevole supporto della Cancelliera, la Germania potrà essere munta ancora per generazioni" scrive Jörg Meuthen, leader di AfD, commentando l'accordo sul Recovery Fund, che evidentemente non deve essergli piaciuto piu' di tanto. Dal profilo FB di Jörg Meuthen


Cari lettori, dopo il disastro del vertice UE l'adulazione non conosce limiti: ovunque si parla solo di "vincitori".

Ma tutti sanno bene che quando si parla di soldi, non ci possono essere solo dei vincitori - nel gioco a somma zero del bilancio UE, ci devono essere inevitabilmente anche dei perdenti, cioè quegli stupidi che come delle laboriose e sottomesse api operaie, senza batter ciglio devono pagare per il comportamento degli altri paesi.

Quello che sta succedendo nell'UE semplicemente è folle: vengono calpestati i principi fondamentali del diritto e dell'economia al fine di introdurre una socializzazione del debito europeo che espropria i cittadini laboriosi e parsimoniosi per realizzare le fantasie di esproprio di alcuni ideologi pigri e ben pagati - e i loro fedeli paladini sui media celebrano la "Cancelliera senza fine" sulla strada che, lei spera, dovrebbe portarla direttamente nei libri di storia.

Celebrano Merkel, ad esempio, perché sarebbe riuscita a "tirar fuori" mezzo miliardo in più per lo sviluppo delle aree rurali.

Un successo davvero epocale per Merkel: in un budget europeo gigantesco pari a 1,074 trilioni di euro, nel quale la Germania è di gran lunga il maggiore contribuente (e dal 2021 ci saranno altri dieci miliardi all'anno in piu'!), agli agricoltori tedeschi spetterà solo un ridicolo 0,047 %. Definire questo come un grande successo significa solo voler ingannare deliberatamente la gente, che ovviamente continua ad essere presa in giro da questi media.

Non una parola invece sul fatto che una incredbile quantità di ricchezza pari a 133 miliardi di euro (oltre ai nostri normali pagamenti nel bilancio dell'UE!) sarà trasferita fuori dalla Germania (ne ho parlato ieri in questa sede).


E non una parola sull'evento "epocale" vero e proprio: cioè la rottura della diga che fermava la messa in comune del debito nell'UE.

D'ora in poi, quindi, cari lettori, tutti noi in Germania saremo responsabili per quell'orgia di denaro sprecato un po' ovunque in tutta l'UE. "Finalmente" avremo gli eurobond, anche se ora avranno solo un nome leggermente diverso.

Questo è il vero "evento epocale" di questo vertice, e per questa ragione Macron ha parlato di un "accordo di dimensioni storiche" e che "dall'introduzione dell'euro in Europa non c'erano stati altri progressi comparabili".


Ci si chiede se qualcuno nell'UE sia ancora interessato a ciò che è scritto nei trattati di questo mostro burocratico chiamato UE - permettetemi di ricordarvi i due più importanti in materia di debito:

Art. 311 del TFUE: Divieto di indebitamento dell'UE

Art. 125 TFUE: Divieto di assunzione dei debiti di altri paesi



Ma chi se ne frega dei trattati europei se poi con l'amichevole sostegno della Cancelliera, la Germania potrà essere munta per generazioni

La "solidarietà" ci è stata chiesta - si badi bene, da Paesi i cui cittadini sono mediamente più ricchi dei tedeschi. Se si vuole proprio scomodare il concetto di solidarietà, allora si sarebbe potuto suggerire a Italia, Spagna o Francia, ad esempio, di adeguare le loro pensioni, relativamente più generose, al livello notevolmente più basso di quelle tedesche.

Si sarebbe potuto discutere anche del tema della durata della vita lavorativa, perché in Francia, ad esempio, nessuno può immaginare di lavorare oltre il suo sessantesimo compleanno.

Ma cosi' questi paesi potranno continuare a fornire ai loro cittadini prestazioni sociali a debito, e noi tedeschi d'ora in poi saremo chiamati a risponderne. Che forma di perversione dell'ideale europeo!



E che forma di disprezzo per gli interessi dei propri cittadini, che però viene gentilmente nascosta da una parte non trascurabile dei media tedeschi - parti della verità potrebbero sconvolgere i cittadini.

Roland Tichy su questo evento inaccettabile e addirittura "epocale" ha pubblicato un articolo che merita di essere letto, ne citerò alcune frasi:

"Gli Stati dell'UE d'ora in poi saranno chiamati a garantire, soprattutto la Germania come partner più forte e paese con il rating creditizio piu' alto. È come in una fila di villette a schiera, dove il proprietario di una casa si indebita ma è il vicino a dover pagare. È un'ottimo affare per il debitore: si costruisce una casa piu' grande e piu' bella, con piastrelle di ottima qualità - tanto paga il vicino. Così la responsabilità nazionale viene eliminata e spostata a Bruxelles, e da li' poi viene rivendicata da Berlino. Lasciate che siano i tedeschi a risparmiare, sono ovviamente troppo stupidi per spendere soldi. […]

Perché risparmiare sulla propria popolazione, per essere poi generosi altrove? Facciamo come i greci, che offrono ai loro studenti la mensa gratuita; o come gli italiani, che evadono le tasse e con i soldi risparmiati investono nei loro immobili; facciamo come i francesi, che quando gli si parla di andare in pensione a 70 anni sono increduli. Nessuno lavora oltre i 60 anni in quel paese […]

Il prezzo che la Germania deve sostenere per essere l'àncora di stabilità dell'UE viene pagato dai contribuenti attraverso delle tasse molto elevate, dai risparmiatori attraverso i tassi di interesse a zero, dai beneficiari di prestazioni sociali e dai lavoratori a salario minimo con dei salari relativamente bassi rispetto al resto d'Europa. […]

Alla fine, valgono sempre le leggi dell'economia - una comunità di Stati che vive economicamente al di sopra dei propri mezzi e che è finanziata solo dalla macchina stampa-soldi, alla fine è inevitabilmente condannata a fallire.

Le torri sempre piu' alte del debito dell'UE a un certo punto crolleranno e seppelliranno sotto di sé la macchina per la redistribuzione di Bruxelles. Merkel e i suoi uomini probabilmente se ne sono resi conto in tempo. Dopo di me il diluvio, sembra essere il suo motto. Non si può impedire a questa generazione di politici europei, sia a Bruxelles che a Berlino, di distruggere l'UE. "L'irragionevolezza non conosce freni".


Questa irragionevolezza in effetti distruggerà le fondamenta dell'Unione europea, e lungo questo tragitto una parte considerevole della restante prosperità tedesca verrà spesa in altri paesi.

La responsabilità di questa insensata rinuncia alla nostra prosperità ha fondamentalmente due nomi : Angela Merkel e Ursula von der Leyen.

È giunto il momento di smetterla di regalare parte della nostra ricchezza. E' giunto il momento di porre fine della disastrosa amministrazione di Merkel e von der Leyen. E' il momento per #AfD.





giovedì 23 luglio 2020

Il Recovery Fund era già pronto?

Nel dicembre del 2019 il  professore Harald Benink (olandese) su Handelsblatt proponeva per l'Italia e gli italiani la strategia del bastone e della carota: un piano quinquennale di investimenti per convincere l'opinione pubblica dello stivale ad accettare le solite riforme strutturali altrimenti molto difficili da digerire. Secondo Benink questa pioggia di soldi europei avrebbe dato la possibilità ai governanti italiani di spiegare ai loro elettori che l'Europa non è solo austerità e riforme strutturali, ma anche solidarietà. Il Covid-19 potrebbe essere stata l'occasione buona per tirare fuori dal cassetto un piano già pronto.  Il professor Harald Benink su Handelsblatt.


Gli ultimi mesi nella politica italiana sono stati alquanto turbolenti. Per rafforzare la leadership politica e sostenere i mercati finanziari europei, è nato un nuovo governo, senza la Lega di Matteo Salvini. Il leader della Lega chiedeva infatti nuove elezioni per poter diventare lui stesso il primo ministro.


Ma la fase di stabilità politica potrebbe non durare a lungo. L'Europa non dovrebbe farsi sfuggire l'occasione e dovrebbe invece tendere una mano all'Italia per trovare un accordo generale.

L'Unione europea si trova in una situazione critica. Da un lato, l'avvicinarsi della Brexit crea nuove incertezze sulle relazioni future con la Gran Bretagna, dall'altro, a causa dei problemi economici e finanziari, in Italia presto potrebbe svilupparsi una nuova crisi ancora più grande. La situazione attuale dovrebbe essere utilizzata per ripensare l'instabile situazione economica, finanziaria e politica europea.


E' necessario circoscrivere le dinamiche negative del discorso politico. E ciò è particolarmente vero per la maggioranza della popolazione in alcuni paesi dell'UE, che vede il progetto europeo come una minaccia, più che come un'opportunità.

E ciò è particolarmente evidente in Italia. Essendo fra i membri fondatori dell'UE, il paese sta vivendo con difficoltà l'allontanamento e la mancanza di solidarietà nella governance dell'eurozona e nella gestione dell'immigrazione, in particolare da parte dei paesi dell'Europa settentrionale come Germania e Paesi Bassi. Ciò ha portato i partiti populisti ad essere ancora più popolari.

È ovvio che in Italia ci sono dei problemi strutturali ed economici. E questi riguardano soprattutto la mancanza di drastiche riforme strutturali nel mercato del lavoro e dei servizi, nella riscossione delle imposte e nel sistema pensionistico. Per troppo tempo il paese ha rinviato le riforme necessarie, e in questo modo ha ridotto la sua competitività e il suo potenziale di crescita di lungo periodo.

La politica della BCE non ha creato gli incentivi

Allo stesso tempo le politiche dell'UE spesso non sono state adeguate. Da un lato la politica monetaria della BCE ha mantenuto i tassi di interesse sui titoli di stato italiani a un livello molto basso, senza pretendere delle condizioni speciali.

Questi bassi tassi di interesse hanno ridotto gli incentivi per la realizzazione delle necessarie riforme economiche di vasta portata. D'altro canto le regole del Patto di stabilità e crescita dell'UE sono vincolanti e presto potrebbero portare a delle multe nei confronti dell'Italia, che a loro volta finirebbero per peggiorare ulteriormente la dinamica politica.

È giunto il momento di stringere un grande accordo fra Italia ed UE per migliorare la situazione politica. E ciò richiede un piano d'azione economico e politico per i prossimi cinque anni che metta in collegamento un'agenda dettagliata per le riforme economiche e strutturali da realizzare con dei potenziali investimenti europei.

L'idea di base è che per ciascuno dei cinque anni siano previsti passi concreti sul piano normativo e nell'attuazione delle riforme. Alla fine di ciascuno di questi cinque anni, si dovrà quindi verificare se l'Italia ha attuato le misure concordate. In caso positivo l'Italia potrebbe essere premiata con ingenti investimenti dell'UE, in particolare nei settori come le infrastrutture e l'economia della conoscenza.

C'è molto in ballo

Un simile approccio fatto di carota e bastone non è mai stato provato prima. Ciò cambierebbe il discorso politico e darebbe la possibilità alla leadership politica italiana di spiegare ai propri elettori che l'Europa non solo richiede difficili riforme economiche e disciplina di bilancio, ma agisce anche in maniera solidale sotto forma di investimenti. E questo potrebbe promuovere l'accettazione politica di misure anche difficili da parte dell'elettorato.

La sfida è quella di prevenire un'escalation della crisi politica tra Italia ed Europa. Tale escalation potrebbe portare a una crisi di fiducia nell'affidabilità creditizia del debito italiano e nelle banche del paese che hanno investito pesantemente in titoli di stato.

Date le dimensioni dell'economia italiana e, soprattutto, dato l'enorme debito pubblico, una crisi in Italia molto probabilmente porterebbe a una grave crisi bancaria e finanziaria nel resto d'Europa, fatto che avrebbe anche enormi conseguenze sul futuro dell'euro.

È quindi importante che il nuovo presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il nuovo presidente della BCE, Christine Lagarde, approfittino del momento per concludere con l'Italia un Grand Dearl. C'è molto in ballo ed è urgente un nuovo approccio.

mercoledì 22 luglio 2020

Heiner Flassbeck - Perché la Francia non è la Germania

Per Heiner Flassbeck i francesi non devono raccontarsi menzogne pensando di poter fare come i tedeschi, vale a dire risanare le proprie finanze pubbliche impoverendo i vicini a colpi di avanzi commerciali. Chi conosce i saldi settoriali del paese sa che alla Francia questa strada è preclusa, e che pertando l'unica possibilità concreta per uscire dalla trappola del debito post-corona sarà quella di cambiare le stupide regole europee. Una riflessione molto interessante del grande economista tedesco Heiner Flassbeck da Makroskop.de


François Villeroy de Galhau, il presidente della Banca centrale francese, ha scritto una lunga lettera ai suoi Presidenti nella quale illustra la situazione economica francese e sottolinea le sfide che la politica parigina dovrà affrontare nel lungo periodo in merito al debito pubblico e nel quadro dell'unione monetaria. 


La lettera ovviamente è pensata per essere un avvertimento. Sebbene la Banque de France ammetta che nella crisi causata dal Coronavirus sia la politica monetaria che quella fiscale hanno dovuto adottare delle misure anticicliche di ampia portata per evitare il crollo dell'economia, afferma anche che dopo la crisi (dal 2022) sarà necessario intraprendere l'azione opposta. Lo Stato quindi, scrive Villeroy-Galhau, per limitare entro un decennio il debito contratto nel periodo del Coronavirus, dovrà iniziare a ''stabilizzare'' la spesa pubblica. 

Un confronto con la Germania: a cosa serve? 

Probabilmente per illustrare quanto fosse preoccupante lo stato delle finanze pubbliche francesi già prima della crisi del Coronavirus, il Presidente della Banque de France ha voluto aggiungere alla lettera un grafico che confronta Francia e Germania, e nel quale la Francia ovviamente va molto male (Figura qui sotto come l'originale dalla lettera). Nel grafico viene confrontato il debito pubblico in percentuale del PIL per Francia e Germania e per l'unione monetaria nel suo complesso. Il grafico è davvero rivelatore, ma in un senso completamento opposto rispetto a quello proposto dagli autori della lettera. 


In effetti, come sottolinea anche Banque de France, dal grafico si può notare che fino alla fine della crisi finanziaria del 2008/2009, il debito pubblico tedesco e quello francese si sono sviluppati più o meno allo stesso modo. È solo a partire dal 2010 che la Francia ''si stacca'' dalla Germania e cresce senza interruzioni, mentre la Germania ''riesce'' a spingere il suo debito al di sotto della soglia del 60% richiesta dai trattati dell'unione monetaria. È anche interessante notare che Banque de France ritiene che la Germania subito dopo il 2020 possa iniziare a ridurre immediatamente il suo debito allo stesso ritmo con cui l'ha fatto dopo il 2010, mentre la Francia può solo stabilizzarlo all'altissimo livello del 120%. 


Non c'è un macroeconomista alla Banque de France? 

Ci si chiede come è possibile che un'istituzione così importante possa aver fatto un'analisi così assurda e averla poi inviata al Presidente della Repubblica. L'unica cosa che mostra il grafico qui sopra è il fatto che la Germania ha utilizzato il suo enorme surplus di conto corrente con l'estero per consolidare il suo bilancio nazionale. 

Al dipartimento economico della Banque de France non sanno forse che in tutte le economie del mondo quando l'intero settore privato (cioè le famiglie e le imprese) sono dei risparmiatori netti, esiste un legame molto semplice e del tutto innegabile tra il bilancio di uno Stato e il saldo delle partite correnti? Perché il debito pubblico degli Stati Uniti, il paese modello del capitalismo, è aumentato così tanto dopo la crisi finanziaria? Come la Francia, anche gli Stati Uniti hanno un deficit delle partite correnti. 

Di recente ho scritto che il presidente della Bundesbank preferisce tacere sui saldi settoriali, anche se la Bundesbank li calcola da decenni. Si può almeno capire perché il signor Weidmann, per ragioni ideologiche non voglia parlare né dell'eccedenza di conto corrente tedesca né del fallimento del settore delle aziende tedesche. Ma cosa impedisce al suo omologo francese di evidenziare almeno le eccedenze delle partite correnti confrontandole con quelle tedesche? È davvero solo ignoranza? 

Le regole europee sul debito sono superate 

I saldi settoriali francesi (grafico qui sotto), su di un arco di tempo molto lungo, mostrano con chiarezza che per la Francia quasi certamente dopo la crisi causata dal Coronavirus sarà impossibile ridurre il suo debito pubblico. Non ci saranno cambiamenti nel tasso di risparmio delle famiglie (già di per sé non molto elevato), né nel fatto che da trent'anni le aziende francesi non fanno più quello che ci si aspetta da loro, cioè prendere a prestito denaro per investire. Il fatto che la Banque de France, alla luce di questa situazione presente fra le imprese, metta anche in evidenza che il debito lordo del settore aziendale francese "sia cosi' alto", è quasi imbarazzante. 


Un mondo come quello che abbiamo avuto dal 1960 fino all'inizio degli anni '80, quando le aziende erano in tutta evidenza i debitori più importanti e lo Stato riusciva a cavarsela facendo poco nuovo debito, è un ricordo del passato. E' una storia che durerà tanto a lungo, almeno fino a quando ci sarà il neoliberismo a governarci. Poiché le possibilità della Francia di realizzare una significativa inversione di tendenza nel commercio estero e di ottenere un avanzo di conto corrente sono attualmente nulle, l'unica opzione logica è che lo Stato tenga a galla l'economia facendo sempre piu' debito. 

E questo vale indipendentemente da quanto sarà alto il livello di indebitamento alla fine della crisi da Coronavirus. Un fatto confortante per la Francia: sarà inevitabile anche per la Germania. E questo sarebbe un argomento per un'iniziativa franco-tedesca. Mano nella mano, i due paesi dovrebbero mettere in discussione dalle fondamenta le regole europee sul debito secondo il motto: regole impossibili da rispettare, non devono essere rispettate.




domenica 19 luglio 2020

Il paese della disuguaglianza

Secondo i dati appena pubblicati dal prestigioso DIW (Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung) di Berlino, la disuguaglianza sociale in Germania sarebbe estrema. Dati alla mano, secondo il DIW, in Germania il 10% piu' ricco della popolazione detiene il 67 % della ricchezza privata, mentre il 50 % piu' povero della popolazione possiede solo l'1% della ricchezza privata. Ne scrive su Die Zeit il direttore del DIW Marcel Fratzscher



Finora non si sapeva con esattezza quanto noi tedeschi fossimo realmente ricchi, oppure poveri. Lo Stato tedesco non raccoglie statistiche pubbliche sulla ricchezza dei cittadini - e poiché i tedeschi benestanti raramente partecipano a dei sondaggi rappresentativi, era anche impossibile sapere quale fosse in Germania la ricchezza privata effettivamente disponibile. Una nuova e piu' specifica indagine del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung, condotta fra i milionari di questo paese, sta cambiando però la situazione: lo studio dimostra che la ricchezza dei tedeschi piu' facoltosi finora è stata grossolanamente sottovalutata.


In Germania ad esempio la ricchezza totale a disposizione dei cittadini non è di 8,2 trilioni di euro, come precedentemente ipotizzato, ma di oltre 10,3 trilioni di euro. La differenza di circa 2.1 trilioni di euro equivale a circa due terzi del PIL annuo tedesco.

Non sorprende poi che le persone con un patrimonio netto molto elevato siano anche riluttanti a farsi intervistare in merito alla loro ricchezza, tanto più che in Germania essere ricchi di solito viene visto come qualcosa di negativo. I ricchi pertanto sono molto riluttanti nel rivelare la loro ricchezza effettiva. E sono ancora meno inclini nel partecipare a dei sondaggi sull'argomento. A causa di ciò, la nostra indagine socio-economica sulle famiglie, abitualmente molto rappresentativa, vale a dire il Panel socio-economico del DIW di Berlino - per il quale dal 1984 ogni anno vengono intervistate quasi 30.000 persone in oltre 20.000 famiglie - ha sempre avuto il difetto di poter individuare troppi pochi soggetti con un elevato patrimonio netto e quindi di rilevarne la loro ricchezza.



I miei colleghi Carsten Schröder, Charlotte Bartels, Markus Grabka, Johannes König e Konstantin Göbler sono invece riusciti a correggere questa situazione. Utilizzando un database contenente informazioni sugli assetti proprietari delle aziende, hanno identificato persone residenti in Germania che detengono quote significative di almeno una società nel mondo e gli hanno chiesto se potevano intervistarle. Non tutti i soggetti titolari di un patrmonio elevato sono stati d'accordo nel farsi intervistare. Ma sono stati un numero sufficientemente elevato per riuscire ad avere per la prima volta un quadro rappresentativo della ricchezza privata in Germania. Il nuovo set di dati, infatti, comprende anche 700 tedeschi con un patrimonio di oltre 250 milioni di euro, secondo quanto riportato dalla lista dei ricchi di Manager Magazin.

Due terzi della ricchezza apartien al 10% più ricco

I risultati sono decisamente interessenti: il patrimonio netto privato complessivo - composto da beni immobili, attività finanziarie, assicurazioni sulla vita, beni aziendali e beni di consumo durevoli come le automobili, detratte le passività - non solo è di almeno un quarto superiore rispetto a quanto era noto fino ad ora, ma è anche distribuito in modo molto più diseguale: il 10% più ricco non possiede il 59 % del patrimonio netto totale, come precedentemente ipotizzato, ma ne detiene il 67 %. Soprattutto l'1 % al top della distribuzione è notevolmente più ricco di quanto si pensasse: invece della precedente stima di poco inferiore al 22%, questi pochi individui, con poco più del 35%, possiedono più di un terzo del patrimonio netto privato complessivo.

In confronto, il 50 % più povero della popolazione possiede solo l'1 % circa del patrimonio netto privato. Espresso in numeri concreti, ciò significa che un milionario medio ha un patrimonio netto di circa tre milioni di euro. Per contro, un cittadino medio che si trova nella metà inferiore della distribuzione ha un patrimonio netto medio di 3.682 euro. Più di una persona su quattro non ha praticamente alcun patrimonio netto o è addirittura indebitata.

Nel confronto internazionale la disuguaglianza nella distribuzione dei patrimoni privati è quindi insolitamente elevata. In Europa, la Germania è uno dei paesi con la distribuzione degli attivi piu' disuguale. Il coefficiente di Gini, una misura comunemente usata per misuare la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza (un valore pari a zero significa una distribuzione uniforme della ricchezza, un valore di 1 una disuguaglianza massima), con i dati aggiuntivi arriva a 0,83, ed è comunque ancora più alto di quanto non lo fosse prima (0,78).

È giusto?

Ora si aprirà un acceso dibattito sul fatto che questa disuguaglianza sia giusta o ingiusta, economicamente vantaggiosa o dannosa, socialmente equilibrata o socialmente sbilanciata - e questo sarà il punto centrale del prossimo commento. Ciò che è preoccupante, tuttavia, è che così tante persone in Germania abbiano così pochi attivi e siano quindi esposte a dei grandi rischi, soprattutto nell'attuale crisi causata dal coronavirus. Già oggi, molte persone con un reddito e un patrimonio basso hanno dovuto attingere ad una parte significativa dei loro risparmi. Le persone a basso reddito e con pochi risparmi sono state particolarmente colpite dalla crisi. La loro percentuale fra i quasi dieci milioni di uomini e donne che hanno perso il lavoro o hanno dovuto lavorare a orario ridotto è sproporzionatamente alta.

Non deve quindi sorprenderci il fatto che in molti non stiano spendendo il bonus per i figli (Kinderbonus) ma preferiscano risparmiare, e  scelgano di non consumare nonostante i possibili risparmi derivanti dalla riduzione dell'IVA. Per le persone con una ricchezza e un reddito molto elevati, invece, questi trasferimenti aggiuntivi da parte dello Stato non fanno alcuna differenza nei loro comportamenti di consumo, in quanto avrebbero potuto finanziarli anche senza i trasferimenti. Ciò dimostra ancora una volta che un'elevata disuguaglianza in termini di reddito e di ricchezza è un ulteriore ostacolo alla ripresa economica, soprattutto in tempi di crisi come questi.


sabato 18 luglio 2020

Clemens Fuest - 6 possibili scenari per il debito pubblico italiano

E' possibile mettere in sicurezza il debito pubblico italiano? Risponde Clemens Fuest, direttore del prestigioso Ifo Institut di Monaco, che su Focus prova ad analizzare 6 possibili soluzioni per l'annoso problema del debito pubblico italiano. Clemens Fuest da Focus.de 


Le cause dell'elevato indebitamento pubblico italiano sono molteplici, e tutte mostrano un collegamento alquanto debole con una politica di bilancio frivola.

Ci sono varie opzioni possibili per risolvere il problema del debito pubblico italiano, opzioni che vanno dal taglio del debito, all'imposta patrimoniale, fino all'uscita dall'unione monetaria. Ma tutte hanno degli svantaggi.

Ecco perché è probabile che all'interno dell'eurozona nei prossimi anni ci possano essere delle forti tensioni.

Il dibattito europeo sulla situazione economica, sia nella crisi causata dal coronavirus che dopo l'eurocrisi, si è sempre concentrato sul livello raggiunto dai debiti pubblici nazionali, sugli spread del debito pubblico e sulle conseguenze di un calo dei prezzi dei titoli di Stato per le banche italiane, le quali detengono una quota rilevante di queste obbligazioni.

Spesso in questo dibattito si ha come l'impressione che l'Italia si sia trovata in difficoltà finanziarie solo a causa di una politica debitoria alquanto frivola. In realtà, il debito pubblico italiano è piu' un sintomo delle difficoltà economiche del paese, che non la sua causa. Dove risiedano i veri problemi italiani diventa subito chiaro se si dà un'occhiata all'andamento della crescita economica italiana negli ultimi quattro decenni.


L'Italia sta ancora soffrendo per la crisi finanziaria.

Il dato mette a confronto l'andamento della crescita economica in Francia, Germania, Italia e Regno Unito a partire dal 1980. Fino alla metà degli anni '90 lo sviluppo economico di questi quattro paesi è stato abbastanza simile. Dopo di che le cose sono cambiate radicalmente.

In Germania il ritmo della crescita nel frattempo è rallentato. Il Paese ha dovuto sopportare l'onere della riunificazione. La Germania inoltre è entrata nell'Unione monetaria europea con una valuta sopravvalutata. In Italia, invece, la crescita ha continuato a rallentare anche negli anni successivi. Fino al 2005 circa, la produzione economica italiana ha seguito all'incirca quella della Germania. Ma poi dopo il crollo dovuto alla crisi finanziaria globale, l'Italia non si è piu' ripresa. Mentre tutti gli altri paesi qui considerati negli ultimi dieci anni sono tornati a crescere, l'economia italiana ha subito una stagnazione.



Le ragioni di questa cronica debole crescita sono state discusse a lungo. I fattori citati sono molteplici:

- Le riforme del sistema educativo degli anni settanta e ottanta spesso vengono citate come una possibile causa della bassa produttività.

- Anche l'emigrazione dei talenti ha pesato sulla crescita.

- Il sistema giudiziario funziona così lentamente che i contratti spesso non sono applicabili

- L'ingresso della Cina sui mercati mondiali a partire dagli anni '90 ha messo i prodotti italiani sotto una pressione concorrenziale maggiore rispetto a quelli di altre economie.

- I processi decisionali inefficienti delle aziende a conduzione familiare sono responsabili del fatto che molte di queste non hanno saputo reagire ai cambiamenti strutturali. La regolamenteazione del mercato del lavoro, inoltre, rende difficile per le aziende crescere oltre una certa dimensione.

- Alcuni danno la colpa all'ingresso dell'Italia nell'euro. Avrebbe impedito all'Italia di svalutare la propria moneta con regolarità, come avveniva in precedenza.

- Altri ancora sottolineano la mancanza di riforme in materia di politica economica durante i governi di Silvio Berlusconi.

- La politica fiscale implementata dopo la crisi dell'euro, in particolare il rapido ritorno a una politica fiscale restrittiva spinta dalle pressioni dei mercati finanziari e dalla mancanza di investimenti pubblici, avrebbe ostacolato la ripresa economica.

- Poco prima della crisi causata dal coronavirus, il conflitto tra il governo di coalizione Cinque stelle - Lega Nord e la Commissione Europea in merito al deficit di bilancio ha messo in crisi gli investitori e i consumatori andando a gravare sullo sviluppo economico.

Tutti questi fattori, presumibilmente, hanno contribuito alla scarsa crescita italiana. È un misto di circostanze sfortunate e di omissioni da parte dei decisori politici ed economici. L'Italia sta entrando nella crisi causata dal coronavirus con una ulteriore crescita del debito pubblico rispetto al livello raggiunto durante l'ultima crisi economica. La questione di fondo è se il Paese riuscirà a superare la crisi mantendendo la stabilità economica e finanziaria nei prossimi mesi e anni.

Sei scenari appaiono possibili per quanto riguarda lo sviluppo delle finanze pubbliche italiane:

1 - Stabilizzazione del debito pubblico ad un livello elevato con una lenta riduzione del rapporto debito pubblico/PIL

E' teoricamente possibile che la politica fiscale italiana possa aumentare la spesa pubblica durante questa crisi al fine di stabilizzare l'economia del Paese, sopportando al tempo stesso il calo del gettito fiscale causato dalla crisi. Secondo le attuali previsioni, ciò porterebbe il rapporto debito pubblico/PIL a circa il 155 %. Fino a quando i tassi di interesse sul debito pubblico italiano resteranno bassi e i creditori saranno disposti a rifinanziare il debito pubblico in scadenza, il Paese potrà convivere con degli alti livelli di debito pubblico. Per poter ridurre sensibilmente prima della prossima crisi questo rapporto debito/PIL, la crescita economica in Italia dovrà aumentare in modo significativo. Affinché il rapporto debito pubblico/PIL raggiunga entro il 2030 il livello registrato prima della crisi causata dal coronavirus, la crescita economica dovrà essere di due punti percentuali superiore rispetto a quella degli ultimi anni, con avanzi primari realistici. Sarebbe uno scenario molto ottimistico. Questo obiettivo potrà essere raggiunto solo se il paese dovesse attuare riforme strutturali di vasta portata e se nella sua politica fiscale desse priorità agli investimenti, rispetto alla spesa per i consumi.



2 - Taglio del debito

Sarebbe rischioso, ma comunque ipotizzabile, ridurre il debito pubblico italiano mediante una sua ristruttuazione. Per valutare le conseguenze di una tale ristrutturazione del debito sarebbe importante capire chi sono i creditori dello Stato italiano. Le famiglie italiane hanno un elevato livello di risparmio. L'Italia viene considerato un paese il cui debito pubblico è detenuto principalmente dai propri cittadini. A un esame più attento, però, questo è vero solo in parte. La struttura dei creditori dello Stato italiano nel 2019 è stata analizzata da Gros (2019).

Nel 2019 il debito pubblico complessivo italiano ammontava a circa 2.250 miliardi di euro. Le banche italiane sono di gran lunga i maggiori creditori. Hanno concesso prestiti diretti allo Stato italiano per 290 miliardi di euro e detengono anche titoli di stato italiani per altri 400 miliardi di euro. Le famiglie italiane detengono direttamente titoli di Stato per un valore di 100 miliardi di euro. Ci sono inoltre fondi di investimento e compagnie di assicurazione con una clientela prevalentemente italiana. Le banche estere detengono titoli di Stato italiani per 450 miliardi di euro. Banca d'Italia detiene altri 400 miliardi di euro titoli, principalmente nell'ambito dei programmi di acquisto titoli della BCE. Queste partecipazioni obbligazionarie continueranno a crescere anche durante la crisi post-Corona. In linea di principio, sarebbe Banca d'Italia a dover rispondere per le inadempienze su tali obbligazioni. Gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Banca centrale italiana, tuttavia, generano delle passività verso il resto dell'Eurosistema nell'ambito dei cosiddetti saldi Target. Si può quindi ipotizzare che i rischi di questo stock di obbligazioni sia in ultima analisi a carico dei creditori esteri. Mentre sulle passività Target attualmente si applica un tasso di interesse pari a zero, i proventi derivanti dall'assunzione di tale rischio restano quindi in Italia.


Nel caso di un taglio del debito, ad esempio, del 50 %, la maggior parte delle banche commerciali italiane dovrebbe essere ricapitalizzata, poiché si verificherebbero perdite per 345 miliardi di euro. E questo potrebbe essere fatto solo attingendo ad una parte sostanziale dei depositi e dei risparmi dei cittadini italiani. Resta da vedere fino a che punto ciò possa essere compatibile con la normativa europea in materia di assicurazione sui depositi. A causa delle perdite sui titoli di Stato, sulle quote dei fondi di investimento e sulle assicurazioni direttamente detenute, per le famiglie italiane ci sarebbero altri 350 miliardi di euro di perdite. È difficile immaginare che qualsiasi governo italiano sia disposto a mettere i risparmiatori in una tale situazione. La sua rielezione sarebbe senza dubbio impossibile.

Sarebbe inoltre difficile convincere i partner europei a cancellare la metà dei crediti Target verso Banca d'Italia. Sembra anche difficile aspettarsi che le banche estere possano subire perdite per 225 miliardi di euro.

3 - Un'imposta patrimoniale una tantum sugli italiani

Spesso si chiede all'Italia di ridurre il proprio debito pubblico applicando un'imposta una tantum sui patrimoni. Nel gennaio del 2014 la Bundesbank aveva già presentato il concetto di un'imposta patrimoniale una tantum come strumento per evitare il fallimento dello Stato italiano. Gli svantaggi e i rischi associati alle imposte patrimoniali, in particolare il rischio di una fuga dei capitali, giocano normalmente a sfavore delle imposte sul patrimonio. Sono tuttavia ipotizzabili delle situazioni in cui, in mancanza di alternative migliori, utilizzare questo strumento potrebbe avere un senso: "Nella situazione eccezionale di una imminente insolvenza dello Stato, tuttavia, un prelievo una tantum sui patrimoni potrebbe avere effetti piu' favorevoli rispetto alle altre opzioni ancora possibili".

Una tale imposta patrimoniale tuttavia solleverebbe molti problemi. Se includesse beni mobili, ad esempio, porterebbe a una fuga di capitali. E questo aggraverebbe ancora di piu' la crisi economica italiana. Dato che i grandi patrimoni spesso sono collegati alle imprese, l'imposta finirebbe per gravare sulle imprese che invece dovrebbero investire e creare posti di lavoro. Per evitare una fuga di capitali, l'imposta potrebbe essere limitata ai beni immobili. In tal caso, però, dovrebbe essere  proporzionalmente più alta. Dal punto di vista dell'equa ripartizione degli oneri, tuttavia, sarebbe difficile negoziare una cancellazione del debito pubblico esclusivamente a spese dei proprietari di immobili.

4 - Spostare il debito verso gli altri stati membri

Sarebbe teoricamente possibile per gli altri paesi membri dell'eurozona sgravare l'Italia da una parte del suo debito pubblico. I cittadini degli altri stati dell'eurozona, tuttavia, non accetterebbero mai una ridistribuzione diretta del debito. Sarebbe quindi ipotizzabile da parte degli altri paesi membri una concessione di prestiti a lunghissimo termine a tassi d'interesse vicini allo zero, simili a quelli concessi alla Grecia, ad esempio, attraverso il MES. Fintanto che questi prestiti possono essere rifinanziati con un tasso d'interesse prossimo allo zero, non ci sarebbero problemi. I paesi creditori, tuttavia, potrebbero avvertire la mancanza di un margine di manovra per contrarre altri prestiti, al più tardi durante la prossima crisi economica.

Un argomento generalmente utilizzato contro lo spostamento del debito pubblico italiano sugli altri Paesi europei è che le famiglie italiane spesso hanno livelli di ricchezza relativamente elevati. Il grafico mostra che, sebbene la ricchezza netta media sia leggermente inferiore rispetto alla media dell'eurozona, essa supera la ricchezza delle famiglie olandesi e finlandesi, ad esempio. È difficile immaginare che in un paesi nel quale le famiglie hanno una ricchezza privata media piu' bassa, queste siano poi disponibli ad alleviare il peso del debito pubblico di un paese i cui cittadini sono mediamente più ricchi.



5 - Alleggerimento del peso del debito tramite la BCE

Di tanto in tanto qualcuno suggerisce che il problema del debito pubblico italiano debba essere risolto dalla banca centrale, la quale dovrebbe acquistare gran parte delle obbligazioni e rifinanziare il paese. Si arriva a chiedere persino che la banca centrale rinunci al pagamento degli interessi e annulli le obbligazioni. La proposta di eliminare il debito pubblico mediante il trasferimento definitivo dei titoli di stato alla banca centrale è convincente quanto le famose menzogne del Barone di Münchhausen. Si dimentica che i profitti della banca centrale spettano comunque allo Stato. Se la banca centrale italiana, con l'approvazione della BCE, dovesse acquistare dei titoli di Stato ed emettesse in cambio della moneta, si creerebbe un profitto della banca centrale che dovrebbe essere trasferito allo Stato italiano. Se la banca centrale dovesse acquistare più titoli di Stato, ci sarà meno spazio, ad esempio, per acquistare obbligazioni societarie, data la massa monetaria complessiva. I proventi derivanti dagli interessi su queste obbligazioni societarie saranno di conseguenza inferiori. Il piano per dimenticare il debito pubblico nei sotterranei delle banche centrali funziona solo se si crede di poter espandere la massa monetaria a piacimento. Ma questo non è possibile. Chiunque ci provi causerà svalutazione monetaria e inflazione



6 - L'uscita dall'euro e la reintroduzione della moneta nazionale

Il governo di coalizione fra Cinque Stelle e Lega Nord all'inizio del suo mandato discuteva apertamente di una possibile uscita dell'Italia dall'eurozona. A ciò si accompagnava l'idea che in questo modo l'Italia avrebbe potuto liberarsi di gran parte del suo debito pubblico passando a una nuova moneta nazionale. Le conseguenze pratiche di un tale passaggio - destabilizzazione politica ed economica del paese e imprevedibili controversie legali - tuttavia, rendono questa opzione molto poco attraente. E questo vale sia per l'Italia, che per il resto d'Europa.

Non esiste una soluzione semplice

Questa breve discussione sui possibili scenari per lo sviluppo futuro dell'Italia e della finanza pubblica italiana dimostrano che non ci sono soluzioni facili al problema dell'elevato indebitamento pubblico del paese. È molto probabile che l'Italia venga sostenuta finanziariamente dai paesi dell'Eurozona, in modo da garantire al paese l'accesso al mercatio dei capitali ad un basso tasso di interesse. L'elevato livello di indebitamento pubblico e le conseguenze della crisi post-corona per il settore privato metteranno a dura prova lo sviluppo economico, tanto da rendere difficile l'uscita del paese da una situazione di eccesso di debito. Nella prossima crisi economica, il sovraindebitamento sarà difficile da evitare.

Il problema politico di fondo è che ci sarà sempre una forte tentazione da parte dei governi in carica a presentare i problemi di sovraindebitamento come dei semplici problemi temporanei di liquidità, rimandandone la loro soluzione tramite la concessione di prestiti di aiuto. Le conseguenze saranno poi affrontate dai governi successivi.

Tutto ciò dimostra che nei prossimi anni nell'eurozona ci si dovranno aspettare delle notevoli tensioni. L'Italia non è l'unico Paese a dover affrontare delle sfide finanziarie. Molto dipenderà anche dal fatto che l'Europa nel suo insieme riesca a rilanciare quanto prima la propria cescita economica. La possibilità di raggiungere questo obiettivo dipende in primo luogo dagli sviluppi della pandemia e dalle misure  governative prese per contenerla. Per i responsabili della politica europea si pone anche la questione se sia possibile un'azione congiunta a livello europeo per promuovere e rilanciare la ripresa economica.


giovedì 16 luglio 2020

Ricordi da un'altra unione monetaria

Trenta anni fa, nel luglio del 1990, nella DDR veniva introdotto il D-Mark, una scelta precipitosa che distrusse l'industria della Germania orientale e stravolse la vita di milioni di tedeschi dell'est. Nei decenni successivi lo stesso copione si sarebbe ripetuto nell'Europa del sud, questa volta però con l'euro. Ne scrive Daniela Dahn sulla Berliner Zeitung


Le riflessioni condotte sulla riunificazione tedesca, sempre più di spesso ammettono che lungo il cammino sono stati commessi degli errori, a volte anche gravi. Ma questa ammissione di solito viene relativizzata dalla seguente affermazione: in considerazione della caduta del Muro, dell'emigrazione di massa, del declino economico e del desiderio generale di avere il D-Mark in tasca, non c'erano alternative. E' necessario opporsi a questa narrazione: chi non ha mai sperimentato alternative, difficilmente può risultare credibile quando afferma che  all'epoca non ce ne fossero.

Ciò vale in particolare anche per l'introduzione del D-Mark come mezzo di pagamento nella DDR. Ma cosa successe esattamente in quei giorni?

Dopo l'incontro del 6 febbraio 1990 con il presidente della Banca centrale della DDR, Horst Kaminsky, e il suo ministro dell'economia, Christa Luft, il presidente della Bundesbank Karl Otto Pöhl aveva rilasciato un comunicato stampa nel quale ribadiva che i piani per un'unione monetaria dovevano essere considerati prematuri. Il ministro federale dell'economia Helmut Haussmann aveva aggiunto che la DDR avrebbe gradualmente reso convertibile la sua moneta con un forte sostegno da parte dell'ovest. Anche un'analisi del Consiglio dei saggi economici confermava questo approccio.

Ma solo un giorno dopo, il cancelliere Kohl, dopo aver consultato a quattr'occhi il suo ministro delle Finanze Theo Waigel, senza averci riflettuto piu' di tanto, decise di offrire pubblicamente l'unione monetaria ai tedeschi dell'est. La Bundesbank non era stata consultata, e Pöhl in piu' occasioni in seguito se ne è anche lamentato. Il D-Mark è stata la promessa elettorale più difficile da mantenere. I sondaggi della CDU orientale per le elezioni della Volkskammer del 18 marzo, infatti, erano stati spiacevoli quanto i sondaggi personali sulla popolarità del Cancelliere in Occidente. L'eccellente istinto politico di Kohl per il potere, tuttavia, era stato poi premiato da una vittoria schiacciante ottenuta con il 48% dei voti dall'Alleanza per la Germania da lui creata.



L'ormai imminente introduzione del Marco dell'ovest aveva suscitato da un lato una grande cupidigia, dall'altro un'incertezza di fondo sul ritmo al quale questa riforma monetaria avrebbe potuto essere realizzata con successo. La bozza del trattato era rimasta sotto chiave, ma a metà aprile erano trapelate alcune indiscrezioni. Finalmente era chiaro quale prezzo sarebbe stato richiesto per impedire che la moneta pregiata  fosse usata per scopi riprovevoli: la DDR doveva accettare una restrizione della propria sovranità. I principi costituzionali più importanti della DDR dovevano essere abrogati, in particolare veniva messo in discussione l'ordinamento giuridico socialista, in modo da poter garantire l'acquisizione della proprietà privata di terreni e mezzi di produzione. Per la prima volta veniva introdotto il diritto di licenziare senza preavviso. Chiunque rinunci alla propria sovranità monetaria, del resto, non viene più considerato un partner contrattuale degno di essere preso sul serio.


La gioia dell'attesa era mista alla disillusione e alla paura per la propria esistenza: nelle fabbriche c'erano stati scioperi di avvertimento. La PDS aveva affisso migliaia di manifesti: "se il D-Mark arriva troppo presto, la ragione arriva troppo tardi". Ma le telecamere avevano preferito soffermarsi solo sugli slogan di senso opposto. Le elezioni locali del 6 maggio nella DDR, appena sette settimane dopo le elezioni della Volkskammer, con oltre un milione di elettori che hanno cambiato partito, avevano mostrato una perdita di fiducia dell'elettorato. La CDU aveva perso 800.000 voti, i piccoli partiti come i Verdi, gli attivisti per i diritti civili e gli altri partiti che erano contro la grande Germania, diventata molto in fretta la nuova Patria, insieme erano passati dal 20 al 30 %. Ma questa tendenza era stata comprata con il D-Mark e fermata anche dalla legge sui Treuhand approvata nello stesso periodo, legge che liberava la proprietà pubblica e ne rendeva possibile la privatizzazione.  



L'atto più importante della prima e ultima Volkskammer liberamente eletta, corteggiata dai consiglieri occidentali, è stato proprio quello di espropriare il popolo dell'est. Il politico della SPD Rudolf Dreßler ne ha parlato descrivendola come una "terribile omissione": "perché dopo l'unità dello Stato, c'era stata una chiara e unica opportunità storica di trasformare la ricchezza nazionale in una forma di proprietà del capitale produttivo ampiamente diffusa, in modo da rendere i tedeschi dell'est comproprietari di aziende sane e riorganizzate". Volker Braun aveva riassunto questo "affare poco trasparente" in poche parole: il popolo ha rinunciato alle sue proprietà e si è fatto consegnare la libertà.

La mattina del 1° luglio i cittadini della DDR hanno scambiato le loro monetine di alluminio con il ben piu' resistente D-Mark, e nei loro grandi magazzini hanno poi trovato le merci occidentali in tutto il loro splendore. L'ho sperimentato personalmente nelle abitudini di consumo del nostro villaggio. Non è vero che i beni dell'est non venivano piu' comprati, semplicemente erano completamente scomparsi dai supermercati. Non c'era piu' il solito dentifricio, e niente più pomodori prodotti sul luogo, quelli nuovi erano un po' piu' pallidi, ma almeno  arrivavano dall'Olanda. Anche l'edicola non era riconoscibile - accanto alla Bild e a Die Welt c'erano i tascabili Welt Goldmann. E la prima concessionaria di auto in città! La promessa fatta ai consumatori era stata mantenuta, nell'entusiasmo generale. I punti più importanti del trattato, in realtà, non erano mai stati mantenuti.

"Dentro c'erano davvero tutte queste sciocchezze?" aveva chiesto Karl Otto Pöhl, il presidente della Bundesbank, la cui opinione sulla riforma monetaria non era stata nemmeno ascoltata, due anni dopo mentre gli leggevo alcuni passaggi del Trattato. "All'epoca non l'avevo nemmeno letto, ero così arrabbiato che sapevo già che mi sarei dimesso". E' stata una scelta politica che andava contro l'economia. Se nella Repubblica Federale fosse stato introdotto da un giorno all'altro il dollaro, molto più forte, mi aveva spiegato, anche l'economia tedesca ne sarebbe uscita fortemente danneggiata. L'editorialista economico del Guardian descrisse l'impatto dell'unione monetaria con l'est come quello di una "bomba atomica economica".

Quello che ne seguì invece furono dei paesaggi politici alquanto appassiti. Dopo che il 95 % della proprietà del popolo era passata in mani occidentali, iniziò un periodo di siccità durato 18 anni, dopo il quale si riuscì di nuovo a raggiungere la produzione economica della DDR. Secondo i sondaggi rappresentativi della sociologa Yana Milev, tra il 1990 e il 1994 tre milioni di persone hanno manifestato contro i licenziamenti e contro le disparità di trattamento - il doppio rispetto alla "rivoluzione pacifica" - ma sono state ignorate. Parallelamente alla deindustrializzazione, anche il tasso di natalità è sceso del 70%, un barometro alquanto affidabile sull'andamento dell'opinione pubblica.

Il numero di persone emigrate ad ovest ha continuato a crescere. Ad est, invece le persone venivano spesso inserite in inutili programmi per la creazione di posti di lavoro, e alla fine hanno dovuto fare richiesta di assistenza sociale. Il fatto che la rete di sicurezza sociale esista, bisogna ammetterlo, ha anche a che fare con la ripresa che la riunificazione ha causato in occidente. Il 1990 è stato il miglior anno finanziario nella storia  centenaria della Deutsche Bank. E non solo per questa banca. E' diventato conveniente degradare i tedeschi dell'est facendoli diventare percettori permanenti di elemosine. "Viziare" è un termine accettabile in una economia di mercato, senza nascondere il suo sottofondo umiliante.

L'isolamento economico post-coronavirus, in confronto, è un gioco da ragazzi. Ancora oggi, i nuovi Länder federali dell'est non sono più così lontani dal riuscire a produrre completamente da soli quanto consumano. Tuttavia sono stati riconciliati con il paese grazie all'introduzione del D-Mark e poi con l'euro. Secondo il rapporto annuale del governo federale del 2019, due terzi dei tedeschi dell'est hanno dichiarato che la loro situazione personale è migliorata notevolmente rispetto al 1990. Finalmente sono stati in grado di viaggiare dove volevano e di migliorare le loro condizioni di vita, di creare delle piccole imprese e di consumare quasi quanto i loro compatrioti, che una volta si chiamavano fratelli e sorelle.

Già nel 1994, l'allora ministro degli Affari sociali, Regine Hildebrandt, lamentava che l'est socialmente egualitario si era allineato alla società dei due terzi occidentale. Ed è lì che è rimasto.

Secondo i "Glückatlas", quasi la metà dei tedeschi dell'est è preoccupata per la coesione sociale. La ricca Germania di oggi è un paese che tollera la nuova povertà, che ha una sottoclasse sociale creata grazie ad Hartz IV, che emargina i gruppi sociali, che spende poco per i richiedenti asilo, dove la salute costa tanti soldi e le opportunità educative sono ereditarie. E questi sono anche gli effetti tardivi di questa folle unione monetaria, che alla fine ha portato il costo netto dell'unificazione tedesca ben oltre i due trilioni di euro. Soldi che non sono stati pagati usando gli spiccioli e le monetine, ma in gran parte sono stati finanziati da prestiti ancora oggi lungi dall'essere estinti. Secondo la Corte dei conti tedesca, il debito federale oggi è quattro volte superiore rispetto a quello di 30 anni fa. Questo fardello non solo sarà ereditato dalle prossime generazioni, ma per anni ha imposto, a est come a ovest, lo Schwarze Null, sotto il cui ombrello dimagrante le politiche pubbliche per il clima, la salute, l'istruzione, i trasporti o la digitalizzazione hanno perso spessore.

Dove l'ottimizzazione per il mercato isola le persone e ogni forma di solidarietà ha il suo prezzo, dove la demolizione degli spazi abitativi lascia i giovani emotivamente senza casa, fioriscono la violenza, la xenofobia e l'estremismo di destra. Tutto ciò era senza alternative?

Un'introduzione graduale del D-Mark, anche se non così esitante come era accaduto nella Saarland, davvero non sarebbe stata possibile? I tedeschi dell'ovest non furono  nemmeno interpellati, ma i loro esperti erano pienamente consapevoli degli effetti che la frettolosa introduzione del D-Mark avrebbe causato. Il consulente di direzione Roland Berger aveva preparato una perizia nella quale prevedeva quattro milioni di disoccupati e l'intero disastro qui descritto. Ma lo studio era finito in una cassetta di sicurezza.

Perché questo rapporto è stato tenuto segreto? L'unica spiegazione è che delle persone consapevoli dei rischi alla fine avrebbero deciso diversamente. Se fosse stato pubblicato in tempo, non è affatto certo che i partiti che avevano elogiato questo rullo distruttore come un'offerta allettante, e che lo avevano fatto solo per mantenere il loro potere, alla fine sarebbero stati davvero rieletti. Così, questo accordo, che nelle sue promesse economiche non è mai stato mantenuto, era la continuazione di quella "irresponsabilità organizzata" che Rudolf Bahro una volta attribuiva all'economia della DDR.


mercoledì 15 luglio 2020

Per lo ZEW il Recovery fund non aiuterà i paesi colpiti dal coronavirus

Lo scrive lo ZEW di Mannheim, un importante centro di ricerca tedesco, che a pochi giorni dall'ennesimo vertice europeo sul Recovery fund, fa uscire uno studio, commissionato dalle associazioni dei datori di lavoro e rilanciato da Handelsblatt, nel quale esprime sostegno per la posizione dei 4 paesi frugalisti. Per i ricercatori dello ZEW, e per chi ha commissionato lo studio, il Recovery fund non incentiverebbe i paesi a fare le riforme e non sarebbe poi cosi' vantaggioso per Italia, Francia e Spagna. Ne scrive Ruth Berschens su Handelsblatt



Nella disputa sul piano di ricostruzione post-Corona, i Paesi Bassi ricevono un assist dalla Germania: il Leibniz-Zentrum für Europäische Wirtschaftsforschung (ZEW) dopo aver esaminato il piano giunge a un verdetto molto severo: diversamente da quanto sostenuto dalla Commissione Europea, i 750 miliardi di euro del fondo non andranno a vantaggio dei Paesi particolarmente colpiti dalla pandemia.


Lo studio dello ZEW, a disposizione di Handelsblatt, inoltre afferma che il fondo non costituisce un incentivo efficace a fare le riforme nei confronti dei Paesi UE a bassa crescita come è il caso dell'Italia. La ricerca è stata commissionata dall'Iniziativa  della Nuova Economia Sociale di Mercato (Neue Soziale Marktwirtschaft), e finanziata dall'associazione Gesamtmetall e da altre associazioni datoriali di lavoro.

"L'analisi mostra che il Next Generation Fund nella sua funzione di stabilizzatore economico è stato mal costruito", scrive l'esperto dello ZEW Friedrich Heinemann. "Progettato in questo modo, i 750 miliardi di euro di finanziamenti non fornirebbero né un sostegno mirato agli Stati membri particolarmente colpiti dal coronavirus, né sarebbero un impulso significativo per superare il ritardo in termini di riforme dei Paesi a basso potenziale di crescita".

I risultati dei ricercatori dello ZEW sono in linea con le critiche espresse dal gruppo dei 4 paesi frugalisti in merito al pacchetto di aiuti: Paesi Bassi, Austria, Svezia e Danimarca temono infatti che i miliardi del piano di ricostruzione post-Corona piu' che altro vengano utilizzati per colmare i buchi di bilancio senza risolvere i problemi strutturali dei paesi a bassa crescita.

Il primo ministro olandese Mark Rutte e i suoi omologhi in vista del vertice UE di venerdì prossimo, infatti, stanno spingendo in favore di un inasprimento dei requisiti di riforma da applicare ai paesi beneficiari. Chiedono inoltre anche una riduzione delle dimensioni complessive del fondo.

La Commissione aveva proposto, con il sostegno di Francia e Germania, di versare 500 miliardi di euro in sovvenzioni a fondo perduto e 250 miliardi di euro sotto forma di prestiti ai paesi particolarmente colpiti dalla crisi causata dal Coronavirus. I "Quattro paesi frugalisti" non sono d'accordo. Chiedono infatti che ci siano meno sovvenzioni e più prestiti.




I paesi non colpiti saranno quelli a trarne i maggiori benefici

I ricercatori dello ZEW non mettono in discussione il volume del Fondo per la ricostruzione, ma ne mettono in discussione il progetto. Secondo la bozza della Commissione UE, infatti, 310 miliardi di euro verrebbero pagati sotto forma di contributo diretto agli Stati membri.

Per la distribuzione di tale importo, la Commissione utilizza esclusivamente degli indicatori economici risalenti al periodo precedente alla crisi: il reddito pro-capite del paese rispetto alla media UE nel 2019, nonché l'andamento della disoccupazione negli anni dal 2015 al 2019 rispetto alla media UE. "L'effettiva gravità della recessione causata dal coronavirus non avrebbe quindi "alcun ruolo nel vantaggio relativo di un Paese", lamenta Heinemann.

Di conseguenza, i Paesi che non sono stati colpiti dalla crisi, come la Polonia, beneficeranno molto meno del fondo per la ricostruzione. Spagna, Italia e Francia, invece, ne usciranno relativamente svantaggiate, anche se le loro economie, secondo le previsioni dell'UE, dovrebbero crollare di oltre il 10%.

La Commissione UE giustifica la sua azione con il fatto che quando inizierà il programma, ad inizio 2021, non saranno disponibili dati affidabili sul crollo economico causato dal coronavirus. Questo argomento non convince nemmeno il governo tedesco, che infatti ne ha chiesto una correzione e ha trovato ascolto da parte del Presidente del Consiglio dell'UE Charles Michel

Venerdì scorso il belga ha presentato una proposta di compromesso. Secondo tale proposta, i criteri di ripartizione proposti dalla Commissione UE dovrebbero applicarsi solo al 70 % dei pagamenti. Il restante 30% dovrebbe andare ai paesi in cui l'economia subirà la maggiore contrazione nel corso del 2021 e del 2022.

La ZEW si lamenta anche del fatto che una parte del programma di ricostruzione debba andare in favore di voci di bilancio dell'UE che non hanno nulla a che fare con la crisi post-Corona, come i sussidi agricoli per lo sviluppo rurale o il "Just Transition Fund" per ammortizzare i costi del cambiamento climatico. Nel complesso, scrivono, "il modello di sostegno è in gran parte separato dall'impatto economico effettivo causato dalla pandemia".

C'è inoltre un'altra carenza di fondo: si stima che il 75 % del denaro non arriverà prima del 2023 o anche più tardi. La fase di crisi economica acuta, si spera, sarà allora finita da tempo. Anche Michel ha già riconosciuto il problema. Il Presidente del Consiglio UE chiede infatti che la maggior parte dei fondi sia versata nel 2021 e nel 2022. Anche la Germania è favorevole.

La condizionalità degli aiuti è un altro punto delicato del piano di ricostruzione - sia per i "4 frugalisti" che per i ricercatori della ZEW. Secondo lo studio ZEW, infatti, il piano di ricostruzione potrà aumentare il potenziale di crescita dei Paesi beneficiari solo se combinato con "incentivi efficaci a fare delle riforme strutturali".



Raccomandazioni di riforma troppo vaghe

Ma su questo punto ci sono dei forti dubbi. La Commissione vuole subordinare gli aiuti alla condizione che i rispettivi governi tengano conto delle raccomandazioni di riforma di Bruxelles e lo stabiliscano nei piani nazionali di riforma. Ma le raccomandazioni di riforma specifiche dell'UE per i singoli paesi sarebbero formulate in modo troppo vago e quindi non possono "sviluppare una reale pressione in favore del cambiamento".

L'atteggiamento di fondo della Commissione inoltre è che "gli Stati membri non abbiano alcuna responsabilità individuale per la loro situazione economica e sociale" post-Coronavirus. I ricercatori dello ZEW la vedono diversamente: gli Stati che avevano fatto le riforme nei periodi di congiuntura favorevole e attuato delle difficili riforme strutturali si sono trovati meglio attrezzati per affrontare i periodi di crisi.

Pertanto, il modo in cui un Paese riesce ad affrontare una grave crisi economica dipende molto anche dal lavoro fatto in precedenza. Lo ZEW non è d'accordo anche sul fatto che la Commissione voglia dare un sostegno finanziario supplementare ai paesi con un'elevata disoccupazione strutturale. Verrebbero puniti i governi che hanno intrapreso le riforme del mercato del lavoro e ridotto la disoccupazione.

Secondo Heinemann, il programma di ricostruzione potrà raggiungere effettivamente il suo vero obiettivo - una stabilizzazione dei Paesi gravemente colpiti dalla pandemia - solo se i capi di governo "nei prossimi negoziati riusciranno ad eliminare i gravi difetti di progettazione". Nel concreto chiede una revisione dei criteri di distribuzione.

I "criteri ovvii" sono il calo del PIL innescato dalla crisi e l'aumento della disoccupazione in uno Stato membro rispetto alla media UE. Si potrebbe "lavorare inizialmente con le previsioni e gli acconti, i quali saranno poi continuamente adeguati ai dati reali".

Le risorse del fondo per la ricostruzione, inoltre, non dovranno essere utilizzate per la politica agricola o per il fondo per la riconversione climatica. Il denaro necessario per queste voci dovrebbe essere raccolto attraverso tagli ad altre voci di bilancio dell'UE. Saranno inoltre necessari dei "requisiti di riforma più vincolanti".

Anche il primo ministro olandese è d'accordo. Mark Rutte, infatti, chiede che le richieste di aiuto per il Recovery Fund siano strettamente controllate dai ministri delle finanze dell'UE e vengano approvate all'unanimità. Ciò significherebbe che ogni singolo paese potrebbe utilizzare il proprio veto per bloccare il pagamento degli aiuti. Non c'è da aspettarsi che Rutte alla fine prevalga con questa richiesta massimalista: gli europei del Sud non la accetteranno in nessun caso.