Ancora una volta Werner Sinn, con un nuovo commento sulla conservatrice Wirtschaftswoche, ci ricorda il punto di vista tedesco sulla crisi del sud Europa: riducete salari e prezzi e tornerete alla crescita. Ma non eravamo parte di una UNIONE?
Per recuperare competitività i paesi della zona Euro devono diventare più economici. Ma di questo ancora non c'è alcuna traccia. Gli immensi deficit delle partite correnti potrebbero restare invariati - e i miliardi di aiuti finanziari pagati dai contribuenti continueranno a scomparire.
Chi si trova oggi ad analizzare la crisi dell'unione monetaria e vuole valutare le misure di salvataggio, deve confrontarsi con 2 teorie divergenti: la teoria del denaro in vetrina e quella del barile senza fondo. Secondo il primo punto di vista, la politica deve semplicemente raccogliere del denaro nel fondo lussemburghese di salvataggio EFSF.
In questo modo il mercato dei capitali si calma, gli interessi crollano, e i paesi del sud Europa ritornano ad essere solventi. Il denaro dei contribuenti può restare inutilizzato in vetrina. Secondo l'altra teoria, i paesi in crisi nonostante i fondi di salvataggio resteranno cronicamente in deficit, in quanto per loro, la strada verso una svalutazione, a causa dell'Euro, è sbarrata. Una svalutazione interna resta troppo difficile.
La Grecia deve diventare del 37% più economica.
I fondi di salvataggio scompaiono in immensi deficit delle partite correnti (120 miliardi solo nel 2011 fra Italia, Grecia, Portogallo e Spagna) ed eliminano ogni incentivo a mettere un fondo al barile. Il criterio decisivo per decidere fra queste 2 teorie è l'interrogativo, se i paesi in crisi riusciranno a diventare più economici - visto che solo in questo modo la domanda interna ed esterna dei loro prodotti potrà crescere.
Se la Grecia diventasse più economica del 37%, raggiungerebbe gli stessi livelli di prezzo della Turchia. I turisti stranieri tornerebbero nel paese, e i greci la smetterebbero di comprare pomodori olandesi e olio di oliva italiano. Qualsiasi paese, non importa quanto sia produttivo, può diventare competitivio, se è conveniente abbastanza. Per quanto riguarda i prezzi dobbiamo mettere le lancette indietro, in quanto nel sud Europa, a causa dell'Euro, sono cresciuti troppo.
Il credito a buon mercato, arrivato con l'Euro, ha fatto crescere delle bolle inflattive. I paesi GIIPS (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna), misurati con il deflatore del PIL, in confronto ai loro partner commerciali nell'area Euro, dal 1995 (anno in cui l'Euro è stato annunciato in maniera vincolante) fino al 2008 ( anno della crisi Lehman) sono diventati del 30 % più costosi.
Una considerevole parte di questa crescita dei prezzi dovrà essere stornata, perchè il credito non arriva più a queste economie. E fa bene a non arrivare. Purtroppo, per quanto riguarda i prezzi del sud Europa non è successo molto. Mentre l'Irlanda, misurata dal deflatore del Pil, nei 5 anni dal 2006 al 2011 (terzo trimestre di ogni anno) in relazione al resto della zona Euro ha ridotto i prezzi del 15 %, i paesi del sud Europa sono diventati più costosi del 15%.
L'indice dei prezzi greco in questo periodo di tempo è cresciuto del 7%, il doppio di quanto possa essere ricondotto all'aumento dell'IVA da parte del governo. In Italia è cresciuto del 2%, in Portogallo dello 0.6 %, in Spagna dello 0.3 %. Anche durante la crisi non si assiste ad un andamento diverso.
Mentre l'Irlanda dal 2008 al 2011 (rispettivamente il terzo trimestre) è diventata più economica del 9.8 %, la Grecia è diventata più costosa del 2.5 %, Italia del 1.2% e il Portogallo dello 0.5 %. Solo la Spagna ha abbassato il proprio livello dei prezzi dello 0.9 %. Ora Norbert Haering argomenta su Handelsblatt, che il deflatore del PIL sarebbe un indice non adeguato per misurare la competitività di un paese, perchè è fortemente influenzato dai prezzi degli immobili. Bisognerebbe invece orientarsi al costo del lavoro per ogni unità di prodotto.
Il deflatore del PIL è adeguato
L'argomento non regge. Prima di tutto i prezzi delle case non vanno nel deflatore del PIL. Quello che accanto ai prezzi dei beni e servizi finisce in questo indice, sono gli affitti e i prezzi delle nuove costruzioni, ma questi non sono così volatili come i prezzi degli immobili. Secondo, il costo del lavoro per unità di prodotto è definito come la relazione fra costo del lavoro e PIL reale. Dipendono anch'essi dal deflatore del PIL e non offrono nessuna misura dei prezzi diversa da questo.
Terzo, il costo del lavoro per unità di prodotto è rilevante per la competitività, se influenza i prezzi. Una produttività crescente, che con salari invariati conduce a costi per unità di prodotto inferiori, non aumenta la competitività, fino a quando non conduce a prezzi più bassi. Anche le riduzioni dei salari sono irrilevanti, se non conducono ad una riduzione dei prezzi.
Quarto, i costi del lavoro nella maggior parte dei paesi presi in esame sono ulteriormente cresciuti. Dal 2008 al 2011 sono cresciuti del 2.3% in Grecia, in Italia del 4.5 %, in Portogallo dell' 1.8%. Solo la Spagna è riuscita ad ottenere un meno 3.2 %. A parte le buone intenzioni, non c'è ancora nessun segno che i paesi in crisi faranno i compiti per casa loro assegnati. Dobbiamo invece temere che i deficit delle partite correnti restino in queste condizioni ancora a lungo e la crisi di debito del sud Europa si aggravi ulteriormente. E tutto quello che è stato messo in vetrina venga saccheggiato.