Visualizzazione post con etichetta Makroskop. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Makroskop. Mostra tutti i post

domenica 13 agosto 2023

Frank Furedi - Perché non possiamo fare a meno dello Stato nazione

"Checché se ne pensi degli Stati nazionali, al di fuori dei loro confini non può esistere una vita pubblica democratica. Solo in quanto cittadini che interagiscono all'interno di un'unità geograficamente delimitata, il processo decisionale democratico può funzionare ed ottenere risultati significativi" scrive il grande intellettuale e sociologo Frank Furedi in merito all'importanza dei confini nazionali. Una riflessione domenicale di spessore da parte di un grande intellettuale contemporaneo, ne scrive Frank Furedi  su Makroskop.eu



Stiamo andando verso un'Europa senza confini o verso un'Europa delle nazioni?

La società occidentale si è allontanata sia dai confini che dalle limitazioni sociali che da secoli danno un significato all'ambiente umano. Molti commentatori all'interno dell'Unione Europea affermano che i confini sono diventati irrilevanti nell'era della migrazione di massa e della globalizzazione. Alcuni vanno persino oltre, proponendo di eliminare del tutto i confini. E non vengono attaccati solo i confini che separano le nazioni l'una dall'altra.

Le tradizionali distinzioni che separano gli adulti dai bambini, gli uomini dalle donne, gli esseri umani dagli animali, i cittadini dai non cittadini o il privato dal pubblico, vengono sempre più denunciate come arbitrarie, innaturali e ingiuste. La controversia sulla migrazione di massa e sui confini fisici procede di pari passo. È strettamente legata al dibattito sulle distinzioni simboliche di cui le persone hanno bisogno per orientarsi nella vita quotidiana.

In modo paradossale, il tentativo di modificare o abolire i confini tradizionali va di pari passo con l'obbligo di creare nuovi confini. Gli attivisti No-Border chiedono spazi sicuri per i rifugiati, gli oppositori dell'"appropriazione culturale" chiedono controlli sulla lingua, e i sostenitori dell'identità politica si impegnano a separare le minoranze dalla società maggioritaria.

Frank Furedi
Frank Furedi



L'alienazione della società

La società contemporanea, in particolare le sue élite culturali e politiche, faticano a dare un significato alle distinzioni simboliche. Nella letteratura accademica e nelle pagine dei media si enfatizza sempre di più il carattere arbitrario e sfumato dei confini e si mette implicitamente o esplicitamente in discussione il loro status morale e la loro legittimità. Spesso, sotto l'influenza delle teorie postmoderne, in particolare dei lavori del filosofo francese Gilles Deleuze, i confini vengono rappresentati come costruzioni indefinite e artificiali. Ad esempio, si fa riferimento all'artificialità del confine tra Est e Ovest, civilizzato e non civilizzato, o Europa e Asia.


Questa tendenza a vedere i confini - così come altre distinzioni e separazioni fortemente delineate - solo in una luce negativa è diffusa anche nella cultura popolare contemporanea. Questa agenda post-border, o l'identificazione con uno stato fluido che va oltre i confini, vengono presentate come una virtù positiva. Nell'economia, nelle relazioni pubbliche e nella pubblicità, l'entusiasmo per la dimensione "senza confini" è un'espressione di audacia, spirito pionieristico ed esplorazione dell'ignoto.

Sarebbe davvero ispirante se ci fosse un ritorno al concetto illuminista kantiano di cosmopolitismo. Purtroppo, la negazione culturale dei confini è guidata da numerosi impulsi contraddittori. La forza trainante dominante è la paura di assumersi la responsabilità delle distinzioni simboliche e delle chiare delineazioni. E questo si applica sia alla politica che all'educazione dei bambini. Negli ultimi tempi, ad esempio, genitori e insegnanti si sforzano di essere amici dei giovani piuttosto che modelli morali e mentori.

Ovviamente, è difficile contestare l'affermazione secondo la quale i confini sono costruzioni sociali, sia arbitrarie che artificiali. Chiunque guardi una mappa del mondo ne sarà colpito dal suo carattere arbitrario. Molte delle frontiere africane sono tracciate in linee rette e testimoniano la mancanza di immaginazione delle potenze coloniali. Il confine tra un bambino e un adulto viene sempre attraversato dai giovani durante l'adolescenza. Le frontiere tra nazioni sono costantemente messe alla prova da politici, eserciti, fornitori di servizi Internet, aziende, contrabbandieri e migranti. Nessun confine è intoccabile.

Tuttavia, i confini non sono solo costruzioni artificiali. Sono l'espressione fisica o simbolica di un bisogno sociale. Non si può pretendere che a tutti piaccia un certo confine, ma questo mezzo di separazione e distinzione esprime bisogni ed aspettative radicati nella società.

I confini contano



In difesa dei confini

Dato il legame stretto ed evidente tra chiari confini e sovranità nazionale, non sorprende che quest'ultima sia anch'essa diventata un bersaglio di una visione del mondo senza confini. La sovranità nazionale è considerata un'idea superata, che non solo divide le persone e spinge le nazioni l'una contro l'altra, ma che è anche divenuta obsoleta in un mondo globalizzato. Questa critica è accompagnata da una svalutazione della cittadinanza nazionale, che è considerata discriminatoria in quanto non conferisce alle persone che vivono in altre parti del mondo lo stesso status e gli stessi diritti.

La filosofa politica Hannah Arendt, d'altra parte, ha argomentato con forza che "un cittadino è per definizione un membro di una comunità specifica". Ha spiegato che i "doveri di un cittadino devono essere definiti e limitati non solo dai doveri verso i propri simili, ma anche dai confini di un territorio", concludendo:

"La filosofia può immaginare la Terra come patria dell'umanità e come una legge unica, eterna e valida per tutti. La politica, tuttavia, ha a che fare con persone che sono cittadini di molte nazioni ed eredi di molte storie passate: le loro leggi sono le recinzioni costruite positivamente che proteggono e delimitano lo spazio in cui la libertà è una realtà politica viva, non un concetto".



Gli antichi greci e successivamente Arendt usavano la metafora dei muri cittadini per illustrare la delimitazione dello spazio pubblico della Polis. "Un popolo dovrebbe combattere per le leggi della città come se fossero le sue mura", disse Eraclito.

Arendt sviluppò una teoria immaginativa in cui l'emergere dei confini era espresso dal "Nomos", le leggi delle città-stato greche. È solo attraverso la solidificazione dei confini che il Nomos crea le condizioni per uno spazio pubblico e politico duraturo: "La legislazione crea inizialmente uno spazio all'interno del quale è valida e questo spazio è il mondo in cui possiamo muoverci liberamente". In altre parole, la libertà politica e la sua esercitazione non sono pensabili senza l'istituzionalizzazione spaziale della vita pubblica.

Arendt non è stata l'unica filosofa a sottolineare l'importanza della delimitazione territoriale per la prosperità della vita politica. John Locke, insieme a Jean Jacques Rousseau e Immanuel Kant, uno dei fondatori della filosofia liberale, concepì la delimitazione spaziale come base della sovranità politica e requisito per il mantenimento dell'ordine politico.

L'attacco alla sovranità nazionale e allo status della cittadinanza si basa sulla presunta superiorità dei valori universali e umanitari. Tuttavia, l'universalismo diventa una caricatura di se stesso quando si trasforma in una forza metafisica che sta sopra le istituzioni nazionali prevalenti. Il tentativo di deterritorializzare la sovranità e i diritti dei cittadini riducono le persone alle loro caratteristiche individuali più astratte. Proprio come la cittadinanza viene privata del suo contenuto ideale e immateriale, le persone perdono la capacità di pensare e agire come comunità politica.

Per questo motivo, Arendt ha argomentato:

"L'istituzione di uno stato mondiale sovrano non sarebbe affatto una condizione preliminare per una cittadinanza mondiale, ma la fine di ogni la cittadinanza. Non sarebbe l'apice della politica mondiale, ma letteralmente la sua fine."

Tirannia globale

Qualunque sia il motivo per una deterritorializzazione della cittadinanza e un indebolimento della sovranità nazionale, rappresenta una sfida diretta alla democrazia e alla vita pubblica. E checché se ne pensi degli Stati nazionali, al di fuori dei loro confini non può esistere una vita pubblica democratica. Solo come cittadini che interagiscono all'interno di un'unità geograficamente delimitata, il processo decisionale democratico può funzionare ed ottenere risultati significativi.

L'idea del "diritto cosmopolita", sviluppata da Kant nel suo saggio "Per la pace perpetua" (1795), afferma che gli stranieri che entrano nel territorio di uno Stato straniero non devono essere trattati con ostilità. Kant chiamò questa richiesta il "diritto naturale dell'ospitalità". Tuttavia, il concetto kantiano del diritto di ospitalità non implicava il diritto di stabilirsi. E non metteva affatto in discussione la legittimità dei confini territoriali. Kant si opponeva a un mondo senza confini, poiché un governo mondiale porterebbe a una tirannia globale.

Invece, Kant sosteneva un'associazione federale di comunità libere e indipendenti, preferibile a un'unione di nazioni sotto un'unica autorità che prevale sulle altre. La visione di Kant, secondo la quale alle leggi sovranazionali manca la profondità morale necessaria per esercitare l'autorità, ricorda i dibattiti attuali sulla giurisprudenza dell'UE: secondo Kant, infatti, le leggi perdono progressivamente il loro effetto quando il governo allarga la sua sfera d'influenza. La sua visione del cosmopolitismo è quindi fondamentalmente diversa dalla prospettiva dell'attuale cosmopolitismo senza confini.

L'identificazione con le persone nate in un mondo comune è il modo principale in cui la solidarietà interpersonale può acquisire un carattere politico dinamico. Le persone che esercitano i loro diritti di cittadinanza hanno interessi specifici che costituiscono la base della loro solidarietà. Privarli di questi interessi significherebbe compromettere la loro capacità di agire come cittadini consapevoli. E senza cittadini consapevoli, non c'è democrazia. Questa è una lezione che anche l'UE deve imparare.


Per ordinare su Amazon il libro "I Confini Contano" di Frank Furedi puoi utilizzare questo link -->>

Leggi altri articoli sullo Stato Nazione -->>


lunedì 3 aprile 2023

Wolfgang Streeck - Germans to the front!

"La Germania - si ha la sensazione che già da tempo sia stata preparata dagli Stati Uniti per i "valori occidentali", vale a dire per il ruolo di comandante in capo nella parte ucraina della guerra globale. La germanizzazione del conflitto ucraino eviterebbe all'amministrazione Biden di doversi impegnare e di dover chiedere il sostegno dei cinesi per ritirarsi da una guerra che rischia di diventare impopolare a livello nazionalescrive Wolfgang Streeck. Per il grande intellettuale tedesco potrebbe essere proprio la Germania, sotto la pressione americana, a prendere la leadership nella guerra in Ucraina. Ne scrive Wolfgang Streeck su Makroskop.de


Sotto la pressione degli Stati Uniti, il coinvolgimento indiretto della Germania nella guerra in Ucraina potrebbe diventare sempre più diretto - e svilupparsi in modo simile al suo ruolo nella fornitura di armi.

La legge di Hofstadter, diretta discendente della legge di Murphy, è nota sotto questa forma: "Tutto richiede più tempo di quanto si pensasse". L'anno scorso, il signore della guerra russo, Putin, ha avuto modo di conoscerla. Se avesse seguito l'esempio di Trotsky e Mao Zedong e avesse dedicato un po' di tempo alla lettura di Clausewitz, avrebbe potuto risparmiarsi lo shock. Dopo il fallimento della presa di Kiev, che avrebbe dovuto essere completata in una o due settimane, Putin ha dovuto affrontare la spiacevole prospettiva di una guerra di durata indeterminata non solo con Kiev ma anche, in una forma o nell'altra, con gli Stati Uniti, se veramente intende porre fine una volta per tutte al fascismo endogeno e all'occidentalismo esogeno dell'Ucraina.

Pochi mesi dopo, anche l'omologo americano di Putin, Biden, si è dovuto rendere conto di una cosa simile. Non c'era alcuna vittoria ucraina in vista e l'arsenale di sanzioni economiche occidentali contro la Russia e gli amici oligarchi di Putin aveva fatto sorprendentemente pochi danni alla capacità della Russia di resistere nel Donbass e nella penisola di Crimea. Le elezioni di midterm del novembre 2022, inoltre, hanno reso inequivocabilmente chiaro che la disponibilità dell'elettorato americano a finanziare le avventure della squadra Biden-Blinken-Sullivan-Nuland è tutt'altro che illimitata e che l'incombente guerra di logoramento, di cui non si intravede la fine, potrebbe diventare un peso mortale nelle elezioni presidenziali del 2024.

Dal momento che un ritiro come quello dall'Afghanistan, rimasto indimenticabile persino per l'opinione pubblica americana, notoriamente ignara, è fuori questione, e che d'altra parte Putin non ha altra scelta che continuare o affondare, spetta ora a Biden decidere come procedere.



Alternativa 1: "congelamento"

All'inizio di marzo 2023, sembra che gli Stati Uniti si trovino a dover scegliere tra due alternative, e in fretta. La prima è la via d'uscita cinese. Dopo la visita di un giorno di Scholz a Pechino il 4 novembre, la Cina e Xi in persona hanno ripetutamente insistito sul fatto che l'uso di armi nucleari, comprese quelle di natura tattica, deve essere escluso in ogni caso. Per ragioni ben comprensibili, ciò preoccupa la Russia più degli Stati Uniti o dell'Ucraina, date le carenze ormai ampiamente visibili delle forze armate convenzionali russe. Con un bilancio militare di poco superiore a quello della Germania - e che si è presumibilmente dimostrato inadeguato nell'ambito della attuale svolta storica - la Russia, a differenza della Germania, deve mantenere un'arma nucleare con capacità strategiche intercontinentali equivalenti a quelle degli Stati Uniti. Le conseguenze sono state evidenti quando l'esercito russo si è dimostrato incapace di prendere Kiev, che dista solo 300 chilometri dal confine russo-ucraino.

Segnalando alla Russia, che dipende da lei come il suo più vicino e potente alleato, che una risposta nucleare a un'avanzata ucraina armata dagli americani non era auspicabile, la Cina ha fatto un favore importante agli Stati Uniti e alla NATO, così importante che è difficile credere che sia stato concesso senza una contropartita. Ci sono infatti indicazioni che in cambio gli Stati Uniti si siano impegnati a limitare la forza militare dell'Ucraina a un livello che non potesse mettere la Russia in una situazione tale da costringerla a ricorrere alle armi nucleari - tattiche. Il risultato di un tale tacito accordo, se esiste, come sembra probabile, sarebbe un "congelamento" della guerra: uno stallo sulle attuali posizioni territoriali dei due eserciti che potrebbe durare anni.

Se gli Stati Uniti fossero disposti a stare al gioco, questo tipo di diplomazia potrebbe continuare sotto l'egida della Cina. Non è molto lontano da una situazione di stallo o di un cessate il fuoco, e poi forse potrebbe portare a qualcosa di simile a un accordo di pace, anche se si trattasse di una pace disordinata come accadde in Bosnia e in Kosovo. Gli Stati Uniti dovrebbero costringere il governo ucraino a farne parte, cosa che non dovrebbe essere troppo difficile, visto che sono stati loro stessi a nominarlo: "Il Signore ha dato e il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore".

Dal punto di vista americano, tuttavia, un importante difetto di questo tipo di soluzione sarebbe che i cinesi potrebbero aspettarsi concessioni in Asia in cambio dei loro buoni uffici e dell'aiuto alla rielezione di Biden, il che renderebbe più difficile per Biden fare ciò che chiaramente vuole fare dopo l'Ucraina: attaccare la Cina in un modo o nell'altro per evitare quella che nel dibattito strategico statunitense odierno viene definita la "trappola di Tucidide", ossia la necessità per un egemone in carica di attaccare un rivale in ascesa abbastanza presto, quando si puo' essere relativamente ancora sicuri di vincere la guerra.



Alternativa 2: La Germanizzazione

Per quanto la prospettiva di una via d'uscita dal pantano ucraino possa essere allettante, ci sono segnali che indicano che gli Stati Uniti si stanno orientando verso un secondo approccio alternativo che potrebbe essere definito di europeizzazione, o addirittura di germanizzazione della guerra. Ricordiamo la cosiddetta vietnamizzazione della guerra in Vietnam. Alla fine forse non ha funzionato - gli Stati Uniti sono stati sconfitti, non il loro proxy regionale, che non è mai stato altro che un fantoccio americano - ma ha dato respiro agli Stati Uniti e ha permesso alla loro macchina propagandistica di vendere all'opinione pubblica americana la prospettiva di un ritiro onorevole dal campo di battaglia, in cui il massacro sarebbe stato lasciato a un alleato politicamente affidabile e militarmente capace.

Negli anni Sessanta nel Sud-Est asiatico non c'era un alleato di questo tipo, ma nell'Europa del 2020 le cose potrebbero essere diverse. A differenza dell'Afghanistan, gli Stati Uniti potrebbero ritirarsi lentamente dalle attività operative della guerra, supervisionandola invece di guidarla, lasciando il supporto materiale, le decisioni tattiche e la consegna delle brutte notizie al governo ucraino ad un subcomandante locale che potrebbe fungere da capro espiatorio e fustigatore in caso di fallimento.

Chi potrebbe assumersi questo compito? È chiaro che l'Unione Europea non può farlo. E' guidata da un ex ministro della Difesa, ma la sua incompetenza è diventata evidente da quando, grazie al trasferimento a Bruxelles, per un soffio ha evitato un'inchiesta parlamentare sui suoi  fallimenti ministeriali. Ma soprattutto, l'UE non dispone di fondi veri e propri e chi a Bruxelles decide cosa fare con chi è un mistero anche per gli addetti ai lavori, il che porta regolarmente a decisioni lente, poco chiare e prive di responsabilità - non proprio ciò che serve in una guerra.

Il compito non può essere affidato al Regno Unito, che con la Brexit si è sganciato dall'apparato legislativo dell'UE. Il Regno Unito inoltre funge già da comando ausiliario globale per conto degli Stati Uniti nella costruzione di un fronte mondiale contro la Cina. Non è nemmeno in discussione il famoso "tandem" franco-tedesco, che nessuno con certezza può ammettere che sia qualcosa di più di una chimera giornalistica o diplomatica.

Resta la Germania - e in effetti, a posteriori, si ha la sensazione che già da tempo sia stata preparata dagli Stati Uniti per i "valori occidentali" - vale a dire per il ruolo di comandante in capo nella parte ucraina della guerra globale. La germanizzazione del conflitto ucraino eviterebbe all'amministrazione Biden di doversi impegnare e di dover chiedere il sostegno dei cinesi per ritirarsi da una guerra che rischia di diventare impopolare a livello nazionale. Gli sforzi americani per utilizzare la Germania come proxy europeo possono attingere all'eredità della Seconda guerra mondiale, vale a dire una forte presenza militare statunitense nel paese, ancora basata sulle rivendicazioni legali che risalgono alla resa incondizionata della Germania nel 1945.



Attualmente sono circa 35.000 i soldati americani di stanza in Germania, con 25.000 familiari e 17.000 civili, più di qualsiasi altra parte del mondo ad eccezione, presumibilmente, di Okinawa. In tutto il Paese, gli Stati Uniti mantengono 181 basi militari, le più grandi delle quali sono Ramstein in Renania-Palatinato e Grafenwoehr in Baviera. Ramstein ha avuto  il ruolo di quartier generale operativo nella cosiddetta "guerra al terrore" - tra l'altro da li' vengono coordinati i voli navetta per i prigionieri di tutto il mondo verso Guantanamo - ed è tuttora il posto di comando per tutti gli interventi americani in Medio Oriente. Infine, le basi americane in Germania ospitano un numero imprecisato di testate nucleari, alcune delle quali possono essere lanciate dall'aviazione tedesca con cacciabombardieri certificati dagli Stati Uniti (nell'ambito della cosiddetta "condivisione nucleare") verso obiettivi specificati dagli USA.

Nel dopoguerra, i governi tedeschi, infatti, hanno ripetutamente cercato di sviluppare una propria politica di sicurezza nazionale - come la politica di distensione di Willy Brandt, guardata con sospetto da Nixon e Kissinger; c'è stato poi il rifiuto di Schröder, insieme a Chirac, di unirsi alla "coalizione dei volenterosi" nella fallita ricerca di armi di distruzione di massa in Iraq; Il veto posto da Merkel nel 2008, insieme a Sarkozy, all'ammissione dell'Ucraina e della Georgia alla NATO; il tentativo di Merkel, insieme a Hollande, di mediare un qualche tipo di accordo tra Russia e Ucraina, culminato negli accordi di Minsk I e II; e l'ostinato rifiuto di Merkel di prendere sul serio l'obiettivo della NATO di un bilancio della difesa pari al due per cento del prodotto nazionale.

Nel 2022, tuttavia, il declino del Partito Socialdemocratico e l'ascesa dei Verdi hanno  definitivamente indebolito la capacità e la volontà della Germania di lottare per un minimo di autonomia strategica. Ciò si è resto evidente due giorni dopo l'inizio della guerra nel discorso di svolta di Scholz al Bundestag, di fatto una promessa fatta agli Stati Uniti che l'insubordinazione in stile Brandt, Schröder e Merkel non si sarebbe ripetuta.



Una prova dopo l'altra

Scholz forse sperava che il fondo speciale da 100 miliardi di euro, destinato a riarmare la Bundeswehr, fatto con del nuovo debito e invisibile nei normali conti di bilancio, avrebbe placato qualsiasi sospetto di disobbedienza tedesca. Invece, il primo anno di guerra in Ucraina ha visto una serie di test, concepiti e condotti dagli esperti statunitensi di governance globale per esplorare la reale profondità della conversione della Germania: dal pacifismo postbellico all'occidentalismo anglo-americano. Quando, poche settimane dopo il discorso della svolta, gli osservatori scettici hanno notato che nessuno dei 100 miliardi di euro di denaro fresco fosse stato ancora speso - una situazione che perdura tuttora - per il governo tedesco non è stato sufficiente sottolineare che le nuove attrezzature dovranno essere prima ordinate, poi pagate e che prima di essere ordinate devono anche essere selezionate. Per dimostrare la sua buona volontà, la Germania si è quindi affrettata a firmare un contratto per 35 aerei F-35 - con il governo americano e non, come ci si sarebbe potuti aspettare, con i produttori Lockheed Martin e Northrop Grumman. L'aereo, da tempo oggetto del desiderio del ministro degli Esteri verde, dovrà sostituire la flotta di Tornado, presumibilmente obsoleta che la Germania mantiene per la sua condivisione nucleare. Per una cifra stimata in otto miliardi di dollari, comprese le riparazioni e la manutenzione, gli aerei dovrebbero essere consegnati verso la fine del decennio con un contratto che sorprendentemente dà al governo americano il diritto di ritoccare unilateralmente il prezzo verso l'alto se dovesse ritenerlo opportuno.



Alla fine l'accordo sugli F-35 non ha dato ai tedeschi altro che una breve tregua. Mentre i lobbisti tedeschi e di altri Paesi e le forze armate discutevano su come spendere al meglio il resto del fondo speciale, Scholz, per placare l'impazienza americana, ha licenziato il ministro della Difesa, un politico SPD di lungo corso che era stato nominato contro la sua volontà, a quanto pare per soddisfare una presunta esigenza generale di parità di genere nel gabinetto federale. Poco prima che se ne andasse, uno dei suoi potenziali successori come garante della Bundeswehr ha chiesto un aumento del fondo speciale da 100 miliardi a 300 miliardi. Pochi giorni dopo, l'incarico è passato ad un altro uomo della SPD, all'epoca ministro degli Interni della Bassa Sassonia, che non ha alcuna esperienza militare, ma che emana qualcosa di simile a una competenza gestionale completa. Uno dei suoi primi atti in carica è stato quello di risolvere un'ambiguità fino ad allora accuratamente coltivata nel discorso della svolta, ovvero se i 100 miliardi dovevano essere utilizzati per aumentare il bilancio regolare della difesa fino alla soglia del due per cento fissato dalla NATO o se dovessero essere aggiunti a quel due per cento come una sorta di punizione per i fallimenti del passato.

Secondo il nuovo uomo, Pistorius, era quest'ultimo lo scenario da prendere in considerazione - il che per lui significava che la spesa per la difesa sarebbe dovuta aumentare di 10 miliardi di euro all'anno per diversi anni, in aggiunta e indipendentemente dalla spesa del fondo speciale. Quando l'allora Segretario Generale della NATO Stoltenberg, che sta per diventare capo della Banca Centrale Norvegese - una posizione di prestigio ma simbolica, se mai ce ne fosse stata una - ha fatto sapere che d'ora in poi il 2% deve essere considerato il minimo da superare, Pistorius è stato uno dei primi ad acconsentire pubblicamente.

Il test successivo, nel settembre 2022, è stata la distruzione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 da parte di un commando americano-norvegese, come riportato da Seymour Hersh. In questo caso, il compito del governo tedesco è stato proprio quello di fingere di non sapere chi fosse stato, di mantenere un generale silenzio sull'evento e di far sì che la stampa tedesca facesse lo stesso o dicesse al pubblico che era stato "Putin". La prova è stata superata a pieni voti. Quando, poche settimane dopo l'incidente, una deputata al Bundestag della Linke - l'unica su 736 membri - ha chiesto al governo cosa sapesse in merito, le è stato risposto che per motivi di "interesse supremo dello Stato" non era possibile rispondere a tali domande né ora né in futuro. Il giorno dopo che Hersh ha reso pubbliche le sue scoperte, la Frankfurter Allgemeine titolava: "Cremlino: gli USA hanno danneggiato gli oleodotti".

„Stand with Ukraine!“

Un'altra prova di lealtà durata a lungo, parallelamente alla battaglia sul bilancio, ha riguardato la fornitura di armi e munizioni all'esercito ucraino. Dal 2014, infatti, l'Ucraina è il Paese industrializzato con l'aumento annuale del budget per la difesa di gran lunga più elevato, spese militari pagate non dai suoi oligarchi ma dagli Stati Uniti, che di fatto puntavano alla cosiddetta "interoperabilità" tra l'esercito ucraino e la NATO (da raggiungere entro il  2020, secondo le cifre ufficiali). Mentre questo deve essere stato un motivo di preoccupazione per i generali russi - che ovviamente sapevano del declino delle loro forze convenzionali dopo la decisione di Putin di tenere il passo con la modernizzazione delle forze nucleari americane - ai Paesi della NATO è stato chiesto fin dal primo giorno dell'attacco russo di inviare armi all'Ucraina, sempre di piu' e in numero sempre maggiore.

Quando è diventato chiaro che l'Ucraina non sarebbe stata in grado di sostenersi senza un costante aiuto materiale da parte del risorgente Occidente, gli Stati Uniti hanno insistito affinché i Paesi europei si facessero carico di una quota crescente dell'onere, compresi e soprattutto quei paesi colpevoli di aver trascurato i propri eserciti, in particolare la Germania.

Ben presto, però, è apparso a tutti chiaro che gli eserciti nazionali non erano affatto entusiasti di dover consegnare all'Ucraina alcuni dei loro equipaggiamenti più preziosi, che, secondo loro, avrebbero compromesso la capacità di difendere il proprio Paese. Alla base della loro riluttanza, infatti, potrebbe esserci il timore che quanto consegnato agli ucraini sarebbe caduto nelle mani del nemico, venisse irrimediabilmente danneggiato sul campo di battaglia o fosse venduto sul mercato nero internazionale, senza poter sperare di riaverlo indietro, anche se formalmente solo in prestito. Un'altra preoccupazione riguarda le prospettive di riarmo da parte dei governi nazionali quando la guerra sarà terminata e l'Ucraina sarà stata ricostruita dall'"Europa", meglio che mai, come Ursula von der Leyen da Bruxelles non si stanca mai di ripetere.



C'erano anche timori, tipicamente espressi da alti ufficiali militari in pensione, che i Paesi europei sarebbero stati trascinati in una guerra la cui guida e gli obiettivi sarebbero stati definiti dagli ucraini, come richiesto dagli Stati Uniti e dall'opinione pubblica. Non ultimo, sembra esserci il timore che, se la guerra dovesse finire bruscamente, l'Ucraina avrebbe l'esercito di terra più grande e meglio equipaggiato d'Europa.

Ancora una volta è stata la Germania, di gran lunga il più importante Paese dell'Europa occidentale, a dover dimostrare più di ogni altro la sua volontà di stare dalla parte dell'Ucraina ("Stand with Ukraine!") sotto gli occhi attenti degli Stati Uniti e dei media internazionali. Inizialmente, l'allora Ministro della Difesa tedesco aveva offerto 5.000 elmetti e gilet antiproiettile come sostegno alle forze armate ucraine, cosa che è stata considerata come ridicola dagli alleati e sempre di più dalla loro stessa opinione pubblica. Nei mesi successivi sono state richieste e consegnate armi sempre più potenti, tra cui un missile antiaereo come l'Iris-T, che non ha nemmeno raggiunto le truppe tedesche, e il potente obice semovente 2000. Ogni volta, il governo Scholz ha inizialmente tracciato una linea rossa, per poi oltrepassarla sotto la pressione dei suoi alleati e dei due partner minori della coalizione, i Verdi e i Liberali - i Verdi controllano il ministero degli Esteri, la FDP la commissione Difesa del Bundestag, presieduta da un membro della FDP di Düsseldorf, sede della Rheinmetall, uno dei maggiori produttori di armi in Europa e non solo.

Nell'inverno del 2022, il dibattito sul riarmo dell'Ucraina invece ha iniziato a concentrarsi sui carri armati. Anche in questo caso la Germania doveva essere spinta passo dopo passo verso modelli sempre più potenti, a partire dai veicoli da combattimento per la fanteria - i veicoli corazzati per il trasporto del personale - fino al famoso carro armato tedesco Leopard 2, un successo mondiale da esportazione costruito da un consorzio guidato  appunto da Rheinmetall (circa 3.600 Leopard 2 della linea più avanzata 2A5-plus sono stati venduti in tutto il mondo, fra gli altri anche a ferventi sostenitori dei valori occidentali come l'Arabia Saudita sotto forma di ringraziamento per la sua instancabile opera di pacificazione dello Yemen).

In parte perché i carri armati tedeschi hanno un ruolo importante nella memoria storica russa, ma anche perché non c'era alcuna indicazione sul fatto che la Germania avrebbe avuto voce in capitolo sull'uso dei suoi carri armati (dal confine ucraino a Mosca non ci sono più di 500 chilometri), Scholz dapprima ha fornito, come di consueto, una serie di motivi per cui purtroppo non sarebbe stato possibile consegnare i Leopard 2. In risposta, alcuni alleati della Germania, in particolare Polonia, Paesi Bassi e Portogallo, hanno fatto sapere di essere pronti a regalare i loro Leopard anche se la Germania non lo avesse fatto. La Polonia ha persino annunciato che avrebbe inviato alcuni dei suoi Leopard all'Ucraina, se necessario, e senza il permesso tedesco, come del resto sarebbe stato legalmente richiesto dalle disposizioni tedesche in merito alla politica di esportazione di armi della Germania.

Il prosieguo di questa storia potrebbe essere stato determinante per l'ulteriore corso degli eventi. Messa alle strette dai suoi alleati europei, la Germania non si è piu' rifiutata di fornire carri armati Leopard all'Ucraina, a condizione che anche gli Stati Uniti accettassero di fornire il loro carro armato principale M1 Abrams (un altro successo di esportazione globale con una produzione totale fino ad oggi di 9.000 unità). Come "primo passo" la Germania ha promesso di trasferire 14 dei suoi 320 carri armati Leopard all'Ucraina entro tre mesi, dove secondo i calcoli tedeschi tali carri armati avrebbero formato un reggimento di carri. In seguito, la Germania avrebbe costruito due battaglioni composti ciascuno da 44 carri armati Leopard- 2 , utilizzando i propri carri armati e quelli forniti dai partner europei, in modo da poterli consegnare all'esercito ucraino pronti per il combattimento, dopo aver addestrato gli equipaggi e aver incluso i pezzi di ricambio e le munizioni necessarie. (Secondo le stime degli immancabili "esperti", l'Ucraina avrebbe bisogno di circa 100 Leopard dell'ultimo modello per migliorare significativamente la sua capacità di difesa).



Poco dopo, però, in occasione della cosiddetta Conferenza sulla sicurezza di Monaco, si sono verificati due spiacevoli sorprese. In primo luogo, si è scoperto che dopo aver superato la resistenza tedesca, gli alleati europei della Germania si sono accorti di ogni possibile ragione per cui si devono tenere i loro Leopard, con o senza licenza di esportazione, con il risultato che hanno dovuto lasciare la fornitura di carri armati da combattimento essenzialmente ai tedeschi, con loro grande rammarico. (In totale, le forze NATO dispongono di circa 2.100 Leopard, dei modelli 1 e 2). In secondo luogo, i giornalisti investigativi americani, sul Wall Street Journal e altrove, hanno rivelato che i carri armati Abrams non sarebbero apparsi sulla scena del conflitto per alcuni anni, se non addirittura per nulla, un fatto apparentemente trascurato dai negoziatori tedeschi, forse su richiesta dei loro interlocutori americani.

Alla fine, quindi, il governo Scholz è stato lasciato solo, essendo sostanzialmente l'unico fornitore di carri armati a Kiev. A rendere la situazione ancora più imbarazzante è stato il fatto che il giorno stesso in cui i tedeschi hanno accettato l'accordo sui Leopard, il governo ucraino ha dichiarato che la prossima voce nella sua lista dei desideri sarebbe stata la consegna di jet da combattimento, sottomarini e navi da guerra, senza i quali l'Ucraina non avrebbe avuto alcuna speranza di vincere la guerra come concordato con i suoi alleati. (L'ambasciatore ucraino di lunga data in Germania, tornato a Kiev come vice ministro degli Esteri, ha twittato in inglese il 24 gennaio: "Alleluia! Gesù Cristo! Ora, cari alleati, formiamo una potente coalizione di caccia per l'Ucraina, con jet F-16 e F-35, Eurofighter e Tornado, Rafale e Gripen e tutto ciò che potete fornire per salvare l'Ucraina!) Inoltre, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco la delegazione ucraina ha chiesto pubblicamente agli Stati Uniti e al Regno Unito bombe a grappolo e al fosforo, che sono fuori legge secondo il diritto internazionale ma, come gli ucraini hanno fatto sapere al mondo, sono stoccate in gran numero dai loro alleati occidentali. (La FAZ, sempre attenta a non confondere i suoi lettori, nel suo racconto ha definito le bombe a grappolo "controverse" piuttosto che illegali).


(Fine prima parte)





mercoledì 3 marzo 2021

Perché l'esportismo tedesco resta un pericolo per la democrazia

Il giornalista e scrittore tedesco Herbert Storn ci spiega i pericoli di un modello di crescita tutto basato sull'export e sull'avanzo commerciale con l'estero, come quello tedesco.  Una riflessione molto interessante sugli effetti della politica del "Germany First" di Herbert Storn, da Makroskop.de



È indiscutibile che il modello fondato sul surplus commerciale con l'estero si basi sull'idea della concorrenza - qualcuno vince a spese di qualcun'altro (beggar-my-neighbour). E qui non sono di nessun aiuto le argomentazioni di teoria economica sul libero scambio come elemento di sviluppo per tutti i "partner" coinvolti e non serve a nulla ripetere a mo' di preghiera la possibilità di un "win-win" reciproco.

Alla base dei valori della democrazia, tuttavia, ci sono la cooperazione, il consenso e la protezione delle minoranze. Il solo esercizio verbale di questi concetti  purtroppo non è sufficiente!

Questa contraddizione fondamentale è aggravata dall'aggressività che accompagna la concorrenza di tipo capitalista con la tipica lotta sui prezzi, il dumping salariale, le acquisizioni, l'outsourcing, i licenziamenti dei dipendenti e la formazione dei monopoli.

Anche il MEMORANDUM ha ripetutamente criticato l'aggressiva politica commerciale portata avanti per molti anni dalla Germania, considerandola responsabile del rafforzamento delle forze e dei partiti antidemocratici in Europa, e in Germania di AfD (Memo 2018): se l'economia interna continua a trasferire reddito dal lavoro al capitale e lo Stato è incatenato da una controproducente politica di freno all'indebitamento, questa situazione contribuirà ad una ulteriore divisione economica e politica.

Queste fondamentali contraddizioni del modello basato sul surplus commerciale mettono continuamente in discussione l'approvazione della popolazione nei confronti di questo tipo di politica. Le contraddizioni devono quindi essere nascoste oppure essere negate attraverso la tipica ideologia di "autodifesa" come ad esempio:

- Il nostro modello di crescita e stile di vita sarà sostenibile solo se restiamo i migliori!

- Se vogliamo mantenere il nostro modello di stato sociale, a livello internazionale dobbiamo essere davanti a tutti!" 

In questo modo non è possibile sviluppare e comunicare alcuna strategia. Le alternative basate sulla solidarietà hanno poche possibilità, a dominare sono la concorrenza e l'ipocrisia. Nel frattempo, però, i lavoratori di interi settori vivono e guadagnano al di sotto del livello che sarebbe loro possibile se solo il modello fondato sul surplus delle esportazioni venisse messo in discussione e sostituito da una strategia equilibrata maggiormente orientata alla domanda interna, in linea con la legge della stabilità.

Ma se la competitività aziendale diventa la misura principale dell'efficacia politica, allora diventa anche chiaro quali dovrebbero essere le priorità dei governi federali e statali. Ed è qui che bisognerebbe utilizzare il ritorno sul capitale come metrica. Il rendimento medio sul patrimonio netto delle aziende tedesche nel periodo dal 2005 al 2016, infatti, è stato del 23,2% prima delle tasse, e del 18,2% dopo le tasse.

In un tale quadro, i rendimenti del 25 % richiesti in maniera magniloquente nel 2009 dall'allora capo della Deutsche Bank, Josef Ackermann, potevano essere addirittura comprensibili. Ma tali rendimenti possono essere raggiunti solo con una politica aziendale corrispondentemente aggressiva a spese della collettività, il che in democrazia può portare rapidamente a dei disordini.

Il danno collaterale di una cosiddetta politica di Germany First è che per essere attuata richiede somme di denaro sostanziali che mancheranno altrove. Tutto ciò si riflette in infrastrutture trascurate, in tagli massicci fra i dipendenti dello stato fino alle sue istituzioni di controllo, in un sistema scolastico trascurato (evidente nella crisi causata dal Coronavirus, non ultimo nelle attrezzature informatiche), in ospedali dove mancano 100.000 infermieri e in una politica fiscale e sociale che coccola le aziende e discrimina i beneficiari di Hartz IV, solo per evidenziare alcuni punti salienti.

In Germania, l'antica fissazione sugli avanzi commerciali è aggravata da una seconda fissazione ideologica, vale a dire l'opinione che il settore privato possa "fare" meglio dello stato, spingendo il governo addirittura a sostenere la massima "il privato prima dello stato". (...)

Nel 2011 nella Costituzione dell'Assia è stato addirittura aggiunto un ulteriore "divieto di indebitamento", vale a dire una ulteriore leva per lo snellimento automatico dello Stato tramite lo strangolamento dei margini di bilancio. E' del fondatore della Fondazione Bertelsmann, Reinhard Mohn, la famosa frase secondo cui sarebbe una benedizione se lo stato finisse i soldi. Cosi', Arvato, la controllata di Bertelsmann potrà prendere il suo posto e persino arrivare a guadagnare dei soldi esercitando alcune funzioni dello stato.

Ma quanto piu' si privatizza, tanto meno saranno gli argomenti su cui è possibile decidere democraticamente!

I principali sostenitori di questa strategia sono la CDU e la FDP. Ma anche i Verdi, sin dalla loro fondazione nel 1980 hanno sempre di più abbandonato le loro rivendicazioni sociali - uno dei loro quattro obiettivi originali (ecologia, sociale, democrazia di base e non violenza) - in favore di uno scetticismo di fondo nei confronti dello stato. Non è una coincidenza che la CDU e i Verdi nel Baden-Württemberg e nell'Assia stiano così bene insieme. Con la SPD, lo stato avrebbe avuto un maggiore peso programmatico, ma questo peso viene impiegato per rafforzare l'economia tedesca.

La Germania in questo modo ha un consenso quadripartititico che individua la sua missione nel rafforzamento della competitività delle imprese tedesche sui mercati mondiali. Gli elettori possono solo scegliere fra accettare questo modello oppure essere ignorati. A fare in modo che ciò accada, ci penseranno i media.


Ma a rendere difficile l'influenza dell'elettorato sulla politica c'è anche qualcos'altro.

Se lo Stato e le grandi aziende sono unite dall'obiettivo condiviso della competitività globale, allora non ci sarà davvero bisogno del classico lobbismo. In questo caso, infatti, l'incastro fra il personale è appropriato e utile. Il veicolo comune per tutto ciò è noto come effetto delle porte girevoli, vale a dire il passaggio di personale da funzioni statali di primo piano al (lobbismo) per le aziende e viceversa. Gli esempi sono leggendari; il più recente e prominente può essere quello di Mario Draghi, passato dalla Banca Mondiale al Ministero delle Finanze italiano, poi a Goldmann Sachs, poi alla Banca Centrale Italiana, alla BCE, e ora alla carica di primo ministro italiano.

Poiché l'effetto delle porte girevoli non è sufficiente per servire nel dettaglio i multiformi interessi delle aziende, i politici eletti hanno bisogno anche di consiglieri. Ma coloro che potrebbero fornire una visione controversa e scelte alternative per il bene comune, si trovano invece di fronte ad un esercito di generalisti e specialisti molto preparati.

Per il ruolo di "consulenti" la maggior parte delle persone tende a immaginarsi degli individui o dei piccoli uffici. In realtà si tratta di grandi multinazionali che massimizzano il profitto e sono anche specializzate in vari campi di attività: le agenzie di rating, gli studi di contabilità, gli studi legali e i consulenti di gestione.

Nel complesso, il loro numero di dipendenti raggiunge probabilmente i due milioni. Il nuovo segretario generale della CDU, Paul Ziemiak, in passato ha lavorato per la società di revisione Pricewaterhouse Coopers. Il senatore alle finanze di Berlino Matthias Kollatz, della SPD, in precedenza ne era stato un consulente senior. L'amministratore delegato Stefanie Frensch dell'azienda statale berlinese per la costruzione di alloggi Howoge è arrivata da Ernst & Young Real Estate GmbH per poi passare a una società immobiliare privata. Il suo successore Ulrich Schiller proviene dalla società di edilizia privata Vonovia, prima della quale era stato amministratore delegato per il predecessore di Vonovia, Deutsche Annington.

Questi sono solo alcuni degli esempi che dimostrano quanto sia naturale cambiare carriera passando da aziende orientate al profitto ad aziende pubbliche che invece dovrebbero esssere maggiormente impegnate nel perseguimento del bene comune, e viceversa. Werner Rügemer ha aggiornato un'altra volta il ruolo di cerniera tra le strategie aziendali e la politica nel suo libro "I capitalisti del XXI secolo". Egli definisce il coordinamento degli interessi dei capitalisti con quelli della politica "l'esercito privato del capitale transatlantico":

"Il loro staff è composto da professionisti laureati e ben retribuiti, provenienti dalle più prestigiose università private e pubbliche e dalle business school, addestrati ad avere un'immagine elitaria di sé. Sono gli attori di uno stato che nelle principali democrazie occidentali capitaliste è ormai ampiamente privatizzato ".

E anche la Corte dei conti federale afferma che il permanente ricorso da parte dello Stato a delle società di consulenza esterna aumenta il rischio legato al controllo delle attività e porta ad una perdita della capacità di controllare la società da parte della politica. Non è la politica a sostenere le aziende, ma sono le aziende stesse che fanno politica e spesso presentano ai politici il fatto compiuto.

Rudolf Hickel del gruppo di lavoro „Alternative Wirtschaftspolitik“ ha descritto i rappresentanti eletti dal popolo come dei "nani del sistema capitalista". Harald Schumann nel 2016 ha parlato di capitolazione della classe politica. Aveva capito che sono proprio i ricchi e i loro fiduciari alla guida delle grandi aziende che possono influenzare l'opinione pubblica in modo molto significativo. Perché non solo hanno gli investimenti, ma anche i mezzi per creare il giusto clima sociale.

Del resto la questione è stata sottolineata anche dal cabaret politico: "La democrazia arriva dal popolo. Ma per andare dove?".

giovedì 25 febbraio 2021

Draghi il Salvatore, ovvero l'ultima carta dell'UE

"L'Italia resta un vulcano socio-politico, sia per le élite italiane che per l'UE. Non solo Berlusconi, Monti e Renzi ne sono usciti bruciati - ma nemmeno il mago Draghi sarà in grado di spegnere questo fuoco. (...) Da lui ci si aspetta un colpo di stato istituzionale nella breve finestra di opportunità data dalla temporanea crisi del populismo, una manovra in grado di limitare le fondamenta della democrazia parlamentare" scrive il grande intellettuale austriaco Wilhelm Langthaler. Per Langtahler "In Italia è in corso una grande lotta di classe, l'atto finale di una tragedia iniziata con la famigerata Tangentopoli", da Makroskop.de una riflessione molto interessante del grande intellettuale austriaco Wilhelm Langthaler. 



Prologo: tutto è iniziato con Maastricht. Con la svolta fra il 1989 e il 1991, e con quella grande trasformazione della politica economica che avrebbe portato alla firma del Trattato di Maastricht. L'Italia sarà il paese dell'UE che nel corso degli anni più di tutti subirà le conseguenze politiche ed economiche del trattato.

Il crollo del consenso sociale nello stivale è il prezzo che l'Italia ha dovuto pagare per tutto ciò. E già l'era Berlusconi poteva essere considerata una forma di populismo borghese di destra che cercava di mascherare questo crollo: l'Italia era sotto la curatela del Fondo Monetario Internazionale e aveva perso la propria sovranità fiscale.

Cosa tutto cio' potesse significare in concreto, Berlusconi lo aveva già capito quando ha esitato ad attuare la politica di austerità che un po' tutte le parti gli stavano chiedendo ed è quindi incorso nell'ira delle istituzioni europee. L'UE, la BCE e "i mercati", che stavano mostrando il pollice verso al paese richiedendo dei premi al rischio sempre più alti sui titoli di stato italiani, nel 2011 con una sorta di colpo di stato costituzionale hanno messo bruscamente fine al suo governo. Il presidente Giorgio Napolitano, con l'appoggio dell'UE, infatti, già dal 2008 stava lavorando alla caduta del governo Berlusconi e dopo le sue dimissioni quasi forzate, ha messo al suo posto l'eurocrate e banchiere Mario Monti. Il suo governo "tecnico" ha ulteriormente radicalizzato l'austerità neoliberista a cui il paese era stato sottoposto sin dagli anni '90, fino a quando poi non è stato seguito dal governo del blairiano di sinistra Matteo Renzi.

In un certo senso Renzi è l'anello mancante, il collegamento tra il passato e il presente. Perché quello che non è riuscito ad ottenere con il suo referendum costituzionale del 2016, ora dovrebbe riuscire a farlo Mario Draghi - cioè una ristrutturazione della Repubblica conforme all'UE - al quale Renzi ha spianato la strada.


Dopo il fallimento del referendum di Renzi, la sua stella si è eclissata con la stessa rapidità con cui era nata. Renzi ancora una volta avrebbe voluto svolgere il suo ruolo di Kingmaker, ma temporaneamente c'è stato un interludio di populismo cresciuto all'esterno del sistema, il che spiega gli attuali sentimenti delle élite nei confronti di Draghi. Con un terzo dei voti, i Cinque Stelle in un colpo solo nel 2018 sono diventati il centro del sistema politico esercitando una chiara opposizione al regime UE. Spinti dalla pressione della strada, erano riusciti a far uscire la Lega dall'alleanza di destra dando vita a quello che in Italia era stato chiamato il governo sovranista.

Ancora una volta il Presidente era intervenuto in violazione della Costituzione parlamentare smontando i vertici del governo anti-UE. Invece di Paolo Savona, come previsto, il primo ministro Giuseppe Conte aveva lasciato che Sergio Mattarella gli dettasse per il Ministero dell'economia il nome dell'economista Giovanna Tria, considerato uno strumento al servizio delle élite dell'UE. Così, dopo che i Cinque stelle si sono visti tarpare le ali e non sono riusciti a mettere in piedi le riforme sociali progressiste che avevano promesso, è iniziata la fulminea ascesa del populismo di destra della Lega di Matteo Salvini. Dopo poco più di un anno Salvini ha pensato di poter rovesciare Conte, di fatto però ha aperto la strada a un governo social-liberale, il Conte II - con la partecipazione di Renzi.

La ristrutturazione delle istituzioni

Quanto recentemente fatto da Renzi per rovesciare il secondo governo Conte ha poca rilevanza. C'era solo una cosa su cui le élite erano ampiamente d'accordo: niente nuove elezioni. Già si stava diffondendo l'odore del vecchio bipolarismo, la cui legge non scritta avrebbe previsto un'altra coalizione di destra. Ma il Quirinale non è stato al gioco, e ancora una volta il presidente Mattarella ha agito come un distruttore della Costituzione, invece che come un suo difensore.

L'intervento costante del Presidente chiarisce qual'è la strada che Renzi già nel 2016 avrebbe voluto percorrere: il presidenzialismo come risposta alla crisi della democrazia e della sovranità iniziata al più tardi con la crisi finanziaria. Da decenni, infatti, le élite sono alle prese con la ristrutturazione autoritaria delle istituzioni. La Costituzione progressista del 1948 è una spina nel fianco perché rende difficile l'attuazione tecnocratica degli orientamenti neoliberali dell'UE. La ristrutturazione sembra essere lo strumento per rendere permanente la ritirata della democrazia italiana.

Questo percorso fornisce una duplice salvaguardia: da un lato terrebbe sotto controllo il costante battibecco all'interno delle élite, e dall'altro, terrebbe permanentemente lontana dalle istituzioni l'opposizione latente del popolo .

In Francia, questo sistema ha funzionato discretamente bene per almeno mezzo secolo. Le regolari esplosioni di rabbia in strada finora sono state soppresse con successo dalla polizia, senza mai riuscire ad entrare nella sfera politica. Ma l'Italia non è la Francia.


Arriva Draghi

Già da alcuni anni le élite del paese si erano tenute pronte Mario Draghi come asso nella manica. All'inizio si pensava di offrirgli il posto da Presidente della Repubblica, che dovrà essere rinnovato nel 2022. Ora però Draghi è necessario in un'altra posizione, perché il sistema del bipolarismo sembra aver perso ogni efficacia, come del resto è accaduto con i numerosi interventi di chirurgia estetica di Berlusconi che non sono mai riusciti a ringiovanirlo. Con il Centrodestra al governo (coalizione liberale di destra) la prevedibile crisi politico-sociale nel dopo Coronavirus sarebbe stata difficile da gestire. Per questo sono necessarie altre armi. Qual è dunque la funzione del governo di tutti i partiti di Draghi?

In primo luogo, in questo momento il populismo di destra e di sinistra è in grande difficoltà. C'è un'opportunità storica per riassorbirlo. Se si riuscirà a farlo resta una questione aperta, ma se lo si può fare, questo probabilmente è il momento giusto per farlo. In ogni caso, il populismo attualmente sembra essere stato decapitato e l'operazione tecnocratica potrebbe rivelarsi vincente se si riuscisse a impedire l'emergere di una nuova articolazione politica, almeno per un certo periodo di tempo.

In secondo luogo, la stessa vita e la carriera di Draghi promettono ciò che i suoi sostenitori sperano: un europeo dichiarato, anzi per certi aspetti il proconsole dell'UE, l'incarnazione di un eurocrate che torna a casa per ripulirla e salvarla. Alla luce dell'opposizione manifesta e del rifiuto dei dettami neoliberisti dell'UE, il sostegno parlamentare e mediatico di cui sembra godere Draghi può essere considerato piu' che straordinario. E questo permetterà persino una certa popolarizzazione del governo in ampi settori dell'opinione pubblica - sempre che si possa evitare l'emergere di una forte opposizione.


Nessun Monti 2.0 - il programma di Draghi

In altre parole Draghi dovrà affrontare un compito erculeo. Potrà farcela? Una cosa è certa: se quando l'epidemia avrà fatto il proprio corso e l'eccezione imposta dal Covid sarà terminata Draghi dovesse ritornare alla vecchia austerità dell'UE, allora il suo fallimento sarà pressoche certo. Sembra che anche lui lo sappia, e pare che anche Berlino e Bruxelles abbiano iniziato a capirlo. Un Monti 2.0 sembra quindi essere fuori questione.

Corrispondentemente vago è anche il programma del governo Draghi; si parla di riformare il sistema giudiziario, la pubblica amministrazione e il sistema fiscale - niente di diverso da quello che già la maggior parte degli italiani pensa che debba essere fatto. Il cavallo di battaglia dell'UE, e cioè l'innalzamento dell'età pensionabile, per ora resta in secondo piano, anche se la riforma delle pensioni del governo Conte, progressiva nel suo approccio, verrà gradualmente abbandonata. Anche ulteriori tagli salariali (parola in codice riforma del mercato del lavoro) non sembrano essere in alcun modo al centro della discussione.

Molto più significativa invece è la saga di Draghi sul debito buono e quello cattivo. Il debito buono, sostiene, è quello che sarà usato per fare investimenti produttivi. Questo è un annuncio molto importante. Draghi sta mettendo tutte le sue uova in un solo paniere, vale a dire i sussidi e i prestiti concessi come aiuti anti-Corona, e accolti dall'UE come una pietra miliare oppure come il cosiddetto "momento Hamilton". Ma in verità la quantità di denaro che l'Italia può aspettarsi di ricevere è alquanto ridotta rispetto allo stimolo della domanda necessario e potenzialmente soggetto a delle condizionalità molto dure e di orientamento neo-liberista che potrebbero far deragliare il tentativo semi-keynesiano di stimolare l'economia.

E' lecito dubitare sul fatto che l'operazione possa funzionare, dato che ci sono molti punti interrogativi. La crisi sociale è enorme e la calma politica viene mantenuta solo grazie all'eccezionalità dettata dal Coronavirus. Per poter avere un impatto politico, le misure di rafforzamento della domanda dovranno arrivare rapidamente e in maniera massiccia, almeno entro le prossime elezioni. Ma questo è esattamente ciò che l'UE non può e non deve permettersi di fare, perché è in gioco la costituzione de facto dei trattati UE.

La storia inoltre ci ha insegnato - non ultimo in Francia sotto Mitterrand - che lo stimolo della domanda interna per essere efficace deve essere affiancato dal protezionismo. Questo significherebbe una politica economica che non solo all'interno dell'eurozona e del mercato unico con la sua dottrina del libero scambio è impossibile, ma che Draghi dovrebbe anche impedire. La missione di Draghi è quindi praticamente impossibile a meno che gli impulsi non arrivino dall'economia globale.



Perché Draghi è l'ultimo carta dell'UE

L'Italia resta un vulcano socio-politico, sia per le élite italiane che per l'UE. Non solo Berlusconi, Monti e Renzi ne sono usciti bruciati - ma nemmeno il mago Draghi sarà in grado di spegnere questo fuoco.

Ci si aspetta piuttosto che Draghi faccia qualcos'altro. Da lui ci si aspetta un colpo di stato istituzionale nella breve finestra di opportunità data dalla temporanea crisi del populismo, una manovra in grado di limitare le fondamenta della democrazia parlamentare. Al suo posto, si vorrebbe mettere in piedi un sistema bonapartista con l'aiuto del quale le rivendicazioni socio-politiche possano essere strutturalmente soppresse in modo ancora più efficace rispetto a quanto non avvenisse già in passato.

In Italia è in corso una grande lotta di classe, l'atto finale di una tragedia iniziata con la famigerata Tangentopoli, vale a dire l'esplosione del sistema di corruzione, abuso d'ufficio e finanziamento illegale dei partiti della Prima Repubblica ad inizio degli anni '90. Per l'UE, Draghi è l'asso nella manica, mentre i difensori della sovranità democratica attualmente sembrano essere più acefali che mai.

Ma un guardaroba pieno di camicie di forza istituzionali fatte su misura europea sta provocando anche dei contro-movimenti e una radicalizzazione anti-istituzionale. Una specie di "gilet gialli à la italienne" potrebbero essere già nell'aria. La resistenza alle chiusure, soprattutto nel Sud, con la loro forte componente sociale, ne ha già offerto un assaggio. A differenza della Francia, l'opposizione popolare non può piu' essere tenuta lontana dalle istituzioni politiche, come l'esempio dei 5 Stelle ha già dimostrato.

Oggi la rappresentanza politica dei sempre più numerosi emarginati sociali è orfana, ma questo non durerà. Se Draghi fallisce, la crisi del regime neoliberista si intensificherebbe, non solo in Italia, ma in tutta l'UE.

martedì 16 febbraio 2021

Dalla concorrenza sulla qualità al dumping salariale

"Oggi il vero progresso tecnologico avviene principalmente negli Stati Uniti e in Cina. L'economia tedesca, fondata sull'export, d'altro canto, fino ad ora è riuscita a tenere la testa fuori dall'acqua solo grazie alla moderazione salariale e alla bassa pressione fiscale. Nel breve periodo (e nella concorrenza intra-europea) questa competizione sul prezzo fondata sul dumping salariale può ancora funzionare, ma nel lungo periodo (e a livello globale) difficilmente funzionerà" scrive il grande intellettuale tedesco Andreas Nölke, che su Makroskop propone una rilfessione molto interessante sulla principale malattia che da almeno due decenni affligge l'economia tedesca, l'Esportismo, vale a dire la profonda dipendenza dall'export. Andreas Nölke da Makroskop.de


Chi difende gli avanzi commerciali tedeschi, spesso sostiene che in fondo non è colpa nostra se il mondo è così interessato ai nostri meravigliosi prodotti. Il mondo adora le auto e le macchine tedesche.

Ora questo potrebbe anche essere vero in alcuni casi, se consideriamo le nostre esportazioni nel settore dell'ingegneria meccanica di punta o delle automobili di lusso. Ma se si dà un'occhiata più sistematica allo sviluppo delle esportazioni tedesche, si noterà che una parte crescente di queste esportazioni viene venduta essenzialmente perché è "a buon mercato".

In linea di principio, l'acquisto di un prodotto riguarda sempre entrambi gli aspetti: qualità e prezzo. Nel caso delle esportazioni tedesche, tuttavia, c'è uno spostamento alquanto problematico verso questo secondo aspetto. Su questo argomento ormai è già disponibile un grande numero di studi empirici.


Dalla concorrenza sulla qualità al dumping

Negli ultimi cinque decenni l'economia tedesca si è trasformata da un'economia forte nell'export, ma relativamente equilibrata, in un'economia estremamente dipendente dalle esportazioni. Colpisce il fatto che l'intensificazione "patologica" dell'orientamento all'export tedesco non sia stato accompagnato da innovazioni tecnologiche di rilievo, ma sempre più da una spinta alla concorrenza sui prezzi. Il successo nelle esportazioni tuttavia non è da considerarsi un segno di potenza industriale, ma di debolezza - anche se questa debolezza è solo quella dei nostri vicini europei ("troppo cari").


Arndt Sorge e Wolfgang Streeck, ad esempio, facendo riferimento al loro concetto di "produzione di qualità diversificata", tipica dell'industria tedesca, notano che questa in termini di caratteristiche fondamentali resta ancora in parte intatta, come ad esempio la differenziazione di prodotto, anche se ora fondamentalmente non si basa piu' sui "beneficial constraints" del salario elevato e delle innovazioni che ne conseguono, ma si fonda sempre piu' spesso sui dei vantaggi legati al costo.

Dopo un primo crollo iniziale avvenuto intorno al 1980, sin dalla metà degli anni '90, l'industria tedesca ha interrotto la sua tendenza di lungo periodo finalizzata ad un "upgrading" verso una qualità maggiore, e da allora h puntato sempre di piu' sui vantaggi legati al prezzo. Lucio Baccaro ha mappato quantitativamente questo sviluppo calcolando il rapporto tra i prezzi delle esportazioni e quelli delle importazioni. Al più tardi a partire dal 1995, questo rapporto - come indicatore dell'upgrading - non è piu' cresciuto, in netto contrasto con lo sviluppo osservato nei decenni precedenti. L'argomento secondo il quale le esportazioni tedesche a partire da metà anni '90 sono diventate più competitive in termini di prezzi viene confermato anche dalla Bundesbank, indipendentemente dagli indicatori scelti.

La rilevanza del prezzo delle esportazioni diventa particolarmente chiara se si fa un confronto con l'Italia, un concorrente tradizionalmente molto competitivo nei settori chiave dell'export tedesco, tra questi la produzione di automobili e di macchinari. Nel frattempo, però, in termini di performance dell'export la Germania ha nettamente superato l'Italia, anche se, stando ad uno studio del Fondo Monetario Internazionale, questo successo per circa la metà sarebbe da attribuire ad un accrescimento della produttività tedesca - in parte dovuto anche alla moderazione salariale praticata in Germania.

L'OCSE riporta che, soprattutto nel primo decennio del millennio, vi è stata una chiara tendenza dell'economia tedesca a raggiungere i suoi successi nell'export non più attraverso la qualità dei propri prodotti, ma sempre più spesso grazie al contenimento dei prezzi, in contrasto con le fasi precedenti in cui erano soprattutto le innovazioni - misurate, per esempio, dal numero di domande di brevetto - a garantire tali successi.


Un'analisi dettagliata sul "commercio internazionale di beni ad alta intensità di ricerca" mostra anche che i vantaggi comparativi della Germania restano prevalentemente e relativamente stabili nelle "tecnologie ad alto valore" (veicoli a motore, ingegneria meccanica), ma non nelle attuali "tecnologie d'avanguardia", con alcune eccezioni nel settore della tecnologia medica, della misurazione e del controllo. La Cina, invece, ha notevolmente ampliato le sue quote di mercato in entrambi i segmenti, soprattutto nelle tecnologie di punta.

E anche nelle tecnologie di fascia alta del settore automobilistico e della componentistica, il successo dell'export si basa sempre di più sulla concorrenza di prezzo, invece che su quella fondata sulla qualità, sempre stando a questo studio. Dopo tutto, in Germania non si producono solo veicoli di lusso per i quali - in quanto status symbol - il prezzo ha relativamente poca importanza. Baccaro e Benassi giungono a conclusioni simili, misurando una maggiore sensibilità al prezzo delle esportazioni tedesche nel settore automobilisitico e dell'ingegneria meccanica negli anni a partire dal 1990, in contrasto con i decenni precedenti.

Questi risultati sono ulteriormente confermati da un recente studio di Sebastian Dullien, Heike Joebges e Gabriel Palazzo. Lo studio evidenzia l'importanza della competitività di prezzo per le esportazioni tedesche, comprese le esportazioni di beni "high-tech". Questa competitività basata sui costi è stata notevolmente migliorata nei primi anni '80 da un lato e in seguito tra il 1995 e il 2012, vale a dire dopo le 2 grandi crisi dell'economia tedesca.

La fine dello stallo

Queste osservazioni, tuttavia, non sono di buon auspicio per lo sviluppo di lungo periodo dell'economia tedesca. Da tempo, infatti, questa ha smesso di essere alla frontiera del progresso tecnologico, ad esempio nelle biotecnologie o nell'economia digitale. È innovativa in alcune sue aree, ma solo per quanto riguarda lo sviluppo incrementale di innovazioni tecnologiche che nelle loro caratteristiche di base sono già vecchie di molti decenni, specialmente nella chimica, nell'ingegneria meccanica e nell'industria automobilistica, basata sui motori a combustione.

Oggi il vero progresso tecnologico avviene principalmente negli Stati Uniti e in Cina. L'economia tedesca, fondata sull'export, d'altro canto, fino ad ora è riuscita a tenere la testa fuori dall'acqua solo grazie alla moderazione salariale e alla bassa pressione fiscale. Nel breve periodo (e nella concorrenza intra-europea) questa competizione di prezzo basata sul dumping salariale può ancora funzionare, ma nel lungo periodo (e a livello globale) difficilmente funzionerà.

In altre parole: aver salvato i posti di lavoro attraverso la moderazione salariale e l'austerità nelle recenti crisi economiche può aver contribuito a stabilizzare questo modello. Nel frattempo, però, questa strategia sembra essere arrivata al capolinea.

Nel lungo periodo, un'economia con un elevato costo del lavoro, come quella tedesca, può sopravvivere solo se si investe molto di più nella ricerca, nella tecnologia e nelle competenze della forza lavoro - e se la crescita economica e i posti lavoro non dipenderanno solo dagli sviluppi incerti dei mercati di esportazione esteri, ma anche, in modo complementare, da una domanda interna stabile.

In questo contesto, sarebbe un errore molto grande reagire alla recessione del 2021 causata dal Coronavirus continuando a spingere il modello di export basato sulla compressione dei costi, ad esempio attraverso l'austerità e la moderazione salariale collettiva. Questo non farebbe altro che intensificare ulteriormente una disuguaglianza di per sé già molto  pronunciata.

Affinché le esportazioni possano avere un ruolo cruciale, ma all'interno di una struttura economica più equilibrata, sarebbe utile se queste esportazioni fossero realizzate grazie a prodotti di qualità e non solo attraverso una concorrenza basata su dei prezzi sempre piu' bassi. Quest'ultima è incompatibile con la necessaria stimolazione della domanda interna fatta attraverso l'aumento dei salari e la spesa pubblica. Anche nel lungo periodo, non si può vincere contro i paesi a basso salario.

La qualità superiore dei prodotti - oppure un loro posizionamento piu' alto come oggetti di status - permetterebbero d'altra parte anche di strappare prezzi più alti e sarebbero quindi compatibili con la necessità di aumentare i salari e quindi riequilibrare l'economia tedesca. Sono necessari anche maggiori investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle aziende, che a loro volta serviranno ad aumentare la domanda interna. I salari più alti fungono quindi da "beneficial constraints" (Wolfgang Streeck), e costringono le imprese a fare il loro bene, cioè a fare gli investimenti.


In Germania ci sono ancora i presupposti per fare export di qualità e ad alto prezzo

Ribilanciare l'economia con una strategia di alti salari non è fattibile con ogni struttura dell'export. Quando i salari e i prezzi aumentano, i paesi con una struttura dell'export elastica al prezzo, come ad esempio quelli legati al tessile di base, devono fare i conti con un brusco crollo delle loro esportazioni, dato che i compratori possono facilmente passare ad altri fornitori.

Non è così facile, inoltre, per un paese passare da beni semplici a beni più evoluti e a livelli di tecnologia piu' elevati. Ci sono inoltre notevoli ostacoli, che in particolare nel lungo periodo possono ostacolare una ripresa delle economie dell'Europa meridionale, come dimostrano Jakob Kapeller, Claudius Gräbner e Philipp Heimberger. L'economia tedesca, d'altra parte, in un confronto interno all'UE occupa ancora una posizione di primo piano per quanto riguarda il concetto di "complessità economica", un importante indicatore della capacità tecnologica di un paese, un concetto sviluppato da un gruppo di ricercatori dell'Università di Harvard.

La Germania ha ancora dei presupposti tutto sommato buoni per poter riequilibrare con successo la sua economia nell'ambito di un confronto europeo. Certo, abbiamo visto che la quota di esportazioni tedesche elastiche rispetto al prezzo negli ultimi decenni è aumentata - uno sviluppo molto problematico. Ma se confrontiamo la posizione relativa della Germania con quella degli altri classici paesi più industrializzati sia all'interno dell'UE (Francia, Italia, Spagna) che all'esterno (Regno Unito, Giappone, Stati Uniti), vedremo che la Germania mantiene una quota relativamente più alta del suo export in termini di beni sofisticati e meno sensibili al prezzo rispetto a questi paesi, stando ad uno studio realizzato dall'Istituto di ricerca economica della Bassa Sassonia.

Per la Germania - come accade all'orbo in mezzo ai ciechi, per così dire - nel confronto internazionale, dovrebbe essere ancora più facile mantenere un alto livello di esportazioni anche a fronte di una ridotta competitività di prezzo dovuta a dei salari più alti, diversamente da quanto accade in Italia, ad esempio, dove negli ultimi decenni ci sono state notevoli perdite in termini di quote di mercato causate da beni maggiormente sensibili al prezzo, ad esempio il tessile e i mobili, come risultato dell'ascesa della Cina.

Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale citati in precedenza, non esiste nessun'altro paese al mondo il cui profilo dei beni esportati negli ultimi decenni abbia avuto cosi' tanta somiglianza con quello della Cina, piu' di quanto è accaduto all'Italia. L'Italia è stato quindi il paese che negli ultimi decenni piu' di tutti ha sofferto a causa del "miracolo economico cinese".

Lo stesso destino nel prossimo futuro potrebbe toccare anche alla Germania - dato il "miglioramento" del portafoglio dell'export cinese. Non è ancora troppo tardi per cercare di difendere il vantaggio competitivo tramite investimenti maggiori nella ricerca, nello sviluppo e nella formazione di lavoratori altamente qualificati e ben pagati.

Ma questo riequilibrio sarà un adattamento doloroso per alcune parti significative dell'industria tedesca. E questo è particolarmente vero per quelle aziende che negli ultimi decenni hanno investito sempre meno in innovazione e produttività e si sono invece sempre piu' adagiate sulla moderazione salariale e su di una moneta sottovalutata. In molti casi, senza il sostegno attivo dello Stato, tutto questo non sarà possibile, specie nell'area della politica per lo sviluppo tecnologico