sabato 16 marzo 2019

Una presidenza europea orgogliosamente sponsorizzata dalle bollicine americane

"Coca Cola supporta orgogliosamente la prima presidenza del consiglio europeo della Romania", cosi' è scritto sui cartelloni esposti durante gli incontri dei ministri europei in questo primo semestre 2019. La presidenza del consiglio europeo a guida rumena come un gran premio di Formula 1 o una partita di Champions League; per Lobby Control tuttavia non si tratterebbe di una coincidenza. Ne parla Lobby Control


Pannelli luminosi con il logo della Coca-Cola, poltrone sacco nel colore del marchio del più grande produttore mondiale di bevande, frigoriferi pieni con bottiglie di Cola per il consumo gratuito. Chiunque durante queste settimane visiti una riunione del Consiglio UE a Bruxelles o a Bucarest difficilmente potrà ignorare i messaggi pubblicitari del gigante americano delle bollicine. Coca-Cola insieme a Mercedes, Renault e al fornitore di telecomunicazioni Digi è il "Platin-patner" della presidenza rumena del Consiglio dell'UE - e può anche inserire immagini pubblicitarie. "Il valore aggiunto creato dalla catena di approvvigionamento del sistema Coca-Cola rappresenta circa lo 0,3 per cento del PIL del paese" campeggia ad esempio su uno degli spazi pubblicitari presenti in occasione della riunione del Consiglio dei ministri della difesa e degli esteri di Bucarest, riferiva "Die Presse" ad inizio di febbraio.

La democrazia non è un evento di Formula Uno

Nei giorni scorsi diversi giornalisti hanno parlato della questione, mentre l'organizzazione per la protezione dei consumatori Foodwatch ha chiesto di porre fine a questa pratica. Quello di Coca-Cola non è un caso isolato. Le presidenze del consiglio talvolta funzionano come un evento di Formula 1 o come una conferenza stampa della UEFA Champions League. Loghi aziendali a perdita d'occhio.

L'Austria nel 2018 si era fatta sponsorizzare la sua presidenza dell'UE, fra gli altri, da Porsche, Audi e Microsoft. La Bulgaria nello stesso anno aveva avuto anche più di 50 sponsor, tra cui Microsoft e BMW. E nel 2017 il paradiso fiscale dell'UE, Malta, ha fornito una piattaforma di primo piano per BMW, Microsoft e AirMalta.

Il governo maltese in maniera molto franca aveva ammesso ciò di cui esattamente si trattava: "gli inserzionisti beneficiano della possibilità di essere associati a numerosi eventi di alto livello che forniscano loro una esposizione preziosa, prestigio e maggiore riconoscimento del marchio per i loro servizi e prodotti". Oppure espresso in numeri: "200 riunioni della Presidenza, visitate da circa 20.000 funzionari" più molti delegati in altri eventi a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo.

Quanti soldi ottengano gli Stati membri dell'UE per la loro sponsorizzazione non sempre viene reso noto. Fino ad oggi la Romania non ha risposto alle richieste della nostra organizzazione partner Obsveratory Corporate Europe. L'Irlanda ha invece volontariamente ammesso di aver ricevuto nel 2013 ben 1,4 milioni di euro dai suoi sette partner, tra i quali Audi.

Tutto ciò è alquanto problematico. Perché la politica dopotutto in una democrazia dovrebbe essere indipendente e impegnarsi per il bene comune. Il corso politico fondato sugli abbracci e le coccole alle aziende, d'altra parte, offre ai gruppi industriali degli importanti contatti con le lobby e l'opportunità di rafforzare la propria agenda.



La Coca Cola esercita pressioni contro la tassazione, il deposito per il vuoto e gli obiettivi di riciclaggio

Coca Cola, da anni ad esempio si batte contro una tassa sullo zucchero di cui in molti paesi dell'UE si dibatte da anni. I documenti interni al Gruppo, pubblicati nel 2016, mostrano che Coca-Cola, oltre a questa tassa, sta combattendo sia le norme sui depositi per il vuoto che gli obiettivi di riciclaggio più elevati. Il documento strategico interno fornisce a queste misure la "massima priorità" - con un chiaro mandato: "combatterle".

La presidenza del Consiglio dell'UE a intervalli semestrali ruota tra i 28 Stati membri dell'UE. Nel gennaio 2019, la Romania ne ha assunto la guida. Sarà interessante vedere se anche la Germania durante la sua presidenza del 2020 si farà sponsorizzare. Gli stati membri decidono autonomamente sui loro sponsor. Regole a livello europeo sembrano apparentemente non ce ne sono. Ad esempio, il manuale del Consiglio dell'Unione europea sulla presidenza non menziona affatto le sponsorizzazioni.

Le sponsorizzazioni a livello dell'UE sono presenti anche nei cosiddetti intergruppi. I membri sono parlamentari, rappresentanti di aziende, organizzazioni e associazioni. Un esempio è l'European Internet Forum (EIF), che oltre a molti eurodeputati, comprende anche rappresentanti di importanti aziende IT come Amazon, Apple e Facebook. Il bilancio annuale di oltre mezzo milione di euro viene completamente finanziato dalle aziende. E alcuni dei deputati al Parlamento europeo, i cui emendamenti sono stati inseriti nel progetto di regolamentazione della protezione dei dati nell'UE, in parte ripresi da documenti provenienti dal settore, erano casualmente membri dell'EIF.

La politica tedesca si fa sponsorizzare dall'industria del tabacco e della difesa

Ma anche in Germania le sponsorizzazioni sono un problema serio. Le grandi aziende sponsorizzano, sia in patria che all'estero, ministeri e istituzioni pubbliche, i partiti e le loro organizzazioni giovanili. Airbus, azienda operante nel settore della difesa, ad esempio, nel 2016 ha sponsorizzato con 50.000 euro il padiglione tedesco ad un festival culturale in Arabia Saudita. Il cantiere Lürssen che in Arabia Saudita non esporta solo yacht di lusso, ma anche navi da guerra, ha contribuito alla manifestazione con un "una sovvenzione", secondo quanto si apprende dal Ministero degli esteri. Il produttore di sigarette Philip Morris a sua volta, tra il 2010 e il 2015, ha versato alla CDU, CSU, SPD e FDP, oltre mezzo milione di euro per diversi eventi di partito, tra cui il congresso del partito della CSU a Norimberga, il raduno nazionale dei giovani dell'Unione, il festival estivo dei Giovani Liberali o la "Spargelfahrt" del circolo di Seeheim della SPD.

Un certo clamore è stato causato anche dallo scandalo "Rent-a-Sozi" del 2016. Frontal21 all'epoca aveva scoperto che una società controllata dalla SPD aveva offerto ad aziende e gruppi di pressione vari incontri con i leader della SPD tra cui Heiko Maas, Andrea Nahles o Katharina Barley dietro il pagamento di una somma fra i 3.000 e i 7.000 euro.

Attualmente la sponsorizzazione dei partiti è priva di trasparenza e di regole. Non c'è da stupirsi che sempre più aziende come BMW o Gesamtmetall non facciano più affidamento sulle donazioni ai partiti, ma sulle sponsorizzazioni. Così ad esempio, secondo le ricerche di Lobby Control, la sola Volkswagen fra il 2014 e il 2017 ha speso 656.260 euro in sponsorizzazioni ai partiti - ovvero circa quattro volte quanto VW spendeva in precedenza in media ogni anno.

Per questo motivo da molto tempo chiediamo regole chiare e maggiore trasparenza nella sponsorizzazione. In Europa e in Germania.


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giovedì 14 marzo 2019

Intervista ad Andreas Nölke: "Non possiamo fare a meno dello stato nazione"

Andreas Nölke è professore di scienze politiche a Francoforte nonché la mente dietro il raggruppamento di sinistra Aufstehen!. Intervistato da Welt ci spiega perché non possiamo fare a meno dello stato nazione e perché l'immigrazione è un problema serio. Da Welt.


Welt: Herr Nölke, come professore di scienze politiche a Francoforte lei si è schierato a favore dello stato-nazionale. Perché?

Andreas Nölke: in realtà fra i sostenitori della sinistra è qualcosa di insolito, la maggior parte vorrebbe superare lo stato nazione. Io invece nel medio periodo non voglio, perché ci sono importanti funzioni che al momento vengono svolte meglio a livello nazionale. La democrazia, lo stato sociale e lo stato di diritto funzionano meglio nello stato nazionale che nell'UE. In questo senso, credo che l'aspirazione della sinistra a creare un super-stato europeo e poi uno stato mondiale non siano adeguate.

Welt: quindi apprezza le funzioni dello stato-nazionale, ma per ragioni diverse dalle destre?

Nölke: in realtà ci sono diversi motivi per sostenere lo stato nazionale. Non mi interessa il superamento della cultura tedesca. Ma lo stato-nazione, in quanto stato sociale, dispone dei mezzi per migliorare la situazione delle persone piu' svantaggiate, e rimane l'istanza più importante per protegge la loro libertà e sicurezza.


Welt: per quanto tempo ne avremo ancora bisogno?

Nölke: fino a quando non ci saranno segnali evidenti che la democrazia può funzionare meglio a un livello più elevato. Se emergesse un'opinione pubblica europea, se aumentasse l'identificazione con l'UE, se l'affluenza alle elezioni europee fosse più elevata - allora potremmo pensare di lasciarci alle spalle lo stato nazione.

Welt: quali elementi dell'UE sono anti-democratici?

Nölke: distinguo fra deficit democratico strutturale e attuale. Quest'ultimo include un'affluenza significativamente inferiore alle elezioni europee. La legittimità della democrazia si basa sulla volontà dei cittadini di andare a votare. Darei una maggiore legittimità a quel livello per il quale i cittadini votano con maggiore partecipazione.

Inoltre, anche alle prossime elezioni europee le questioni nazionali avranno un ruolo importante, anche perché non abbiamo un'opinione pubblica europea e sappiamo molto di più sulla politica di Berlino che non su quella di Bruxelles. Ma questi sono tutti problemi risolvibili. I deficit strutturali sono più difficili da risolvere.

Welt: quali sono?

Nölke: empiricamente, si può stabilire una stretta connessione tra le dimensioni di una comunità e il funzionamento della democrazia. Non so come ciò possa essere risolto nel quadro dell'UE. Inoltre, se osservo da sinistra vedo dei problemi con la mancanza di neutralità economica della costituzione europea. I trattati europei non erano destinati a diventare una costituzione, ma grazie all'interazione fra la Corte di giustizia europea e la Commissione sono diventati de facto una costituzione europea - attraverso due istituzioni con una legittimazione democratica estremamente indiretta.

Welt: cosa non la soddisfa dal punto di vista del contenuto?

Nölke: le quattro libertà fondamentali per i beni, i capitali, i servizi e il lavoro, sono state prima inserite nei trattati, con intenzioni di politica economica, per poi insinuarsi nella costituzione. Una cosa del genere, tuttavia, non dovrebbe trovare posto in una costituzione perché significa che queste libertà economiche non sono più accessibili al potere politico.

Ecco perché questa costituzione per me non è accettabile. Ci sono proposte per rimuovere queste norme dai trattati, sarebbero quindi soggette alla legislazione normale, e in quel caso non avrei alcun problema.

Welt: tra le quattro libertà fondamentali viene soprattutto contestata la circolazione illimitata dei lavoratori all'interno dell'UE. Questo diritto alla mobilità degli europei e l'accettazione della migrazione irregolare non sono forse di sinistra?

Nölke: dal mio punto di vista: no. Per me, in quanto uomo di sinistra, si tratta prima di tutto della protezione dei lavoratori. E una forte immigrazione mina le condizioni lavorative dei più deboli all'interno della nostra società. Perché è soprattutto la migrazione irregolare a portare da noi persone poco qualificate, fatto che aumenta la concorrenza in questo settore del mercato del lavoro. Diversi studi mostrano che un tale afflusso di lavoratori nel segmento meno qualificato ha effetti alquanto problematici. Dal punto di vista dell'economia nel suo complesso, tuttavia, l'immigrazione può anche avere degli effetti positivi.
Welt: a quali studi si riferisce?

Nölke: dopo la forte immigrazione da Cuba verso la zona di Miami, nell'ambito dell'esodo di Mariel del 1980, è stata osservata una ripresa generale dell'economia, ma una riduzione fino a un terzo del livello dei salari fra le persone meno qualificate. Un altro studio ha fornito un quadro simile dopo l'apertura da parte dell'Austria agli europei dell'Est nel 2011: è stato buono per il prodotto interno lordo, ma catastrofico per le persone poco qualificate.

Le aziende hanno un legittimo e razionale bisogno di ottenere una buona manodopera al miglior prezzo possibile. Un'alta offerta significa prezzi bassi. Tuttavia, questi interessi spesso non sono in sintonia con quelli della società ospitante, né con quelli delle società che hanno formato queste persone. E spesso nemmeno con quelli dei migranti stessi, molti dei quali preferirebbero vivere nel loro paese, ma lì non trovano lavoro.

Welt: non è forse ragionevole se molte persone provenienti da economie disfunzionali si spostano nelle aree economiche più forti? In questo modo non si aiutano i migranti e le aziende?

Nölke: nel breve termine, sì, ma il mio interesse si rivolge più che altro al sostegno alle aree economiche disfunzionali. Ciò riguarda anche la politica di sviluppo, ma soprattutto la politica del commercio estero. Ad esempio, negli ultimi 20 anni, l'UE ha optato per una politica di libero scambio molto più severa nei confronti dell'Africa sub-sahariana. Le esportazioni agricole stanno distruggendo grandi parti dell'agricoltura di quei paesi. Una politica economica esterna meno aggressiva aiuterebbe questi paesi molto più dell'emigrazione di una parte della loro popolazione verso l'Europa.

Welt:  almeno ora i dazi all'importazione sui beni africani sono stati ampiamente aboliti, in modo che questi paesi possano esportare a basso costo in Europa..

Nölke: sì, ma il problema riguarda molto meno i nostri dazi all'importazione, e molto di piu' invece la pressione esercitata sulle economie di questi paesi costretti ad aprire i loro mercati ai nostri prodotti. La mia ricerca sui modelli economici dei mercati emergenti mostra che i paesi con un protezionismo selettivo sono di gran lunga i paesi di maggior successo: India e Cina. Le economie emergenti, che volontariamente o forzatamente si sono aperte, spesso hanno strangolato l'economia locale.

A proposito, penso anche che la Germania dovrebbe frenare il suo forte orientamento all'export. Da un lato per rispetto nei confronti di queste economie, ma anche nel proprio interesse. Abbiamo il più forte orientamento all'export fra tutte le principali economie. Nel lungo termine, per la Germania non è una buona idea, siamo totalmente dipendenti da ciò che accade nell'economia globale come non accade a nessun'altra grande economia. Se ci fosse un'ondata di protezionismo, delle guerre commerciali o un crollo economico globale, la Germania sarebbe seriamente minacciata.

Welt: lei è una delle principali menti di Aufstehen, questo raggruppamento ha la possibilità di raggiungere una dimensione rilevante?

Nölke: penso che sia possibile, ma ci vorrà del tempo. Da un lato, vogliamo riunire persone che socio-economicamente pensano a sinistra, ma con i partiti di sinistra attuali, fortemente cosmopoliti e globalisti, non riescono a fare nulla. Dall'altro lato, vogliamo spingere verso un ripensamento all'interno della SPD e dei Verdi. Dopo una buona partenza, da due o tre mesi affrontiamo dei problemi organizzativi. Per ora non siamo un movimento forte, ma la situazione potrebbe cambiare rapidamente in una prossima crisi economica.

Welt: cosa significa per Aufstehen la partenza di Sahra Wagenknecht?

Nölke: il suo ritiro dalla ristretta cerchia della leadership di "Aufstehen" in favore di nuovi volti politici era già stato annunciato mesi fa. Mi aspettavo che sarebbe accaduto durante il congresso di giugno, quando dovrà essere eletta una nuova leadership. Da quel momento la fase di avvio, influenzata in maniera relativamente pesante da politici professionisti, sarà finita, e a prendere il timone saranno coloro che organizzano il movimento a livello locale. Questa attualmente è la vera forza di "Aufstehen".



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mercoledì 13 marzo 2019

Una fusione fra due pesi leggeri

La fusione fra Deutsche Bank e Commerzbank s'ha da fare, almeno secondo il Ministro delle Finanze Scholz. La politica di Berlino spinge verso una fusione che metta in sicurezza il settore bancario prima che arrivi un'altra crisi economica o prima che un forte concorrente estero, come BNP, riesca ad entrare nel ricco mercato tedesco. Sullo sfondo le elezioni europee di maggio e un nuovo Parlamento con forze politiche meno indulgenti verso il corso interventista di Berlino. Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy.


Solo al 19 ° posto

Secondo le cronache più recenti Deutsche Bank e Commerzbank hanno avviato dei colloqui esplorativi in merito alla possibilità di una fusione fra le 2 banche. Se si dovesse arrivare alla fusione, nascerebbe di gran lunga il più grande istituto finanziario tedesco con un bilancio complessivo di quasi due trilioni di euro e 38 milioni di clienti. Attualmente sono circa 130.000 i lavoratori impiegati dalle due banche, di questi circa 80.000 nella Repubblica federale. Con la fusione tuttavia non cambierebbe di molto la situazione del nuovo istituto finanziario, in quanto con una capitalizzazione di mercato di 24 miliardi di euro nel confronto internazionale resterebbe "un peso leggero", scrivono gli osservatori. In effetti Deutsche Bank con una capitalizzazione di mercato di soli 19,6 miliardi di euro nel 2018 era il più grande istituto finanziario tedesco, ma si trovava solo al 19° posto nella classifica delle principali banche europee [2], posizione dovuta all'enorme perdita di valore delle azioni della banca in crisi. Entrambi gli istituti non si sono mai veramente ripresi dallo shock della crisi finanziaria globale del 2007/08. Il valore del titolo Deutsche Bank negli ultimi cinque anni è sceso da poco meno di 30 euro fino a soli sette euro.

Politicamente forzato

Secondo le cronache i due istituti finanziari sarebbero sotto la pressione della politica che spinge per accelerare la fusione. [3] Berlino si aspetta "una decisione nelle prossime settimane", scrive la stampa. Sarebbe soprattutto il Ministro delle finanze federale Olaf Scholz (SPD) a spingere verso la creazione di una forte banca tedesca di grandi dimensioni. Poiché il governo tedesco continua a detenere circa il 15 per cento delle azioni di Commerzbank, di cui è entrato in possesso in seguito al sostegno offerto durante la crisi finanziaria del 2007, il Ministro delle Finanze, in quanto maggiore azionista della banca, dispone anche dei mezzi necessari per far attuare il suo piano. Berlino preme sull'acceleratore in quanto teme che le prossime elezioni europee possano portare una "nuova maggioranza a Bruxelles" che potrebbe bloccare la fusione. Inoltre la strategia si adatta al nuovo corso economico interventista del governo federale: creare dei "campioni nazionali" - società monopoliste per far fronte alla crescente concorrenza mondiale - attraverso delle fusioni nei settori piu' importanti. A Berlino la fusione strategica viene considerata l'ultima possibilità "per rafforzare il settore delle grandi banche in Germania", si dice. Se la fusione dovesse fallire, per Commerzbank ci sarebbe la minaccia di un'acquisizione da parte di un "compratore straniero". A Berlino viene presa in considerazione anche la possibilità di fondere Commerzbank con un gruppo finanziario francese come BNP Paribas; ma in tal caso Deutsche Bank si troverebbe in casa un "potente concorrente" che "potrebbe rendere ancora piu' difficile il rilancio della più grande banca tedesca".

Una fusione di emergenza?

Un altra ragione che spinge il governo federale ad accelerare verso una fusione fra i due istituti finanziari, secondo gli osservatori, riguarderebbe la crescente preoccupazione per la crisi in arrivo. Deutsche Bank in caso di crisi potrebbe finire in "difficoltà", si dice; un "rallentamento dell'economia" con ogni probabilità spingerebbe i due istituti finanziari in una situazione di "squilibrio". La fusione tanto desiderata dalla politica sarebbe più che altro una fusione di emergenza. [5] L'utile annuale annunciato da Deutsche Bank - sebbene relativamente basso, ma comunque il primo dopo quattro anni - non è riuscito a nascondere il rapido declino del settore finanziario tedesco. In questo senso è significativo il confronto con la concorrenza statunitense: JP Morgan, la più grande istituzione finanziaria degli Stati Uniti, con cui un tempo "Deutsche Bank amava confrontarsi", ha una capitalizzazione di mercato di oltre "300 miliardi di euro".

"Politica industriale per le banche"

Secondo gli esperti, infatti, l'intero settore finanziario tedesco si troverebbe in una fase di declino, non solo a livello internazionale ma anche a livello nazionale, dove le banche estere stanno espandendo la propria posizione. Il settore finanziario si sta quindi sviluppando nella direzione opposta rispetto ad un'economia tedesca fortemente orientata all'export. A differenza degli Stati Uniti, nella Repubblica federale dopo lo scoppio della crisi finanziaria gli istituti finanziari, dopo essere stati "salvati" a suon di miliardi di euro, non sono stati "dotati di nuovo capitale fresco", scrivono gli osservatori; è mancato il "capitale necessario per fare le riforme interne urgentemente necessarie e affrontare le sfide della digitalizzazione". [6] Le banche tedesche di conseguenza sono rimaste indietro rispetto ai concorrenti. Le misure del Ministero delle finanze in questo contesto possono essere considerate come "una politica industriale per il settore finanziario" che alla fine giova "all'intera economia tedesca". In ogni caso, nei centri finanziari di Francoforte l'approccio di Scholz, in considerazione dello stato in cui versa il settore, viene accolto con favore.

Ritiro dall'Europa dell'Est e dal Portogallo

Deutsche Bank di fatto si è già ritirata da diversi mercati europei. In Portogallo, ad esempio, nel corso del 2018 ha completato la sua uscita dal settore bancario privato e aziendale cedendolo alla banca regionale spagnola Abanca [7]. Nell'ambito della ristrutturazione del gruppo e della necessaria riduzione dei costi, anche in Polonia l'attività bancaria commerciale è stata ceduta alla banca spagnola Santander. Nel contesto della vasta inchiesta sul riciclaggio di denaro nella filiale estone della Danske Bank, per la quale la principale istituzione finanziaria tedesca ha gestito come banca corrispondente transazioni dubbie per un volume di 150 miliardi di euro, nell'Europa orientale è iniziata una ritirata generale da questa linea di business. Dal 2016, il numero dei clienti in quest'area è stato ridotto di "circa il 60 %", ha detto l'incaricato di Deutsche Bank per il contrasto al riciclaggio di denaro all'inizio di febbraio davanti ai parlamentari europei. Nei confronti della banca in crisi, infatti, negli Stati Uniti sono in corso delle indagini in quanto dal 2007 al 2015 avrebbe ripulito e trasferito circa 200 miliardi di euro provenienti da fonti russe alquanto torbide [9].

Pressione negli Stati Uniti

La dubbia natura dei business gestiti dalla grande banca tedesca, anche negli Stati Uniti sta causando un aumento della pressione. Già alla fine dello scorso anno alcuni politici democratici avevano annunciato la volontà di esaminare il ruolo di Deutsche Bank nei flussi di cassa di dubbia natura che in alcuni casi portano fino all'ambiente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. [10] Nel frattempo due commissioni parlamentari alla Camera si stanno occupando di Deutsche Bank per chiarire le sue pratiche e i rapporti con il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Sono probabili audizioni pubbliche sulle attività di riciclaggio di denaro di Deutsche Bank. Date le prospettive cupe negli Stati Uniti, la stampa finanziaria tedesca formula delle raccomandazioni chiare in merito ai titoli del più grande istituto finanziario tedesco: "evitate le azioni" [11]

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[1] Tim Kanning: Sewing holt sich Erlaubnis für Gespräche über eine Fusion. faz.net 10.03.2019.
[2] The 20 largest banks in Europe by market capitalization. banksdaily.com 31.05.2018.
[3] Deutsche Bank und Commerzbank prüfen Zusammenschluss. zeit.de 09.03.2019.
[4] Tim Kanning: Sewing holt sich Erlaubnis für Gespräche über eine Fusion. faz.net 10.03.2019.
[5] Tim Bartz: Auf dem Weg zur Notfusion. spiegel.de 31.01.2019.
[6] Deutsche Banken noch immer in der Krise. daserste.de 17.10.2018.
[7] Deutsche Bank: Rückzug aus Privatkundengeschäft in Portugal. fnp.de 27.03.2018.
[8] Deutsche Bank zieht sich aus Osteuropa zurück. n-tv.de 04.02.2019.
[9] Meike Schreiber: Deutsche Bank gerät im Danske-Skandal unter Druck. sueddeutsche.de 23.01.2019.
[10] Für die Deutsche Bank steigt der Druck aus den USA. handelsblatt.com 07.02.2019.
[11] Deutsche Bank: Neue Ermittlungen in den USA? deraktionaer.de 14.12.2018.


martedì 12 marzo 2019

L'europeismo tiepido di AKK

Qual'è la posizione di Annegret Kramp-Karrenbauer sull'Europa? A giudicare dalla risposta al manifesto di Macron, secondo Der Spiegel, quello di AKK è un europeismo tiepido, lontano dai temi sociali e che soprattutto non prende in considerazione la possibilità di mettere in comune con gli altri paesi una parte del benessere tedesco. Ne scrive Stefan Kuzmany su Der Spiegel


Annegret Kramp-Karrenbauer è già una quasi Cancelliera. Sebbene Angela Merkel  continui a mantenere calda la sedia della Cancelleria di Berlino, non passerà molto tempo prima che il nuovo leader della CDU prenda il controllo anche del governo. Se fosse per la oscura "Werteunion" della CDU, Merkel avrebbe già dovuto lasciare il suo posto alla donna della Saarland.

Non è un caso che sia proprio questo raggruppamento conservatore di politici dell'Unione, tra i quali c’è il conoscitore dei Pegida Werner Patzelt e  l'intimo nemico di Merkel Hans-Georg Maassen, a pronunciarsi apertamente per Kramp-Karrenbauer. Se ai tempi della campagna elettorale per la segreteria del partito c'era ancora il sospetto che si trattasse di una mini-Merkel, e cioè solo di una copia in dimensione ridotta di una Cancelliera ormai troppo progressista, ora tutti i dubbi si sono dissipati: questa donna vuole tornare al passato.

Salario minimo? Sicurezza di base? Non con AKK

Ci è voluto un po' per rendersene conto, perché non è sempre facile capire quello che Annegret Kramp-Karrenbauer vorrebbe dirci quando parla a ruota libera. Questa volta per fortuna ha commentato per iscritto. Nel fine settimana la quasi Cancelliera ha risposto sulla "Welt am Sonntag” all'appello pro-Europa del presidente francese Emmanuel Macron.

Mentre Angela Merkel con i suoi silenzi eloquenti non faceva capire se intendeva o meno sostenere i francesi nella loro missione di riorganizzare e riavvicinare l'Europa, con Kramp-Karrenbauer a capo del governo la posizione della Repubblica Federale sarebbe decisamente piu' chiara. E anche se ha ricoperto la sua risposta con una retorica europeista che almeno superficialmente suona melodiosa, il senso è chiaro: no, lei non vuole.

Macron propone un sistema sociale comune in cui tutti in Europa abbiano diritto alla sicurezza sociale di base, alla stessa retribuzione nello stesso luogo di lavoro e in ogni paese ad un salario minimo adeguato. Kramp-Karrenbauer senza troppi indugi toglie la polvere da queste proposte: per lei sono "la strada sbagliata".

Un “consiglio di sicurezza nazionale” su carta europea

Macron vorrebbe ridurre a zero le emissioni di CO2 entro il 2050 e ridurre del 50% l’uso dei pesticidi entro il 2025. Annegret Kramp-Karrenbauer non ha una grande considerazione di queste proposte: "nulla è stato raggiunto con una definizione ambiziosa degli obiettivi europei e dei valori limite". Bene e allora in che modo? Mentre Macron vorrebbe subordinare tutti gli sforzi politici e tutte le istituzioni dell'UE all'obiettivo della protezione del clima, Kramp-Karrenbauer ha in mente soprattutto la protezione dell'economia. Macron ha compreso che senza una seria difesa del clima, presto non ci saranno piu’ le condizioni di base per avere un’economia di successo. Kramp-Karrenbauer apparentemente no.

Se Macron enfatizza l'idea di un consiglio di sicurezza europeo, all’interno del quale organizzare la difesa comune dell'Europa, Kramp-Karrenbauer argomenta che anche un "consiglio di sicurezza nazionale" in Germania sarebbe "un’idea degna di essere presa in considerazione”.

Il francese vorrebbe mettere più cose in comune, la tedesca difficilmente riesce a scrivere "Europa" senza immediatamente dover puntualizzare che "se manca lo Stato nazionale" nulla può funzionare.

Macron sta lavorando a una vera integrazione europea. Kramp-Karrenbauer sembra voler fare un passo indietro: verso una cooperazione prevalentemente economica e con una difesa comune delle frontiere. Un ritorno alla CEE ma con una difesa comune, senza avere in mente il grande progetto di riconciliazione e di pace europea, come faceva Kohl, e senza la volontà di mettere in comune la prosperità tedesca. La parola "solidarietà" nella sua risposta non si trova da nessuna parte, preferisce parlare di un "mercato unico per le banche".

ll braccio destro dello stato

La politologa Ulrike Guérot ha giustamente osservato che Kramp-Karrenbauer sembra guardare all'UE in maniera unilaterale: fondamentalmente in Europa “vorrebbe il braccio destro dello Stato (la sicurezza, le frontiere, il controlli, i militari), ma non quello sinistro (solidarietà, sicurezza sociale, responsabilità)". Questo approccio esclusivamente orientato agli interessi economici e alla sicurezza non crea un'identità europea, ma mira semplicemente alla cooperazione interessata fra Stati nazionali. Kramp-Karrenbauer tutt'al più ha un'idea tiepida e poco entusiasta dell'Europa.

Bisogna tuttavia essere grati ad Annegret Kramp-Karrenbauer: a differenza di Merkel ci spiega chiaramente dove lei e dove una CDU sotto la sua guida si posizionerebbero. Una SPD che dovesse appoggiarla come Cancelliera non solo si sarebbe completamente arresa, ma avrebbe anche abbandonato l'obiettivo di un'Europa sociale e solidale.




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20 anni dalle storiche dimissioni di Oskar Lafontaine - le vere ragioni dietro una decisione che ha segnato la storia tedesca ed europea

Esattamente 20 anni fa Oskar Lafontaine si dimetteva da Ministro delle Finanze del governo Schröder e dalla carica di segretario della SPD. Sulle Nachdenkseiten Albrecht Müller, economista, pubblicista, ed ex deputato SPD al Bundestag ripercorre le vere ragioni dietro una decisione storica che ha segnato la storia della sinistra tedesca. Ne scrive l'ottimo Albrecht Müller sulle Nachdenkseiten 


Esattamente 20 anni fa Oskar Lafontaine rassegnava le dimissioni da Ministro delle finanze e da presidente della SPD. L'opinione dei media e anche di una parte significativa del pubblico su quegli avvenimenti è un esempio davvero impressionante della possibilità di influenzare l'opinione pubblica e soprattutto i media - indipendentemente da come stessero realmente le cose e dalle ragioni delle sue dimissioni. Albrecht Müller.

Non ci sarebbe piu' bisogno di scrivere su questo argomento se ancora oggi non avesse una certa rilevanza.

I commenti e le opinioni di Lafontaine ancora oggi risultano pungenti. Disturbano e mettono in discussione l'adattamento continuo della sinistra allo Zeitgeist neoliberista e militarista. Lafontaine si schiera contro l'interventismo militare. Lafontaine critica la linea politica ed economica europea che condanna l'Europa del sud. Infilza l'ideologia neoliberista nella maniera piu' coerente possibile.

Lafontaine viene visto come un ostacolo al tentativo di estrarre dalla Linke anche i denti piu' critici, e resta un elemento di rottura all'interno del corso politico di adattamento della SPD. La svalutazione e la diffamazione delle ragioni che 20 anni fa portarono alla sua uscita di scena restano uno strumento importante con il quale ancora oggi viene svalutata la sua condotta politica attuale. Ancora una volta cercheremo di giustificare la fermezza con cui esattamente 20 anni fa egli prendeva quella decisione.


Le ragioni del ritiro - una seria divergenza di opinioni con il Cancelliere e la consapevolezza che Schröder stava giocando di sponda, in gran parte attraverso i media, una partita contro il leader di partito Lafontaine.

Le tre grandi differenze:

1) Gerhard Schröder e Joschka Fischer, il cancelliere designato e il vice-cancelliere, nel mese di ottobre del 1998 durante la loro visita a Washington, avevano già concordato con il governo degli Stati Uniti di partecipare ad una guerra contro la Jugoslavia, che in seguito sarebbe diventata la guerra del Kosovo. Si trattava del primo intervento militare all'estero al di fuori del territorio della NATO e una vera rottura nella politica tedesca. Ciò non era stato discusso con il leader di partito Lafontaine e si trattava di una prima vera violazione del rapporto di fiducia.

2) Come Ministro delle Finanze federale Lafontaine voleva imporre la regolamentazione dei mercati finanziari e in particolare si batteva contro l'invenzione e la diffusione di nuovi prodotti finanziari. Questo non era nello spirito di Gerhard Schröder e dei suoi evidenti legami con la finanza internazionale.

3) Lafontaine rappresentava un ostacolo contro i tagli al welfare e i tagli fiscali a favore delle grandi aziende e dei redditi piu' alti. A partire dal dicembre 1998 nella Cancelleria federale si era formata la cosiddetta alleanza per il lavoro. Questo raggruppamento, allineato e sostenuto dalla Fondazione Bertelsmann, è servito a preparare l'agenda 2010. Lafontaine durante l'inverno e la primavera del 1999 era già a conoscenza di quali fossero i progetti di Schröder e da chi era guidato.

Tra Schröder, il Cancelliere federale e Lafontaine, il Presidente della SPD, c'era già stato probabilmente un accordo secondo il quale i principali cambiamenti nella linea politica dovevano essere risolti di comune accordo. Gerhard Schröder non vi si era attenuto fin dall'inizio.

Come dichiarato da Lafontaine, la Bild-Zeitung aveva già pubblicato una dichiarazione di Schröder secondo la quale egli non intendeva sostenere la politica economica di Lafontaine. Si trattava probabilmente della goccia che ha fatto traboccare il vaso.

C'era almeno una possibilità di rimanere in carica e di sopravvivere politicamente? Come Ministro delle finanze? Come leader di partito? Dal mio punto di vista, in entrambi i casi: No!

Al più tardi nel marzo del 1999 a Lafontaine doveva essere ormai chiaro che la differenza di opinioni con il Cancelliere Schröder non poteva essere piu' profonda, e gli era ugualmente chiaro che stavano cercando di metterlo in minoranza con tutti i mezzi possibili. Per me all'epoca non si trattava affatto di una nuova esperienza, avevo sperimentato lo stesso gioco nell'aprile e nel maggio del 1974 quando Willy Brandt si dimise da Cancelliere federale. A quel tempo ero a capo del dipartimento di pianificazione della Cancelleria federale e osservavo da vicino gli accadimenti. A quel tempo c'era lo stesso gioco di sponda fra gli oppositori politici degli altri partiti e alcune persone appartenenti alle loro stesse fila, e l'intera faccenda era sostenuta e rilanciata dai principali media. Willy Brandt, ad esempio, era accusato di avere delle storie con delle donne. (...)

Nel caso di Lafontaine la campagna mediatica veniva condotta anche sui media stranieri. Sul tabloid britannico Sun, ad esempio, era apparso un articolo secondo il quale Lafontaine sarebbe stato l'uomo più pericoloso d'Europa. All'allora presidente della SPD Lafontaine doveva essere già chiaro che contro la forza dei media vicini all'ambiente di Gerhard Schröder non ce l'avrebbe mai fatta. Schröder aveva a bordo con sé persone come Bodo Hombach, Wolfgang Clement e Uwe Karsten Heye che potevano gestire il gioco dei media in maniera estremamente professionale. La battaglia contro la forza di questi media sarebbe stata molto difficile, soprattutto perché la posizione del Cancelliere federale sul fronte mediatico è molto più interessante e forte rispetto a quella di un Ministro delle finanze e presidente della SPD.

Oskar Lafontaine ora ipotizza che sarebbe stato meglio restare in carica almeno come leader di partito. Io lo considero un errore. Il modello di una campagna contro un leader di partito, in carica parallelamente ad un Cancelliere dello stesso partito, lo conosciamo dal passato: quando Willy Brandt si dimise da Cancelliere federale, rimanendo tuttavia leader di partito e svolgendo un ruolo molto positivo nella politica e in particolare nelle campagne elettorali. (...)

Anche Lafontaine ha commesso degli errori

Soprattutto dopo le dimissioni, senza dubbio. Avrebbe dovuto lavorare di piu' sui media. Avrebbe dovuto persino presentarsi ai congressi di partito. Avrebbe dovuto spiegare la sua mossa. Bene, è facile dirlo oggi. Ovviamente c'è anche la psiche di un essere umano. Ma in politica purtroppo quando si resta in silenzio senza spiegare in maniera sufficientemente completa e chiara le proprie decisioni piu' importanti, bisogna anche prendere in considerazione il rischio di finire sotto le ruote del carro.


domenica 10 marzo 2019

H. W. Sinn: perché la Germania non è il vero euro-vincitore

H. W. Sinn su Handelsblatt mette in discussione il risultato del famoso studio del CEP di Friburgo secondo il quale la Germania sarebbe il vero vincitore nella guerra dell'euro. Per il professore il discorso è un po' piu' complesso e lo studio del CEP sarebbe piu' che altro il tentativo di portare acqua al mulino dell'unione di trasferimento. Ne scrive H. W. Sinn su Handelsblatt


La Germania, secondo uno studio condotto da Matthias Kulla e Alessandro Gasparotti del Centro per la politica europea (CEP), sarebbe il grande euro-vincitore. Dal 1999 al 2017 l'euro avrebbe garantito alla Germania un profitto cumulato di poco meno di 1,9 trilioni di euro rispetto a un gruppo di controllo di paesi che dal 1980 al 1996 avrebbero goduto di una crescita economica simile. E' opportuno avere dei dubbi sulla portata di questi risultati.

Per la Germania, come gruppo di controllo, lo studio prende in considerazione paesi come il Bahrein, il Giappone, la Svizzera e il Regno Unito, poiché negli anni fra il 1980 e il 1996 in quei paesi è stata osservata in media una crescita pro-capite simile. Ma questo confronto non può funzionare perché i dati tedeschi a causa della riunificazione, nel bel mezzo di questo periodo, presentano una frattura strutturale.

Il fatto che il nostro paese dopo aver superato i problemi dell'unificazione sia cresciuto più rapidamente del Bahrain non ha nulla a che fare con l'euro. La gamma delle possibili spiegazioni spazia dalle riforme di Schröder, alla crescita dell'outsourcing e dell'innovazione industriale fino al boom delle costruzioni.

Naturalmente anche la svalutazione reale che la Germania ha vissuto all'interno dell'eurozona a causa dell'inflazione negli altri paesi ha permesso al PIL reale di crescere grazie alle esportazioni. Ma questa svalutazione allo stesso tempo ha reso la Germania relativamente più povera. 

Fra i paesi che oggi hanno l'euro, il PIL nominale pro-capite tedesco nel 1996 era il secondo dopo quello del Lussemburgo. Poi nella difficile fase iniziale dell'euro è sceso fino al settimo posto del 2005. Dopo la crisi finanziaria, la Germania ha fatto meglio degli altri paesi e il PIL pro capito tedesco è risalito al sesto posto, dove si trova ancora oggi. I dati di un euro-vincitore dovrebbero essere diversi.

Il problema è che le esportazioni nel calcolo del PIL sono considerate come un indice di prosperità, anche se in realtà lo diventano solo nel momento in cui sarà certo che immediatamente o successivamente potranno essere convertite in importazioni per una somma di pari valore. In effetti le eccedenze commerciali tedesche non sono sempre state investite in maniera ragionevole, e spesso sono state utilizzate per acquistare titoli di debito esteri alquanto problematici. Una parte di questi titoli consisteva in obbligazioni di dubbia utilità, in gran parte di provenienza americana, il cui mancato rimborso ha contribuito al fatto che la Germania abbia dovuto cancellare centinaia di miliardi di euro di crediti esteri dal suo bilancio delle attività nette sull'estero. 

Un'altra parte è rappresentata dai crediti contabili della Bundesbank all'interno del sistema Target, che a fine 2017 superavano i 900 miliardi di euro. Ciò rappresentava circa la metà delle attività estere tedesche residue, dopo le svalutazioni, generate grazie alle eccedenze nell'export.

I crediti Target sono crediti senza scadenza che la Bundesbank non potrà mai esigere e che vengono remunerati al tasso di rifinanziamento principale. E presto potrebbero finire nel fuoco se la Lega in Italia dovesse trasformare in realtà la sua minaccia di voler uscire dalla moneta unica. Ma anche se non dovesse accadere nulla di drammatico, restano privi di valore in quanto il loro tasso di interesse attualmente è pari a zero e probabilmente resterà a zero ancora per molto tempo. Per una società privata un credito senza scadenza, che non genera interessi e il cui tasso di interesse in seguito potrà crescere solo con l'accordo dei debitori, sarebbe un credito senza valore da svalutare completamente.

In questo contesto bisogna notare che la Germania sul suo enorme patrimonio estero netto in generale ha ottenuto solo degli interessi molto bassi. Se la Germania nel periodo che va dal dal 2008 al 2017 su queste attività estere nette avesse ottenuto lo stesso tasso di rendimento che aveva prima della crisi Lehmann, in questi anni ci sarebbero stati 600 miliardi di euro in più disponibili per il consumo di beni stranieri.

Per gli autori dello studio questi aspetti non sono rilevanti, perché il reddito proveniente dagli investimenti esteri non è nemmeno parte del prodotto interno lordo. Gli autori vedono il prodotto interno lordo tedesco come una misura di prosperità, anche se questo viene definito come i redditi dei tedeschi e degli stranieri realizzati in Germania più i deprezzamenti. Se per il loro confronto avessero usato il reddito nazionale, avrebbero potuto individuare le perdite.

Alla luce di questi deficit, lo studio del CEP dovrebbe essere considerato inutilizzabile. Ma sarà utilizzato lo stesso perché è l'acqua che serve al mulino di coloro che ora chiedono una ridistribuzione fiscale nella zona euro, per poter chiedere al presunto euro-profittatore tedesco di passare dalla cassa.


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sabato 9 marzo 2019

Venne, vide e abbassò i tassi di interesse

Per la FAZ Mario Draghi passerà alla storia come il primo presidente della BCE a non aver alzato i tassi di interesse e soprattutto lascerà al suo successore un'eredità molto pesante. Per la stampa conservatrice Draghi resta l'autore di un enorme trasferimento di ricchezza ai danni dei risparmiatori e dei pensionati. Ne scrive Philip Plickert nel suo pistolotto sulla FAZ.


Venne, vide e abbassò i tassi di interesse. Quando quasi otto anni fa Mario Draghi è diventato il presidente della Banca centrale europea, il suo primo atto ufficiale fu il taglio dei tassi. I tassi di interesse e i tassi sui depositi vennero rapidamente portati sotto lo zero.

Draghi sta per entrare nei libri di storia come il primo presidente della BCE sotto la cui presidenza i tassi di interesse sono stati solo ridotti, e mai aumentati. Anche dopo cinque anni di crescita economica relativamente forte della zona euro, i tassi restano ancora a zero.

Inoltre, con un programma di acquisto titoli per trilioni di euro ha ulteriormente allentato la politica monetaria. Per i risparmiatori, che soffrono a causa dei mini-interessi e la cui previdenza per la vecchiaia perde valore, è davvero spiacevole.

Molti problemi vengono solo posticipati

Il Consiglio direttivo della BCE, in previsione di sviluppi economici e inflattivi più deboli, ha quindi deciso di posticipare ulteriormente il primo rialzo dei tassi. Si ipotizza che ciò accadrà non prima del 2020, vale a dire dopo la fine del mandato di Draghi alla BCE, previsto per la fine di ottobre.

Il suo successore, a cui lascia un bilancio molto inflazionato, si farà carico di una pesante eredità. Se l'economia dovesse continuare a scivolare, non è chiaro in che modo la BCE potrebbe contrastare la situazione: i tassi di interesse già ora sono al livello piu' basso. Una ulteriore riduzione del tasso sui depositi, già ampiamente in terreno negativo, all'interno del consiglio BCE non viene sostenuta da nessuno, assicura Draghi. Non si è nemmeno parlato di una ripresa degli acquisti netti di obbligazioni.

Se è onesto, dovrebbe però ammettere di aver già usato la maggior parte della polvere da sparo a disposizione della banca centrale. Negli Stati Uniti dopotutto la Federal Reserve già tre anni fa ha osato fare il primo passo sui tassi di interesse: il loro tasso ufficiale di interesse è già oggi al due e mezzo per cento. Se si presentasse il rischio di una recessione, la banca centrale americana potrebbe contrastarlo in maniera efficace. La BCE è invece è nuda.

In Europa tuttavia ci sono alcuni fattori strutturali che impediscono una vera e propria uscita da una politica monetaria accomodante: la BCE con i suoi bassi tassi di interesse e gli acquisti di obbligazioni di fatto sta sostenendo i paesi fortemente indebitati. Ad esempio difficilmente l'Italia potrebbe far fronte ad un aumento dei tassi di interesse.

Anche alcune delle banche che in buona parte dell'Europa meridionale stanno ancora soffrendo per i crediti deteriorati, difficilmente potrebbero sopravvivere a un'inversione di tendenza sui tassi di interesse. Di fatto, la BCE, con la sua politica dei tassi a zero, sta gestendo una grossa ridistribuzione di ricchezza dai creditori e dai risparmiatori, in favore dei debitori.

Tutto ciò fa parte del prezzo da pagare per "il salvataggio dell'euro". Il maestro dei tassi a zero, Mario Draghi, lo sa bene, e pensa anche che si tratti di un suo traguardo storico. Ma alla fine molti problemi vengono solo spostati nel futuro. E anche questo lui lo sa bene.

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