lunedì 26 novembre 2018

Arbeit muss sich lohnen

Mentre in Italia si parla del reddito di cittadinanza, la politica tedesca vorrebbe superare Hartz IV aumentando i sussidi ed eliminando le odiatissime sanzioni. Ora anche gli economisti finalmente ci spiegano quello che l'uomo della strada sa da sempre: tra lo stare a casa a prendere il sussidio facendo finta di cercare un impiego e lo svolgere uno dei tanti lavori malpagati o pagati al salario minimo (8.84 euro lordi l'ora), la differenza in termini di retribuzione non è poi cosi' grande. "Arbeit muss sich lohnen" significa che fino a quando non si aumenteranno i salari più bassi, mettendo in crisi interi settori dell'economia tedesca fondati sul lavoro a bassa retribuzione, sarà difficile andare oltre l'attuale Hartz IV. Ne parla su Die Zeit Marcel Fratzscher, economista e direttore del Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung di Berlino.


Hartz IV per molti è un drappo rosso. E negli ultimi tempi la discussione su come sostituire o superare Hartz IV si è riaccesa. Queste riforme spesso vengono considerate la causa dell'aumento della povertà, della crescita della disuguaglianza e della polarizzazione sociale. Hartz IV spesso viene usato come capro espiatorio per problemi la cui responsabilità risiede altrove. Invece di concentrarsi sul dibattito intorno ad Hartz IV, la politica dovrebbe riflettere su cosa fare affinché per molte persone torni ad essere conveniente andare a lavoro, e allo stesso tempo su come in questi anni di vacche grasse sia ancora possibile rendere i sistemi sociali a prova di futuro.

Il segretario dei Verdi Robert Habeck vorrebbe superare Hartz IV introducendo un sistema di garanzia con dei sussidi più elevati e senza sanzioni. Il segretario generale della SPD Lars Klingbeil propone un sussidio di disoccupazione Q, nel quale i disoccupati ricevono dei sussidi di disoccupazione fintanto che si trovano in un percorso di formazione e qualifica.

Con tali proposte lo stato sociale si mostrerebbe più generoso verso i disoccupati. Molto di cio' è certamente vero, specialmente l'abolizione delle sanzioni. Si deve rimettere al centro del sistema sociale il principio del sostegno, e non più quello della punizione. Abbiamo bisogno di un cambio di mentalità per riuscire a capire che le persone che oggi non lavorano non lo fanno per pigrizia, ma perché sono costrette da ragioni di salute, oppure per mancanza di qualifiche o perché non trovano un lavoro adatto alle loro competenze.

Una riforma intelligente dei sistemi di assistenza sociale non deve limitarsi alla riforma di Hartz IV. Sarebbe pericoloso e, nel peggiore dei casi, controproducente. Molte delle persone che oggi in Germania sono minacciate dalla povertà vivono in un nucleo familiare dove si lavora, ma in cui il reddito è insufficiente. Il settore a bassa retribuzione in Germania  negli ultimi 20 anni è cresciuto costantemente: oggi il 20 % di tutti i dipendenti lavora per un basso salario o si trova in un rapporto di lavoro precario o atipico. Soprattutto le donne, i genitori single, le persone con un background migratorio e gli anziani sono particolarmente a rischio povertà.

Anche con un lavoro a tempo pieno retribuito al salario minimo svolto per oltre 40 anni, quando il lavoratore andrà in pensione avrà comunque bisogno del sostegno dello stato. Quasi due milioni di lavoratori aventi diritto al salario minimo, in realtà non lo ricevono nemmeno perché i datori di lavoro riescono ad eludere il  minimo salariale di legge.

Molte persone in Germania lavorano solo part-time - non necessariamente perché vogliono farlo, ma perché ad esempio è quanto gli chiede di fare il datore di lavoro, oppure perché a causa della mancanza di servizi per l'infanzia non possono lavorare full-time, oppure perché per i minijob, i midijob o per via di un sistema fiscale e dei trasferimenti disfunzionale, alle persone con un reddito basso viene tolta una larga parte di quello che guadagnano.

Una riforma intelligente dei sistemi sociali dovrebbe quindi consistere di tre elementi: un miglioramento della sicurezza di base; un lavoro pagato meglio che valga la pena di essere svolto; e un rafforzamento dei sistemi sociali per renderli più sostenibili. Qualsiasi riforma del sistema della sicurezza di base sarà controproducente se renderà il lavoro sempre meno conveniente. Ancora oggi, chi lavora per un salario minimo riceve solo poco di più di quello che prenderebbe se fosse disoccupato. La stragrande maggioranza delle persone continua a lavorare perché il lavoro per loro ha un valore in sé, o perché magari trovano gratificante far parte di un team e ottenere un riconoscimento per quello che fanno. C'è il grande rischio, infatti, che molte persone possano considerare un miglioramento della sicurezza di base come una forma di svalutazione del proprio lavoro.

In altre parole, il lavoro deve essere ricompensato. Ciò richiede non solo che il settore dei bassi salari si riduca in maniera significativa, ma anche che le persone abbiano a disposizione delle opportunità di carriera migliori. Molti politici la fanno troppo facile quando pensano che un salario minimo più alto possa essere l'unica soluzione. Se si gira troppo la ruota del salario minimo, al prossimo rallentamento dell'economia un certo numero di persone finirà disoccupato. Ciò non significa tuttavia che il salario minimo sia uno strumento spuntato. Ma in aggiunta a ciò c'è una percentuale molto più alta di persone occupate nel settore dei bassi salari che deve essere garantita tramite contratti collettivi di categoria. A ciò si aggiunge la liberalizzazione di molti settori dei servizi, che servirebbe ad aumentare la concorrenza, l'efficienza e, in ultima analisi, i salari.

Altrettanto importante sarebbe un'offensiva nella formazione, perché troppi beneficiari di Hartz IV e troppi lavoratori a basso reddito non hanno qualifiche sufficienti o non ne hanno affatto. A tal fine i centri per l'impiego dovrebbero essere ridisegnati e diventare delle agenzie che si occupano dell'assistenza attiva e del supporto alle persone in stato di bisogno. Anche un mercato del lavoro come quello del modello del reddito sociale di base proposto a Berlino, che in definitiva darebbe a ogni disoccupato il diritto a lavorare e quindi la possibilità di accedere al mercato del lavoro privato, è una delle soluzioni possibili.

Per la politica è facile promettere grandi benefici sociali in questi tempi di vacche grasse. I forzieri sono ancora pieni. Ma deve essere chiaro a tutti che con il cambiamento demografico e la normalizzazione economica, le prestazioni dello stato sociale tedesco nei prossimi due decenni diminuiranno drasticamente. Ciò significa che per la politica sarà ancora più importante concentrarsi sul mercato del lavoro e sul modo in cui sempre più persone possano trovare lavoro a condizioni e salari migliori, e quindi alla fine, poter assumere una maggiore responsabilità per la propria vita. Il duplice obiettivo di un aumento delle pensioni e della spesa sociale oggi è facile da promettere, ma non potrà essere mantenuto nel lungo termine.

La politica deve dare alla riforma della sicurezza sociale un'elevata priorità. Allo stesso modo non dovrà esservi una politica del capro espiatorio che incolpa erroneamente Hartz IV dei problemi sociali e della eccessiva polarizzazione in Germania. I problemi - e con essi le soluzioni - si trovano altrove.



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sabato 24 novembre 2018

Perché il bilancio dell'eurozona è un compromesso al ribasso che non serve a nessuno

Per German Foreign Policy l'accordo franco-tedesco sul bilancio dell'eurozona è un compromesso al ribasso, che servirà a poco, ammesso che prima o poi si materializzi, e che soprattutto conferma ancora una volta l'egemonia tedesca in Europa e il fallimento dell'offensiva di Macron. Un'analisi molto interessante di German Foreign Policy


Il fallimento di Macron

Il bilancio della zona euro, sul quale Germania e Francia la scorsa settimana dopo una lunga trattativa hanno trovato un accordo e che lunedi hanno presentato all'eurogruppo, è considerato dal presidente francese Macron come una delle questioni piu' importanti del suo mandato. Nel suo tanto apprezzato discorso tenuto alla Sorbona nel settembre 2017, Macron aveva chiesto l'introduzione di un ministro delle finanze dell'eurozona e di un bilancio dell'eurozona per contrastare le spinte centrifughe nella zona euro e ridurre gli squilibri socio-economici. Le risorse finanziarie che i paesi dell'eurozona avrebbero dovuto versare nel bilancio comune erano stimate da Macron in diversi punti percentuali di PIL; si parlava quindi di diverse centinaia di miliardi di euro. Berlino invece sin dall'inizio ha sempre cercato di diluire e ritardare questo vasto progetto di riforma. L'attuale proposta è molto meno ambiziosa, infatti, ed è limitata, come il ministro dell'Economia francese, Bruno Le Maire, ha ammesso, a circa lo 0,2 % del PIL della zona euro: dai 20 ai 25 miliardi di euro. [1] Si tratta di numeri molto vicini a quanto proposto dal commissario tedesco al bilancio Guenther Oettinger, il quale già a fine 2017, in risposta all'ambiziosa incursione di Macron, aveva parlato di riservare all'interno del bilancio UE al massimo 20 miliardi di euro per la ulteriore stabilizzazione dell'eurozona.

Finanziamento non chiaro

I dettagli resi noti in merito all'accordo, peraltro molto vaghi, mostrano anche che nella resa dei conti tenutasi dietro le quinte, Berlino ha largamente prevalso su Parigi. I numeri sulla dimensione del bilancio comune non sono ancora vincolanti e il modo in cui dovrà essere finanziato non è ancora chiaro. Il bilancio dell'eurozona dovrebbe inoltre essere integrato all'interno del bilancio ordinario dell'UE. Il compromesso franco-tedesco è pertanto ben lontano dalle idee originali di Macron. Per la parte tedesca era molto importante integrare il futuro bilancio della zona euro all'interno del bilancio UE in modo da garantire che questo "fosse coerente con le politiche generali dell'UE e con le regole di bilancio", è scritto nelle motivazioni. Ed è proprio sulla scia della crisi dell'euro che queste regole sono state modellate sulle esigenze di Berlino. [2] Un altro punto di controversia tra Parigi e Berlino è la tassa sul digitale fortemente voluta da Macron, con la quale si vorrebbe far passare dalla cassa le società Internet statunitensi. Secondo i piani francesi questa tassa dovrebbe aiutare a finanziare il bilancio dell'eurozona. Il governo tedesco tuttavia è alquanto scettico riguardo a questo progetto perché l'industria automobilistica tedesca, che negli Stati Uniti ha un grande mercato, è vulnerabile alle rappresaglie americane. Le case automobilistiche francesi, che hanno una limitata presenza negli Stati Uniti, non hanno molto da temere da eventuali dazi punitivi statunitensi.

Divisi dall'euro

Gli osservatori ritengono che questo progetto di bilancio dell'eurozona non meriti nemmeno questo nome [3]. È poco più di un "simbolo" della capacità di raggiungere un compromesso fra entrambi i paesi; il governo federale avrebbe "smontato" le idee di Macron. Inoltre, non è nemmeno chiaro, "se il successore di Angela Merkel" vorrà ancora sostenere il progetto. E' fondamentale il fatto che ancora una volta è stata mancata l'opportunità di correggere un "difetto di fabbricazione" dell'area euro. Di fatto a causa della scomparsa dei tassi di cambio e della politica monetaria unica della BCE, le differenze economiche tra i paesi dell'euro non possono essere adeguatamente tenute in considerazione e ciò ha portato ai noti squilibri interni all'eurozona, favorevoli alla Germania. Un bilancio complessivo per l'eurozona sarebbe stato il "modo piu' giusto" per garantire "che le divergenze nelle condizioni di vita all'interno dell'unione monetaria non continuassero ad ampliarsi", affermano i critici; l'attuale compromesso, imposto da Berlino, non lo fa e presenta addirittura un ulteriore punto di rottura decisivo, in quanto "promuove la divisione tra stati dell'euro e non-euro". Inoltre, l'integrazione del bilancio dell'eurozona all'interno del bilancio UE, imposta da Berlino, significa che a decidere saranno congiuntamente tutti gli Stati dell'UE. Non è del tutto chiaro perché gli stati che non fanno parte dell'eurozona dovrebbero essere d'accordo sul progetto. In pratica, Berlino ha fatto in modo che Parigi con il suo bilancio dell'Eurozona vada a scontrarsi anche con i paesi dell'UE al di fuori della zona euro.

"Nessuna funzione anticiclica"

Gli esperti finanziari si aspettano che l'ampio fallimento delle proposte di riforma francesi, che prevedevano una maggiore integrazione europea in risposta alla crisi dell'euro e alla crescita dell'estrema destra, nel medio periodo non aiuteranno a rimuovere le cause della fragilità dell'economia europea. In considerazione dell'imminente rallentamento economico è particolarmente "deplorevole" che la riforma dell'area monetaria sia così "modesta", si sostiene [4] . L'accordo tra il presidente francese Emmanuel Macron e la Cancelliera Angela Merkel non può soddisfare la "ambiziosa funzione anticiclica", per la quale servirebbero invece massicci programmi di investimento che contribuiscano a ridurre gli squilibri e a prevenire le recessioni economiche. Al contrario la Commissione europea continua a discutere con Roma in merito al deficit di bilancio italiano, senza un prevedibile compromesso che "fornisca lo spazio finanziario per fare le riforme strutturali". (...)


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1] Deutschland und Frankreich einig bei Eurozonen-Budget. faz.net 16.11.2018.

[2] Eric Bonse: Eurobudget wird abmoderiert. taz.de 19.11.2018.

[3] Alexander Mühlauer: Das Euro-Zonen-Budget hat seinen Namen nicht verdient. sueddeutsche.de 20.11.2018.

[4] Editorial Board: The eurozone recovery continues to falter. ft.com 21.11.2018.

[5] S. dazu Paradebranche in Gefahr.

[6] Editorial Board: The eurozone recovery continues to falter. ft.com 21.11.2018.



venerdì 23 novembre 2018

Oskar Lafontaine: la nuova legge sull'immigrazione è colonialismo allo stato puro

Oskar Lafontaine, il leader storico della sinistra tedesca, commenta la nuova legge sull'immigrazione fortemente voluta da CDU e SPD. Un ottimo Lafontaine dalla sua pagina FB


La nazionalista dell'occupazione

"Fare l'interesse tedesco significa pensare sempre anche agli altri...oppure uno appartiene a quelli che pensano di poter risolvere tutto da soli e quindi devono pensare solo a se stessi. Questo è nazionalismo nella forma più pura", ha detto Angela Merkel oggi al Bundestag indirizzando le sue parole ad AFD.


Chi scava una fossa per gli altri, alla fine sarà lui stesso a finirci dentro. Questa saggezza popolare viene confermata ancora una volta da Angela Merkel. La Germania vende agli altri paesi piu' beni di quanti non ne acquisti da quei paesi. La Germania pensa quindi prima di tutto a se stessa ed esporta disoccupazione. Questo è il motivo per cui la metà del mondo si lamenta per il nazionalismo dell'export tedesco.

Non impressionati da tutto ciò, l'economia tedesca da anni continua a lamentarsi a causa della presunta carenza di lavoratori qualificati. E apparentemente non sembrano essere infastiditi dal fatto che nel suo rapporto di giugno sulla "scarsità di manodopera specializzata" la Bundesagentur für Arbeit scriveva chiaramente: "in Germania non si può ancora parlare di una carenza generalizzata di manodopera qualificata". Che succede allora? L'economia tedesca ha bisogno di manodopera a basso costo, che negli ultimi anni è arrivata dall'Europa, soprattutto dall'Europa dell'Est. Con la nuova legge sull'immigrazione potranno arrivare in Germania sempre piu' "lavoratori specializzati" provenienti dai paesi in via di sviluppo.

A ottobre in Germania c'erano 2,2 milioni di persone registrate come disoccupate. Se si includono quelli che non compaiono nelle statistiche ufficiali - disoccupati di lunga durata sopra i 58 anni, quelli coinvolti in misure formative e quelli temporaneamente malati - si arriva a oltre 3,1 milioni di disoccupati.

Gli effetti devastanti del nazionalismo dell'occupazione tedesco sono evidenti nel settore sanitario. Già ora, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, in quasi la metà dei paesi del mondo non viene garantita nemmeno l'assistenza sanitaria di base. Gli scienziati dell'Università di Harvard hanno calcolato che nei paesi più poveri anche un solo medico in piu' ogni 1.000 abitanti basterebbe a ridurre la mortalità infantile del 15% a medio termine e del 45% nel lungo termine. I paesi ricchi dovrebbero quindi fare in modo che vi sia più personale medico e non fare il contrario, cioè andare lì a reclutare medici e infermieri.

Questo vale anche per molti altri mestieri. I paesi poveri non hanno nulla di piu' prezioso di una forza lavoro ben istruita. Ma ora il ricco nord del mondo vorrebbe derubare questi paesi, non solo delle materie prime, ma anche delle poche persone istruite. Questo è colonialismo nella sua forma più pura.

Molti parlamentari del Bundestag tedesco, di tutte le forze politiche, sostengono questo nazionalismo dell'occupazione, perché guardano solo agli interessi dell'economia tedesca. Non si accorgono affatto di ciò che stanno facendo alle persone provenienti dai paesi piu' deboli d'Europa e del mondo. Oppure li rassicura il fatto che i lavoratori in questo modo potranno inviare denaro alle loro famiglie.

Come se non bastasse si danno anche una pacca sulla spalla per celebrare il loro umanesimo e internazionalismo.

Forse, dopo Macron, dovrebbero invitare a parlare Bernie Sanders: "L'immigrazione dei lavoratori non aiuta né i più deboli nei paesi d'origine, né i più deboli nei paesi di arrivo".



giovedì 22 novembre 2018

H.W. Sinn: che abbia inizio il prossimo atto della tragedia italiana (parte seconda)

Hans Werner Sinn, anche se ormai da qualche anno è in pensione, non si fa sfuggire l'occasione per commentare dalle colonne della Frankfurter Allgemeine Zeitung la situazione italiana. Per il brillante economista tedesco gli italiani con i loro ricatti cercheranno di spillare quanti piu' soldi possibile ai "partner europei", ma l'ultimo atto di questa tragedia potrebbe essere l'uscita dalla moneta unica. Dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung (si arriva da qui)

Hans Werner Sinn
Hans Werner Sinn

Ci sono solo quattro opzioni per contrastare l'eccessivo aumento dei prezzi in Italia. La prima strada è quella di avviare di nascosto un'unione di trasferimento. In primo luogo si mettono in comune i debiti che poi vengono garantiti congiuntamente. Poi i creditori privati ​​vengono sostituiti da quelli pubblici, e il debito allungato ed eroso dalla riduzione degli interessi. Alla fine i contribuenti degli altri paesi dell'eurozona danno dei soldi ai debitori affinché questi possano ripagare i loro debiti verso gli investitori finanziari, possano continuare ad acquistare i beni dalle imprese esportatrici e, non da ultimo, per impedirgli di lasciare l'euro.



Ciò renderebbe l'Italia intera ciò che già oggi è il Mezzogiorno italiano: un percettore di trasferimenti dal nord, troppo caro, che non diventerà mai competitivo e che dovrà essere costantemente finanziato dall'esterno. I trasferimenti sarebbero sostanzialmente delle tangenti pagate ai gruppi politici per dare loro qualche altro anno di tranquillità. In realtà l'Europa non può permetterselo perché in una competizione globale sempre più difficile dovrà impegnarsi per diventare economicamente sempre più forte, e non più debole. Nella realtà questo percorso è già stato avviato da molto tempo. E il governo francese infatti insiste affinché si proceda creando un'assicurazione comune sui depositi bancari, un'assicurazione congiunta contro la disoccupazione e un bilancio della zona euro. Si parla sempre di presunti "shock asimmetrici" esogeni da cui bisogna proteggersi - come se la crisi nel Sud Europa avesse a che fare con degli eventi casuali, ingestibili e transitori.

La seconda opzione consiste in una riduzione dei prezzi per correggere l'eccesso di inflazione dei primi anni dell'euro. Ciò implica dei tagli ai salari oppure degli incrementi di produttività senza la partecipazione dei dipendenti. E' una forma di chemioterapia per l'economia che potrebbe spingere il paziente verso la disperazione. Affittuari e debitori andrebbero in bancarotta perché i loro obblighi di pagamento resterebbero invariati, mentre i salari diminuiscono. Questa modalità inoltre, non solo richiede un miracolo in termini di produttività, ma anche una visione che i sindacati italiani non hanno ancora mostrato di avere. Durante l'eurocrisi la Grecia è diventata piu' economica rispetto ai suoi concorrenti del 12% e la Spagna dell'8%, l'Italia invece non ha fatto nulla. Dal 2007 il livello dei prezzi dei beni auto-prodotti è cresciuto alla stessa velocità di quello dei suoi concorrenti nell'area dell'euro.

La terza opzione possibile consiste in una lunga fase inflattiva nei paesi dell'Europa settentrionale, in particolare in Germania. L'apprezzamento italiano nei confronti della Germania rispetto al 1995 è stato del 39%. Per compensarlo la Germania dovrebbe avere per 16 anni un'inflazione del 2 % piu' alta di quella italiana. Per gli italiani sarebbe insopportabile, mentre i risparmiatori tedeschi salirebbero sulle barricate.

La quarta via consiste in un'uscita temporanea dell'Italia dall'euro secondo il piano dell'estate 2015, pensato da Wolfgang Schäuble per la Grecia, e all'epoca approvato informalmente dai 15 ministri delle finanze dell'Ecofin. Il problema sarebbe la probabile fuga dei risparmi che l'Italia dovrebbe affrontare con dei controlli sui movimenti di capitale, almeno fino a quando l'uscita non sarà completata. Dal punto di vista italiano questo percorso avrebbe alcuni vantaggi. L'economia grazie alla svalutazione tornerebbe a crescere molto rapidamente mentre i rapporti di credito interni tornerebbero in equilibrio, in quanto sarebbero convertiti in lire e svalutati, e anche una parte del debito estero potrebbe essere convertito e svalutato. Le banche francesi tuttavia verrebbero colpite duramente, dato che sono esposte verso l'Italia circa tre volte e mezzo in più rispetto a quelle tedesche. Dal punto di vista politico questo passo per i principali politici europei equivarrebbe ad ammettere il loro fallimento. E il mercato dei capitali si verrebbe a trovare in una situazione di notevole turbolenza.
Hans Werner Sinn
Hans Werner Sinn



Ovviamente nessuna di queste strade offre una facile soluzione per i problemi italiani; la prima meno di tutte le altre, che invece molto probabilmente sarà quella scelta sotto l'influenza delle lobby della finanza e dell'export. L'Eurozona è finita in un vicolo cieco. Il nuovo governo italiano lo sa molto bene. Esclude categoricamente il secondo percorso (riduzione dei prezzi), e realisticamente nel prossimo futuro non può aspettarsi alcun successo dal terzo percorso (inflazione del Nord). Si concentra pertanto sulla prima opzione (unione di trasferimento) e si tiene la quarta via, l'uscita temporanea dall'euro, in maniera piu' o meno chiara, come una potenziale minaccia da agitare.

ll portavoce della Lega, l'economista finanziario Claudio Borghi, ha dichiarato che il suo partito vorrebbe introdurre una moneta parallela per risolvere i problemi finanziari italiani, i cosiddetti mini-bot. Secondo le sue parole si tratterebbe di titoli di stato di piccole dimensioni, trasferibili, denominati in euro e destinati a circolare come moneta cartacea. Dato che con i mini-bot si potranno pagare le tasse per un importo pari a quello stampato sul titolo, probabilmente sarebbero scambiati solo con un piccolo sconto rispetto agli euro reali. L'Italia spera così di poter estinguere una parte del suo debito nazionale ricorrendo ai mini-bot.



Paolo Savona, il ministro per l'Europa del nuovo governo, si spinge oltre. Nel 2015 aveva già formulato fin nel dettaglio una exit-strategy sotto forma di uscita dalla moneta unica. Il piano di Savona, tuttavia, non sapeva come risolvere il problema della stampa delle banconote fisiche senza che il mercato dei capitali se ne accorgesse.

I mini-bot risolverebbero questo problema. Dal momento che verrebbero introdotti prima dell'uscita, sarebbero già a disposizione se improvvisamente in un fine settimana si dovesse perfezionare la conversione valutaria. Tutti i conti bancari, tutti i contratti di lavoro, quelli di affitto e tutti i contratti interni di credito verrebbero mantenuti, solo che il simbolo dell'euro sarebbe sostituito con il segno della lira. Savona vorrebbe trasformare in lire anche il debito pubblico emesso prima del 2012. Si tratta ancora dei tre quarti di tutti i titoli in circolazione. Ci sarebbero quindi altri tagli al debito in modo da ridurre ulteriormente il peso del debito pubblico. I debiti Target di Banca d'Italia nei confronti dell'Eurosistema verrebbero annullati. Potrebbe anche funzionare visto che dopo l'uscita dall'euro non esiste una base legale per il loro rimborso e anche perché molti politici tedeschi di spicco li hanno definiti come degli "irrilevanti saldi di compensazione". Naturalmente tutto dovrebbe essere tenuto segreto fino all'ultimo secondo al fine di evitare una fuga di capitali.

L'Europa dovrà dare all'Italia ancora molto denaro per scongiurare che tutto ciò accada. In ogni caso, che abbia inizio il prossimo atto della tragedia italiana.


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La tragedia italiana secondo Hans Werner Sinn

Hans Werner Sinn, anche se ormai da qualche anno in pensione, non si fa sfuggire l'occasione per commentare sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung la situazione italiana. Per il brillante economista tedesco gli italiani con i loro ricatti cercheranno di spillare quanti piu' soldi possibili ai "partner europei", ma l'ultimo atto di questa tragedia sarà l'uscita dalla moneta unica. Dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung (prima parte)

Hans Werner Sinn
Hans Werner Sinn

Si può discutere dell'attuale disputa fra UE e Italia in chiave moraleggiante e condannare i presunti eccessi italiani. Questo conflitto tuttavia può anche essere interpretato come il risultato di azioni sconsiderate di messa in comune che hanno causato dei gravi danni all'integrazione europea.

Il debito pubblico italiano è da sempre elevato e nelle banche italiane sonnecchiano da tempo delle enormi riserve di crediti deteriorati. La Commissione europea già da molti anni avrebbe dovuto regolare le banche in maniera più' severa e limitare i titoli del debito pubblico, ma non lo ha fatto. Che ora improvvisamente si agiti per un rapporto deficit/pil del 2,4 % è dovuto piu' che altro al fatto che i nuovi partiti euro-scettici in Italia si sono profilati come i concorrenti del vecchio establishment politico. E ora si vuole fare del paese un esempio per educare tutti gli altri. Dopo il rifiuto da parte del governo italiano di ridurre il deficit di bilancio, la Commissione europea potrebbe imporre delle multe pesanti. L'Italia tuttavia non sembra avere alcuna intenzione di pagare per queste sanzioni e cerca invece lo scontro aperto. Non viene piu' nemmeno invocata una soluzione amichevole. Il governo italiano è stato eletto per adottare misure radicali. E dalla popolazione italiana sarà valutato in base alla capacità di essere all'altezza di queste aspettative.

La storia dell'Italia nell'euro è una storia di crediti e garanzie pubbliche, di garanzie messe in comune e di sovvenzioni attraverso le quali il paese è stato tenuto a galla. Tutti questi aiuti hanno agito come farmaci che calmavano i mercati finanziari e la popolazione. Ma non hanno contribuito a risolvere i problemi strutturali del paese. Hanno invece distrutto la competitività dell'Italia e aumentato la dipendenza del paese dal debito.

Già nei primi anni '90 lo stato italiano si è trovato vicino alla bancarotta. Il debito pubblico si attestava infatti al 120% del PIL e l'Italia doveva pagare più del 12% di interessi sui titoli di stato decennali. L'onere per gli interessi era insopportabile, il collasso dello stato sembrava inevitabile. Si faceva nuovo debito per pagare i vecchi debiti e anche una parte degli interessi. L'euro è stato quindi introdotto per ridurre l'onere sugli interessi. I tassi di interesse italiani infatti in previsione dell'introduzione dell'euro in quegli anni diminuivano di circa cinque punti percentuali, avvicinandosi al livello tedesco. Senza dare troppa importanza alla clausola di no-bailout del Trattato di Maastricht, gli investitori erano convinti che i paesi della zona euro sarebbero stati comunque protetti contro una bancarotta dello stato. Si presumeva che l'Italia avrebbe potuto stampare da sé il denaro per estinguere i propri debiti o che gli altri paesi avrebbero aiutato direttamente l'Italia, cosa che poi è accaduta realmente in seguito.

Per lo stato italiano l'euro è stato almeno inizialmente una benedizione. La valuta comune ha fatto risparmiare così tanti interessi che con quei soldi l'Italia avrebbe potuto tranquillamente eliminare l'IVA. Se l'Italia avesse usato i bassi tassi di interesse risparmiati per rimborsare i propri debiti, il rapporto debito/PIL oggi sarebbe ben al di sotto del 60%. Ma l'Italia ha agito diversamente. Lo stato non solo ha speso tutto il taglio dei tassi d'interesse, ma ha sfruttato anche l'opportunità per fare altro debito. Il doppio incremento della spesa pubblica ha generato una domanda aggregata che ha fatto aumentare i prezzi italiani più velocemente rispetto a quanto accadeva nel resto dell'area dell'euro. Dal 1995, anno in cui si è deciso di introdurre l'euro, fino allo scoppio della crisi Lehman di dieci anni fa, l'Italia, compreso un apprezzamento iniziale della lira, è diventata del 40 % più cara rispetto alla Germania, usando come indice i prezzi dei beni auto-prodotti, rilevante nelle questioni relative alla competitività. Nessun paese può sopravvivere a un simile "apprezzamento reale" senza subire dei danni.

L'apprezzamento è stato sostenibile fino a quando il mercato dei capitali è stato disponibile a finanziare il crescente deficit di conto corrente italiano. Ma quando il mercato dei capitali dopo la bancarotta di Lehman ha smesso di farlo, i tempi apparentemente buoni sono finiti, e l'Italia è crollata. La perdita di competitività è emersa senza pietà. La disoccupazione è salita a circa il 12% e la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli superiori al 40%. Al netto, dopo aver dedotto le nuove società, un quarto delle imprese attive nell'industria manifatturiera è fallita. E' comprensibile che i nervi degli italiani oggi siano scoperti e non ne vogliano sapere piu' nulla dell'UE: solo il 43% vuole rimanere ancora nell'UE, meno che in qualsiasi altro paese.

Anche negli altri paesi dell'Europa meridionale l'euro non ha funzionato molto bene. Come mostra la tabella qui sotto, nell'ultimo decennio, nessun paese dell'Europa meridionale è riuscito a riportare la produzione industriale al livello raggiunto all'inizio della crisi finanziaria. Mentre i paesi di lingua tedesca hanno superato la crisi rapidamente e ora sono del 9 % (Germania) e del 18 % (Austria) al di sopra del livello pre-crisi, l'Italia ha perso il 17 %. La Francia, i cui mercati di sbocco si trovano nel sud e le cui banche hanno prestato molto denaro in quei paesi, ha registrato un calo del 9% rispetto ai livelli pre-crisi.


Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, come riferito dall'ex direttore della BCE Lorenzo Bini Smaghi, già durante la recessione del 2011 aveva condotto dei negoziati segreti per far uscire l'Italia dalla zona euro. Lo stesso aveva fatto all'epoca il primo ministro greco Papandreou, come da lui confermato nel 2016 a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera. Entrambi volevano far tornare competitivi i loro paesi tramite una svalutazione. Ma sono stati costretti dalle banche e dalle presunte forze dell'UE ad abbandonare i loro incarichi prima che potessero realizzare i loro progetti. Entrambi si sono dimessi nella stessa settimana alla fine del 2011. In Grecia, poi è andato al potere un governo di sinistra. In Italia i presidenti del consiglio Monti, Letta, Renzi e Gentiloni hanno provato a fare le riforme, ma hanno ottenuto poco o nulla - comunque niente che abbia potuto far voltare pagina all'industria italiana.

La politica europea durante la crisi non si è fondata sulle riforme strutturali dell'Eurosistema, ma sui salvataggi finanziari. Con tali salvataggi, infatti, sono state salvate in primo luogo le banche e gli investitori francesi, tedeschi e degli altri paesi. I salvataggi sono iniziati con gli scoperti di conto sui saldi Target, che Banca d'Italia ha approvato come se si trattasse di un'azione di auto-aiuto. Poi è arrivato il "Securities Markets Program" della BCE, che a partire dall'estate del 2011 ha costretto le banche centrali del nord ad acquistare titoli di Stato italiani. Poiché  per i mercati questo non sembrava essere abbastanza, nel 2012 è arrivata la promessa da parte del presidente della BCE Mario Draghi („Whatever it takes“), promessa che ha trasformato implicitamente i titoli di stato dell'eurozona in eurobond e ha spostato sui contribuenti europei il peso delle garanzie senza chiedere la loro opinione. Il fondo di salvataggio permanente ESM ha completato la promessa di protezione. Nel 2015 poi è arrivato il programma di "quantitative easing" della BCE, all'interno del quale sono stati acquistati titoli di Stato dei paesi euro per un valore di 2.100 miliardi di euro, dei quali il 17 per cento è attribuibile al riacquisto di titoli di stato italiani da parte di Banca d'Italia. Questa azione ha catapultato il saldo target di Banca d'Italia al valore di 490 miliardi di euro.

Tutti questi programmi hanno fatto in modo che gli investitori francesi e del nord Europa non perdessero i loro soldi rendendo la vita nel Sud appena sopportabile, ma allo stesso tempo hanno anche danneggiato l'industria italiana, in quanto hanno reso possibili dei salari troppo elevati in rapporto alla produttività, salari cresciuti durante la bolla pre-Lehman. Chi ritiene che il nuovo surplus delle partite correnti italiano possa dimostrare che il paese ha superato la fase piu' difficile trascura il fatto che questo surplus è dovuto quasi esclusivamente al crollo delle importazioni causato dalla crisi e dalla riduzione dei tassi di interesse sul debito estero.

La bugia sul "tempo per fare le riforme" che si sarebbe potuto comprare con gli aiuti finanziari si è rivelato per quello che era fin dall'inizio: un trucco di pubbliche relazioni pensato da politici con una visione di breve periodo che avevano come obiettivo quello di rinviare le dolorose ma necessarie riforme dell'eurosistema. Il fallimento dei programmi di aiuto mostra molto chiaramente il fallimento dell'idea secondo la quale la politica europea avrebbe potuto generare più disciplina in materia di debito rispetto ai mercati. Gli investitori privati ​​possono frenare la corsa all'indebitamento quando questo diventa eccessivo. Possono bloccare il flusso di credito o chiedere tassi di interesse così elevati che i debitori perdono l'appetito.

Questo è il principio di fondo dell'economia di mercato e dei sistemi federalisti che funzionano allo stesso modo. Basti pensare ai problemi finanziari dei singoli stati degli Stati Uniti, che iniziano già con un indebitamento al 10 % del PIL, oppure alla disciplina richiesta dal mercato dei capitali ai cantoni svizzeri. La BCE e la comunità internazionale hanno indebolito questo principio, abbassando gli spread dei paesi altamente indebitati con i vari sistemi di messa in comune delle garanzie, sistema avviato con l'euro stesso, nella speranza che poi si sarebbe riusciti a tenere sotto controllo gli stati membri con dei mezzi legali. L'ingenuità di questa convinzione si è inesorabilmente rivelata nella nuova crisi italiana.


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venerdì 16 novembre 2018

Thomas Fricke su Der Spiegel: l'Italia vittima dei dogmi economici tedeschi

Un ottimo Thomas Fricke su Der Spiegel, non senza ironia, mette a nudo i dogmi economici di Bruxelles e Berlino e prova a spiegare ai tedeschi perché certe ricette economiche che a nord delle Alpi godono della massima considerazione, alla prova dei fatti potrebbero rivelarsi pura ciarlataneria. Bisogna dare atto a Thomas Fricke di essere uno fra i pochi che sulla cosiddetta "stampa di qualità" tedesca riesce a farsi pubblicare qualcosa di vagamente favorevole nei confronti dell'operato del governo italiano. Un brillante Thomas Fricke Da Der Spiegel


Si parla sempre piu' spesso di questa intelligenza artificiale che dovrebbe renderci la vita più facile e farci diventare tutti disoccupati. Perché i robot sanno fare tutto meglio. Sebbene di solito si finisca per menzionare un'assurdità come le auto a guida autonoma. O Alexa, che, zack, accende la luce.

Su questo tema ci sarebbe un campo di attività dell'intelligenza umana tradizionale nel quale le macchine potrebbero avere davvero un ruolo: capire perché in realtà un paese ha un successo economico superiore rispetto a un altro paese. E in poche parole andare dritto al punto: cosa dovrebbe fare l'italiano? Anche se fare ricorso al termine intelligenza per descrivere ciò che gli economisti tradizionali sono stati in grado di proporre fino ad ora puo' essere considerata una scelta decisamente amichevole e generosa.

Detto seriamente: se cosi' tanti italiani hanno votato per i populisti arrabbiati che non ne vogliono sapere di rispettare le vecchie raccomandazioni, cio' non ha molto a che fare con il fatto che l'italiano di per sé é un po' strano. Per anni l'Italia ha fatto esattamente ciò che le veniva chiesto di fare dalla dottrina economica standard dispensata via Bruxelles, oppure cio' che Wolfgang Schäuble pretendeva.

Solo che tutto ciò non ha portato grandi risultati - cosa che anche l'italiano ad un certo punto ha notato. E in secondo luogo perché quello che ora Bruxelles e Berlino chiedono agli italiani di fare, per salvare il paese e come alternativa ai piani del governo populista di destra-sinistra, è ancora meno convincente. Quindi: dovete fare ancora riforme. Secondo la vecchia dottrina ortodossa. Una sorta di teologia economica.

Secondo questa dottrina originale un paese deve sempre e comunque semplificare le regole, ridurre la burocrazia, rendere piu' facile il taglio dei costi per le aziende, alzare l'età pensionabile invece di abbassarla, rallentare l'indebitamento e fare più pressione sulla popolazione affinché anche i lavori mal pagati vengano accettati. Perché in questo modo l'economia diventa più dinamica e ciò crea lavoro e persone piu' felici.

Se ciò fosse vero l'economia italiana dovrebbe essere almeno tendenzialmente più dinamica rispetto al 2011, e l'italiano sicuramente più felice.

L'inflazione da anni in Italia è piu' bassa che in Germania

Da allora nel paese l'età pensionabile è stata gradualmente aumentata, è stato introdotto un freno all'indebitamento, introdotte leggi contro la corruzione, è stata allentata la protezione contro il licenziamento, sono aumentati i costi in caso di malattia, le poste e altri servizi sono stati (parzialmente) privatizzati, è cresciuta la pressione sui disoccupati, ridotta la burocrazia, promossi accordi salariali flessibili nelle aziende, semplificate le pratiche negli appalti pubblici, promosso il miglioramento della morale fiscale e accelerati i procedimenti giudiziari. Per fare solo alcuni esempi.

In quel periodo ad esempio gli italiani sono stati vicini ai primi della classe nella speciale classifica dello zelo riformatore ideata dal think tank del Lisbon Council. Secondo i criteri economici ortodossi, da allora l'Italia dovrebbe essere osannata come un esempio con:

- un avanzo commerciale con l'estero di circa 50 miliardi di euro;

- un surplus nel bilancio pubblico prima degli interessi pari a  circa il due per cento del PIL;

- un'inflazione che per anni è stata inferiore rispetto a quella della Germania.

L'americano a questo punto per l'invidia dovrebbe sprofondare nella tristezza piu' profonda.

Solo che tutto questo non ha fatto crescere l'economia più rapidamente - e non ha reso gli italiani così felici da rieleggere prontamente quei politici che hanno fatto tutte queste belle riforme. Cosa che Gerd Schröder avrebbe potuto dirgli con largo anticipo.

Dal 2011 i governi italiani nel complesso non hanno riformato meno di quanto abbiano fatto i tedeschi ai tempi dell'Agenda 2010 - e il loro governo è stato punito elettoralmente tanto quanto i rosso-verdi. Solo che nel frattempo in Germania c'è stata una crescita economica piu' forte e un aumento significativo dell'occupazione. Il che, a ben vedere, era dovuto solo in parte alle riforme dell'Agenda e molto piu' al fatto che mezzo mondo all'epoca stava facendo festa e aveva bisogno di macchinari o automobili. E la Germania ha beneficiato della crisi dell'euro. Ha avuto fortuna

Negli ultimi anni dopo la crisi finanziaria nessuno ha piu' fatto una vera festa, motivo per cui l'economia italiana non è uscita dalla crisi come all'epoca invece aveva fatto quella tedesca.

Non esiste una ricetta che funziona in tutti i paesi

Anche questo rende ancora piu' assurdo pretendere che una dottrina di salvezza economica funzioni allo stesso modo sempre e ovunque - sempre che funzioni. Ci sono di fatto paesi alquanto dinamici come i nordici, dove le persone pagano molte tasse e lo stato è molto presente. Situazione che in realtà non è prevista dai testi ortodossi. Altri paesi, almeno a prima vista, potrebbero andare d'accordo con i libri di testo. Come Singapore. Ma a cosa serve confrontarsi con uno staterello così speciale?

Se dal punto di vista politico-finanziario c'è una lezione che possiamo trarre dagli anni della crisi, è che se l'economia va bene il debito pubblico nel lungo periodo tende a scendere. Fatto che ci riporta alla questione di fondo: in che modo una simile economia può diventare più dinamica senza che le persone corrano a dare il voto ai populisti? Se vengono fatte molte riforme senza che le cose inizino ad andare un po' meglio, almeno dopo un periodo iniziale difficile, la gente alla fine voterà per i partiti di protesta. E quindi non servirà a molto chiedere più riforme se queste non sono servite a nulla. Almeno non abbastanza da convincere gli elettori.

A cosa serve avere l'industria più competitiva, se poi la società viene dilaniata dagli effetti collaterali dovuti alle divergenze sempre piu' drastiche dei redditi? E alla fine arriveranno i populisti a cui le regole non interessano troppo. Vedi Roma.

Certo, ci sono quello e quell'altro indizio che suggeriscono che la tale riforma tende a funzionare meglio di un'altra. Ma la saggezza dell'economia non va molto oltre. Quello che funziona in un dato paese e in un dato momento in un particolare ambiente economico, non  funzionerà necessariamente allo stesso modo nel prossimo paese. E il successo dipende anche da quanto le riforme e i tagli possano essere sostenibili democraticamente.

Serve anche a poco il fatto che gli esperti del Fondo Monetario Internazionale abbiano raccomandato al governo di Roma misure che generano una maggiore crescita economica - se queste poi sono collegate alla solita sentenza sacrale degli economisti secondo i quali questa o quella riforma produrrà una crescita "di lungo termine". Con un po' di fortuna. Forse.

Poca conoscenza, grande risolutezza

La risolutezza con cui specialmente da Bruxelles o da Berlino dall'Italia si pretende questo o quel comportamento è sorprendentemente contraddetta dal fatto che pochi economisti sanno cosa realmente fa bene alla crescita economica e (quindi) cosa fa scendere il debito pubblico.

Fatto che potrebbe portare a una conclusione fondamentale: un esercizio così delicato dovrebbe essere lasciato ai governi i quali dovranno poi rispondere ai loro elettori di quello che hanno fatto.

Almeno fino a quando i nostri amici nella ricerca economica non saranno in grado di sviluppare il primo economista equipaggiato con una intelligenza artificiale sufficiente tale da dirci cosa dovrebbe fare esattamente un governo per aumentare la crescita economica in un paese. Sarebbe utile davvero.




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Il sogno tedesco di un esercito europeo

Quando si tratta di mettere in comune i debiti con i sud-europei, dalla Germania arriva puntuale il solito "coro di Nein". Quando invece si parla di dotare l'UE di un vero esercito europeo arriva un bel "coro di Ja" e tanto entusiasmo. Tutto questo entusiasmo per il presunto esercito europeo probabilmente è solo il dito dietro il quale la politica tedesca vorrebbe nascondere le proprie ambizioni: affiancare alla grande potenza esportatrice un esercito in grado di difendere gli interessi tedeschi su scala globale per trasformare il gigante economico in un gigante politico. Ne parla un ottimo German Foreign Policy.


Forza militare come nuova spina dorsale dell'UE

La creazione di una forza militare comune europea da molto tempo è uno degli obiettivi della politica europea di Berlino. "Nell'UE ... dobbiamo andare verso un esercito comune europeo", sosteneva ad esempio già nel marzo 2007 la Cancelliera Angela Merkel in un'intervista alla Bild Zeitung. [1] In maniera identica si esprimeva anche la SPD. Si tratta "di far partire un processo di sviluppo, il cui sbocco sarà un esercito europeo", era scritto in un documento del gruppo di lavoro sulla difesa della frazione parlamentare della SPD: "gli eserciti nazionali saranno ... sempre più una reliquia del secolo scorso" [2].  I vertici politici tedeschi hanno continuato ad avanzare questa richiesta con regolarità. A volte il concetto viene collegato con un altro messaggio: le truppe europee congiunte potrebbero aiutare a saldare l'UE in maniera ancora piu' forte. Il "progetto europeo per una politica di sicurezza e di difesa comune" sarà "il motore per una ulteriore integrazione europea", aveva dichiarato l'allora ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle nel febbraio 2010. [3] Qualche tempo dopo su di un influente quotidiano tedesco ritenuto di orientamento liberale (sueddeutsche.de) si poteva leggere: "un esercito permanente per l'unione di tutti gli Stati sarebbe qualcosa di simile a una nuova spina dorsale per tutta l'Europa" [4] Il concetto era stato ribadito anche nel dicembre 2017 dal Ministero della Difesa tedesco in occasione dell'avvio del processo per la creazione delle strutture militari comuni ("PESCO"): "con la comunità di difesa dell'UE, il processo di integrazione dell'UE sta vivendo un nuovo impulso" [5].

"Ridurre le riserve parlamentari"

Nei giorni scorsi il presidente francese Emmanuel Macron ha rilanciato la richiesta di creare un esercito europeo. L'occasione è stata il lancio da parte di Parigi della sua Iniziativa di Intervento Europeo (Initiative européenne d'intervention, IEI). [6] A tal proposito Macron ha ribadito che è giunto il momento di costituire "un vero esercito europeo": "l'Europa" dovrà essere in grado di potersi "difendere senza dipendere interamente dagli Stati Uniti". Anche i vertici politici tedeschi hanno espresso il loro sostegno. Proprio nel fine settimana il leader della Spd Andrea Nahles si è espressa a favore di un "esercito europeo": "dobbiamo farla finita con i piccoli stati". Katarina Barley, il ministro della Giustizia e candidato SPD alle elezioni europee ha detto che le forze militari congiunte sarebbero una "vera assicurazione sulla vita per l'Europa". [7] Il presidente della Commissione affari esteri del Bundestag, Norbert Röttgen (CDU), si è unito al coro dichiarando: "senza capacità militari congiunte", ha detto, "la politica estera europea comune non potrà essere presa sul serio" [8]. Il Segretario Generale della CDU Annegret Kramp-Karrenbauer a sua volta ha collegato la richiesta con la proposta di limitare il potere legislativo del Bundestag in materia di operazioni militari. "Credo che un esercito europeo abbia senso", ha detto Kramp-Karrenbauer, candidata alla segreteria della CDU  come successore di Angela Merkel: "lungo il percorso che ci porta a questo obiettivo, dovremo ridurre le prerogative a disposizione del Bundestag in materia di schieramento all'estero delle truppe della Bundeswehr"[9].

"Essere in condizione di agire"

Dopo richieste cosi' serrate da parte dei politici di spicco come non era mai accaduto prima - lunedì anche il Ministro della Difesa Ursula von der Leyen si è espressa ancora una volta a favore di un "esercito europeo" [10] - è arrivato il turno della cancelliera tedesca Angela Merkel davanti al Parlamento europeo. "Dobbiamo lavorare alla visione di avere un giorno un vero esercito europeo", ha detto Merkel martedì. Sicuramente un "esercito europeo non sarebbe un esercito contro la NATO": "Nessuno vuole mettere in discussione i legami tradizionali". Ma "l'Europa" non può più fare affidamento incondizionato sugli "altri" - vale a dire gli Stati Uniti. "L'Europa" dovrà quindi essere in grado di agire. [11]

PESCO Versus IEI

Mentre si fanno sempre più forti le richieste per creare una forza europea, aumenta anche la pressione per presentare dei risultati e proseguono senza sosta le lotte di potere fra francesi e tedeschi su alcuni degli elementi chiave del progetto. Come ha ribadito lunedi il Ministro della Difesa von der Leyen, il governo di Berlino continua a puntare sulla possibilità di unire le forze armate europee agendo dal basso; questo dovrebbe avvenire nel quadro della PESCO e sotto l'ombrello del Framework Nations Concept della NATO, all'interno del quale la Bundeswehr ha già intensificato la sua cooperazione con le truppe dei Paesi Bassi, della Repubblica Ceca e della Romania, oppure con un paese non-UE ma solo NATO come la Norvegia. La Francia invece con la IEI punta su operazioni congiunte e rapide e su di una fusione delle forze armate che dovrebbe avvenire nella pratica militare (german-foreign-policy.com[12]). Nel suo progetto tuttavia la Francia riceve solo il sostegno del Belgio. Il ministro della Difesa belga Steven Vandeput ha infatti firmato insieme al suo omologo francese Florence Parly un accordo che prevede una stretta collaborazione tra le forze di terra di entrambi i paesi. Come conseguenza il Belgio non solo si è impegnato ad acquistare 382 veicoli corazzati Griffon e 60 carri da ricognizione Jaguar - esattamente i modelli utilizzati dall'esercito francese - ma avvierà una collaborazione congiunta anche nel campo della formazione e nel comando delle truppe e in numerosi altri aspetti con le forze di terra francesi. I militari parlano di una cooperazione senza precedenti tra i due paesi [13]. Come conseguenza, nella lotta di potere tra Berlino e Parigi, si rafforza il polo francese.

"Comprate armi europee!"

I disaccordi proseguono anche nel campo della cooperazione per l'acquisto delle armi. Il presidente Macron, che insieme alla cancelliera Merkel spinge verso una concentrazione dell'industria europea della difesa, domenica si è lamentato: "quello che non voglio vedere sono paesi europei che aumentano il loro budget per la difesa, per poi comprare armi dagli Stati Uniti o da altri paesi." [14] Si riferiva probabilmente al fatto che il Belgio nel mese di ottobre ha deciso di non acquistare gli Eurofighter o gli aerei da combattimento Rafale, ma gli F-35 americani - come hanno fatto la Gran Bretagna, l'Olanda e l'Italia. La ragione risiede anche nel fatto che i produttori europei non sono in grado di produrre caccia da combattimento di ultima generazione come gli F-35. Senza dubbio Berlino e Parigi hanno deciso di produrre insieme un jet da combattimento e di concepirlo come un sistema da combattimento (Future Combat Air System, FCAS), tuttavia, il progetto è attualmente bloccato da discussioni inerenti non solo la leadership industriale, ma anche la distribuzione degli ordini e non da ultimo le licenze per l'esportazione [15]. Il disaccordo sulle esportazioni di armi colpisce anche il carro armato franco-tedesco sviluppato dalla neo-costituita KNDS, allenza strategica fra la tedesca Krauss-Maffei Wegmann e la francese Nextei. La joint venture tuttava necessita già di chiarimenti: "lo sviluppo a lungo termine e le vendite del Gruppo KNDS dipenderanno anche dall'atteggiamento del governo tedesco e francese in merito alle esportazioni di tecnologia per la difesa", si legge in una recente relazione sulla gestione della holding Kasseler-Wegmann [16]. Se dovesse costituirsi una forza comune europea con una base industriale e militare nell'UE, ci troveremo allora di fronte a delle dure lotte di potere tra Francia e Germania per aggiudicarsi gli ordini nel settore della difesa.



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[1] "Die europäische Einigung ist auch heute noch eine Frage von Krieg und Frieden". Bild 23.03.2007. S. auch Eine Frage von Krieg und Frieden in Europa.
[2] Daniel Friedrich Sturm: Merkel will "gemeinsame europäische Armee". welt.de 23.03.2007.
[3] S. dazu Der Krieg, Europas Rückgrat.
[4] Zeit für eine europäische Armee. sueddeutsche.de 13.07.2010.
[5] Einstieg in die Verteidigungsunion. bmvg.de 08.12.2017. S. dazu Der Start der Militärunion.
[6] S. dazu Die Koalition der Kriegswilligen (II).
[7] Nahles will eine europäische Armee und den Abschied von Hartz IV. handelsblatt.com 10.11.2018.
[8], [9] Donata Riedel: Macron will eine europäische Verteidigung - Der Bundesregierung geht das zu weit. handelsblatt.com 12.11.2018.
[10] Von der Leyen plädiert für eine "Armee der Europäer". sueddeutsche.de 12.11.2018.
[11] Merkel fordert "echte europäische Armee" - Buhrufe und Applaus. welt.de 13.11.2018.
[12] S. dazu Die Koalition der Kriegswilligen (II).
[13] Nicholas Fiorenza: Belgium signs motorised capability co-operation agreement with France during first European Intervention Initiative ministerial. janes.com 12.11.2018.
[14] Merkel fordert "echte europäische Armee" - Buhrufe und Applaus. welt.de 13.11.2018.
[15] Thomas Hanke, Donata Riedel: Future dims for Franco-German combat air system as companies squabble. global.handelsblatt.com 07.11.2018.
[16] Gerhard Hegmann: Auf dem Weg zum europäischen Superpanzer. welt.de 06.11.2018.

giovedì 15 novembre 2018

Il documento segreto del ministero degli interni: nel 2015 il governo tedesco avrebbe potuto chiudere i confini

Dal ministero degli interni spunta un documento segreto redatto all'epoca da funzionari di alto livello secondo il quale la chiusura delle frontiere nell'estate del 2015 sarebbe stata perfettamente legale, a differenza di quanto Merkel sin da allora ha sempre sostenuto.  Ne parlano RT Deutsch e Die Welt



Il governo tedesco ha sempre motivato la scelta di non aver voluto chiudere i confini prima dell'arrivo in massa dei rifugiati nell'autunno del 2015 adducendo presunte "preoccupazioni legali". Ora invece si viene a sapere: in un documento segreto alti funzionari ministeriali dichiaravano il contrario.

Le frontiere tedesche nell'autunno 2015 potevano essere chiuse senza alcuna preoccupazione di carattare legale. Lo riporta la "Welt am Sonntag" sulla base di un documento segreto del Ministero degli Interni in suo possesso. Il documento includeva un piano elaborato dagli alti funzionari del ministero per chiudere i confini durante l’ondata migratoria innescatasi nel settembre 2015.

Nel documento dal titolo "Possibilità di respingere coloro che cercano protezione alle frontiere tedesche", i funzionari discutevano le modalità per chiudere i confini e impedire ai rifugiati di attraversare il confine fra Austria e Germania. In alcuni atti non destinati alla pubblicazione i funzionari ministeriali erano arrivati alla conclusione: il respingimento sarebbe stato possibile e perfettamente legale.

A partire dal 2015 il governo tedesco ha sempre parlato di "preoccupazioni legali" come elemento cruciale per motivare la sua decisione di mantenere i confini aperti ai rifugiati. La rivelazione della WamS dimostra che si è trattato piuttosto di una decisione puramente politica. Ciò dovrebbe rendere ancora più difficile lo sforzo dell'Unione di lasciarsi definitivamente alle spalle la questione dei rifugiati. Ancora in ottobre, prima di dare l'annuncio del suo ritiro dalla corsa per la segreteria del partito, Merkel durante il congresso CDU della Turingia aveva detto:

"Se vogliamo passare il resto del decennio ad occuparci di cosa è accaduto nel 2015 e di come sono andate le cose, e a sprecare il tempo in questo modo, allora finiremo per non essere piu’ un partito di massa".


La pubblicazione del documento del Ministero dell'Interno spinge almeno una parte dell'opposizione a rianalizzare gli eventi del 2015. Il leader della FDP Christian Lindner chiede "un chiarimento complessivo sul tema":

"Le rivelazioni gettano una luce abbagliante sulle pratiche di governo della signora Merkel. Le questioni centrali per il paese vengono dibattute in circoli chiusi e oscuri. La decisione relativa alla necessità da parte del nostro paese di accogliere rifugiati al di là di quanto previsto dal quadro normativo, tuttavia, doveva essere discussa in pubblico e in parlamento."

Anche Oskar Lafontaine valuta l'argomento in maniera simile a Lindner. Il leader della Linke nel parlamento della Saar ha detto che è necessario discutere quanto accaduto nel 2015:

"Né il Bundestag né gli stati federali, né i vicini europei furono adeguatamente coinvolti in quelle decisioni. Fino ad oggi è mancata la necessaria trasparenza, che è il prerequisito indispensabile per una decisione democratica".



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