martedì 7 maggio 2019

Il paese della disuguaglianza

L’idea di una collettivizzazione dei mezzi di produzione lanciata dal leader dei giovani socialdemocratici Kevin Kühnert ha suscitato un’ondata di indignazione e ha riacceso il dibattito sulla disuguaglianza sociale. Ma se in Germania, dati alla mano, le 45 famiglie più ricche possiedono all’incirca quanto 20 milioni di famiglie, cioè la metà più povera della popolazione, è probabile che la situazione sia sfuggita di mano. Ne scrive Der Spiegel

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(...) La domanda fondamentale in questo dibattito è di facile formulazione: quali rapporti di potere e di proprietà ha creato il capitalismo in Germania?


Alla domanda si può rispondere con le statistiche ufficiali e i calcoli degli economisti:

Distribuzione della ricchezza

"Ci sono persone che possiedono capitale e persone che lavorano per il capitale", ha ripetuto Kühnert nella sua intervista a “Die Zeit" facendo riferimento all’elemento centrale della dottrina marxista. Coloro che dispongono di capitale possono farlo lavorare e non devono quindi occuparsi direttamente del lavoro. "Nella nostra società solo una piccola percentuale di persone ha questa libertà e la maggior parte delle persone non dispone di un patrimonio", ha criticato Kühnert.

Se si guarda alla effettiva distribuzione della ricchezza, la formulazione del leader dello Juso (giovani socialdemocratici) sembra addirittura moderata: la disuguaglianza in termini di ricchezza in Germania è estrema. Secondo uno studio del Deutsches Instituts für Wirtschaftsforschung (DIW), in Germania le 45 famiglie più ricche possiedono all'incirca quanto 20 milioni di famiglie, vale a dire la metà più povera della popolazione. 

(...) Per inciso, i patrimoni in Germania sono distribuiti in maniera molto piu' disuguale rispetto ad altri paesi europei. Questo è dimostrato dal confronto con Spagna e Francia:


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Per il loro studio i ricercatori del DIW hanno utilizzato i dati ufficiali della Bundesbank e della Banca centrale europea (BCE). Poiché questi dati descrivono i super ricchi in maniera molto schematica, gli economisti hanno fatto ricorso a un approccio che stimola la stessa BCE a correggere il proprio rilevamento dei dati: hanno integrato le informazioni con la lista sulla ricchezza di Manager Magazin.

Un sacco di soldi, un sacco di potere: i super ricchi

Chi guarda la lista dei ricchi stilata da Manager Magazin si fa rapidamente un'idea di dove si sta spostando la gran parte dei profitti delle aziende tedesche: nella ricchezza privata di pochi soggetti estremamente privilegiati.

Che a Kühnert durante l’intervista a "Die Zeit" sia stata espressamente fatta una domanda sulla collettivizzazione della BMW non è un caso: proprio in cima alla lista dei ricchi ci sono i fratelli Stefan Quandt e Susanne Klatten, che insieme, direttamente o indirettamente, possiedono il 46,8 % delle azioni ordinarie della casa automobilistica. Solo lo scorso anno, ai due sono andati 1,1 miliardi di euro di dividendi - patrimonio comune stimato: 34 miliardi di euro.


Anche le posizioni successive nella classifica della ricchezza sembrano confermare la distinzione fatta da Kühnert fra le persone che possiedono capitale e coloro che lavorano per il capitale. Dieter Schwarz (Lidl, Kaufland, un patrimonio stimato di 25 miliardi di euro), gli eredi Aldi (Sud 21,8 miliardi di euro, Nord: 17,5 miliardi di euro), la famiglia Schaeffler (17 miliardi di euro), Otto (13, 5 miliardi di euro), Porsche (12 miliardi di euro) e Klaus-Michael Kuehne (10,5 miliardi di euro) - ovviamente, non potrebbero disporre del loro enorme patrimonio senza il lavoro delle loro migliaia di dipendenti.



A parte poche eccezioni, questi super-ricchi in comune hanno una enorme influenza sulla politica aziendale. Determinano in maniera completa o almeno significativa la direzione strategica dell'azienda.

Possesso di azioni


Bene, almeno nelle società per azioni, ci sarebbe la possibilità di una "collettivizzazione" (come la chiama Kühnert). Una parte significativa della popolazione, tuttavia, dovrebbe essere azionista di queste società, anche se non sembra essere il caso della Germania.



Certo, il numero di azionisti è salito al livello più alto dalla crisi finanziaria. Ma sono ancora solo 10,3 milioni su 82,8 milioni di cittadini tedeschi - e in secondo luogo, in questo numero sono inclusi anche coloro che possiedono azioni all’interno di fondi azionari. Possono beneficiare del successo dell'azienda, ma non hanno voce in capitolo, perché non hanno il diritto di voto durante l'Assemblea generale annuale. In Germania, le persone che effettivamente possiedono azioni sono al massimo 4,5 milioni.




Ancora meno sono le persone che soddisfano l'ideale di Kühnert di un collettivo che ha voce in capitolo nella gestione dell’azienda in cui anche lavora: in Germania ci sono poco meno di 1,3 milioni di dipendenti azionisti.



Proprietà

Anche il leader della Juso considera quello abitativo uno dei problemi sociali più importanti del nostro tempo. Senza dubbio teme un esproprio della proprietà privata: anche secondo Kühnert, ifnatti, quello che è stato ottenuto con il proprio lavoro deve essere protetto. Ma guadagnarsi da vivere affittando lo spazio vitale ad altre persone, per Kühnert non è un modello di business legittimo: "se vogliamo essere coerenti fino alla fine, ognuno al massimo dovrebbe essere proprietario dello spazio in cui vive".

Spazio abitativo: solo una minoranza possiede. Il resto affitta.

Attualmente, secondo l'Ufficio federale di statistica, in Germania meno di una famiglia su due (il 47,1 percento) possiede una casa o un terreno. Più della metà dei tedeschi vive in una casa in affitto - non poche di queste famiglie vivono in una delle abitazioni plurifamiliari con tre o più appartamenti, che a loro volta sono possedute solo dal 2,2% delle famiglie.


Conclusioni

L'attuale economia sociale di mercato tedesca ha portato a un livello di disuguaglianza estremo in termini di accesso alla proprietà, di potere e di opportunità, tipico di modelli di capitalismo molto più spinti. Kevin Kühnert per questa situazione non ha ancora sviluppato una soluzione coerente. Ma almeno si torna a parlarne.


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lunedì 6 maggio 2019

Grandi affari con i cinesi a Duisburg

Duisburg è la città renana della Ruhr, ex capitale dell'acciaio Thyssen-Krupp, che grazie al suo porto fluviale è diventata il capolinea della nuova "Via della Seta" su rotaia. A Duisburg ogni settimana arrivano 35 treni dalla Cina, gli affari vanno a gonfie vele, la disoccupazione continua a scendere e tutti sembrano essere soddisfatti. Un reportage molto interessante di Deutschlandfunk.de


La nuova Via della Seta cinese arriva nel porto fluviale di Duisburg. Gli investimenti cinesi sono un aiuto molto gradito per portare avanti il cambiamento strutturale della città. Il timore che per i partner cinesi si possa trattare di qualcosa di piu' della semplice costruzione di infrastrutture, almeno per ora non sembra trovare riscontro.

"Siamo sul sito DIT, vale a dire il terminal intermodale di Duisburg..." Amelie Erxleben si trova su di un molo nel bel mezzo dell'enorme porto fluviale di Duisburg. "Lì davanti c'è la Marea."

La nave porta container "Marea" viene caricata, una gru solleva le grandi casse di acciaio colorate sul ponte della nave. "Siamo un terminal trimodale, il che significa che qui arrivano camion, chiatte e treni."

Il numero dei treni in arrivo è in crescita

Nell'arco di un anno in tutto il porto di Duisburg arrivano oltre 20.000 navi e circa 25.000 treni. Ma c'è una connessione ferroviaria che negli ultimi anni ha ricevuto molta attenzione: quella con la Cina, perché Duisburg è il punto di arrivo della Via della seta.

"Nel 2011 è arrivato il primo treno, nel 2013 Xi Jinping ha annunciato la nuova Via della Seta ed è dal 2014 che sperimentiamo una fase di forte boom".

Nel frattempo si sono raggiunti i circa 35 treni a settimana che viaggiano tra la metropoli cinese di Chongqing e la città della Ruhr sul Reno posta a 12.000 chilometri di distanza - ci vogliono 14 giorni di viaggio. Da Duisburg le merci vengono spedite in tutta l'Europa occidentale.

"Il nostro più grande cliente di Chongqing dispone di un grande magazzino con uffici a cinque minuti da noi. Ed è positivo che siano sul posto, e che possano essere raggiunti velocemente senza alcun ritardo".

L'intera regione ne beneficia

Anche al di là del porto, ormai è l'intera regione a trarre vantaggio dalla Via della seta, come riferisce Johannes Pflug, ex parlamentare al Bundestag nativo di Duisburg:

"Sono il responsabile ufficiale per la Cina della città di Duisburg e del sindaco"

Dal suo ufficio nel municipio, Pflug si affaccia sul centro città con i suoi edifici disadorni tipici del dopoguerra. Duisburg  un tempo era una fiera roccaforte dell'acciaio, ma con il declino della fabbrica Thyssen-Krupp, alla fine degli anni '80 sono iniziati i tempi difficili. Il cambiamento strutturale è stato il tema principale: la disoccupazione per anni è stata al 13%. Recentemente tuttavia è scesa intorno al 10%. In parte ciò potrebbe essere dovuto anche al progetto della Via della Seta, afferma Pflug:

"Da quando è arrivato il primo treno le attività cinesi a Duisburg sono aumentate notevolmente."

Ora ci sono centinaia di compagnie cinesi in città, il doppio rispetto a quando è arrivato il primo treno.

L'influenza geopolitica della Cina sta crescendo, anche in Europa

"Vediamo ricadute positive che vanno dal porto verso la città. Ci sono persone interessate, investitori, negli ultimi anni abbiamo avuto molte delegazioni cinesi in visita a Duisburg ".

La Via della Seta è un mega-progetto cinese che potrebbe cambiare il commercio mondiale.

La Cina sta costruendo una rete globale di porti, ferrovie e strade attraverso percorsi multipli. Alla Cina servono per garantirsi i propri mercati di vendita. I critici tuttavia temono che la Cina con con questo progetto possa perseguire interessi geopolitici:

"Bisogna sempre avere un occhio vigile, è chiaro. Non si può essere ingenui e, soprattutto, non bisogna farsi incastrare da una politica di indebitamento con i cinesi".

Duisburg non dipende in alcun modo dalla Cina. Il capo del porto, il presidente della Duisport AG, Erich Staake, conferma che i rapporti commerciali si sono sempre basati su di una partnership alla pari.

Duisburg vuole espandere ulteriormente la partnership

"La mia esperienza fino ad ora mi conferma che il nostro know-how è molto richiesto e che operiamo alla pari e in piena onestà."

La Via della Seta per il porto di Duisburg nei prossimi anni diventerà sempre più importante, secondo Staake:

"Oggi la quota sul nostro fatturato totale è ancora piccola, tre o quattro per cento. Ma per Duisburg rappresenta l'ambito di crescita più importante in questo segmento di business, ed è per questo che stiamo facendo grandi sforzi per svilupparlo ulteriormente".

Ad esempio la Duisport AG vuole impegnarsi affinché il percorso in treno diventi ancora più veloce - dieci giorni di viaggio dalla Cina a Duisburg - questo è l'obiettivo.

"Se ci riusciremo, allora gli spedizionieri tedeschi o europei interessati si moltiplicheranno per tre o quattro o cinque volte, e inizieranno ad utilizzarlo come un'alternativa al costoso trasporto aereo".


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domenica 5 maggio 2019

Heiner Flassbeck: la misericordia non può sostituire la politica

"Un presidente francese competente avrebbe ringraziato educatamente per la disponibilità dei super-ricchi a sostenere la ricostruzione di Notre Dame, ma avrebbe immediatamente respinto l'offerta. Avrebbe detto che proprio alla luce di questa disponibilità, l'abolizione della tassazione sui patrimoni è stato un grande errore che sarà immediatamente corretto", cosi' il grande economista Heiner Flassbeck commenta le politiche di Macron e il tentativo del presidente francese  di copiare dai vicini di là dal Reno. Un commento molto interessante di Heiner Flassbeck su Makroskop


Lo stato francese a fine 2018 aveva esonerato i ricchi e i super ricchi del paese dal pagamento della tassa sui patrimoni e ora sono proprio gli stessi ricchi a sollevare lo stato dal peso della ricostruzione di Notre Dame. Si stima che gli sgravi fiscali per i ricchi applicati a partire da gennaio 2018 siano stati di almeno tre miliardi di euro all'anno. Ora vorrebbero restituire qualcosa allo stato e al "loro presidente". Non è questa la vera giustizia?

I super-ricchi hanno già donato quasi un miliardo di euro. Sembra grandioso, ma quanti anni servono per compensare lo sgravio di tre miliardi di euro all'anno e per giustificare il miliardo donato una tantum? Cento anni o addirittura 200? La cosa è fondamentalmente semplice e i Gilet Jaunes lo dicono altrettanto chiaramente: quelli che fanno di tutto per non pagare le tasse, quando si tratta di misericordia e generosità, semplicemente non hanno alcuna credibilità.

La fortuna dei ricchi

A volte la lingua aiuta a identificare in maniera chiara i fatti. In tedesco, la parola patrimonio (Vermögen) ha qualcosa a che fare con l'abilità. Si dice che qualcuno "fa" (vermöge) qualcosa quando si ritiene che sia in grado di fare qualcosa. In francese, per indicare un patrimonio (così come in inglese) si usa la parola "fortuna" (fortune). Ed è la stessa parola usata per indicare la fortuna. Sarà molto piu' facile quindi per la società chiedere a coloro che hanno avuto "fortuna", anche senza essere stati in grado di "fare qualcosa", di condividere una parte della loro fortuna con gli altri.

A tale riguardo, il presidente Macron non ha saputo spiegare la sua decisione di ridurre drasticamente la tassa sulla ricchezza (esiste solo una tassa sulla proprietà immobiliare, i patrimoni ne sono completamente esenti) ai suoi compatrioti. Ha sostenuto che bisognava ridurre le tasse a coloro che garantiscono delle prestazioni elevate. Ma chi dispone di una fortuna, non deve necessariamente essere un "top performer". In Germania, puoi rivendere un concetto come questo senza che la gente scenda per strada in massa, perché la lingua aiuta ad occultare i fatti. In Francia ovviamente non è così facile.

La comunicazione non basta

La sera del 15 aprile, il giorno in cui Notre Dame è andata in fiamme, Macron, con un grande discorso televisivo avrebbe dovuto spiegare ai suoi connazionali il risultato del suo lungo viaggio fatto di incontri e discussioni attraverso il paese. Il presidente ha speso ore e giorni a discutere dei problemi della Francia con i sindaci e gli esperti per trovare delle nuove soluzioni ai problemi. Probabilmente avrebbe voluto annunciare di aver fatto ancora una volta delle correzioni alle "riforme", per cercare di calmare gli animi surriscaldati emersi dal movimento dei giubbotti gialli.

Ma probabilmente anche questo non avrebbe avuto grandi effetti. La Francia semplicemente non capisce cosa ha fatto di sbagliato. L'inflazione non c'è più, sin dai tempi di Hollande si fanno le riforme, i redditi della massa da anni non crescono, lo stato continua a risparmiare, ma il paese non fa un passo in avanti. Solo i super ricchi diventano sempre più ricchi.

Il fatto che il Paese venga messo sotto sopra senza migliorare la propria situazione economica ha una semplice ragione: la Francia vive in un ambiente macroeconomico inadeguato. Questo ambiente è chiamato "unione monetaria europea". Se vivi in ​​un simile ambiente, anche la migliore volontà e la migliore "politica di riforma" non ti aiuteranno.

Il ruolo del sistema

Ma proprio laddove si dovrebbe riflettere seriamente sul sistema, in Francia come nella maggior parte degli stati membri dell'unione monetaria, affiora un riflesso semplice. Si guarda al grande vicino e si dice, sì, se con questo sistema a loro le cose vanno bene, allora probabilmente non può dipendere dal sistema. Ed è esattamente su questo punto che non si riesce a venirne fuori intellettualmente. Anche se è ovvio chiedersi se le condizioni di un paese si possano applicare anche ad un altro. Ma - lo si può constatare con facilità - non si riesce a porre questa domanda logica ad un livello politico. (...)

Le viti di regolazione decisive 

Ci sono esattamente tre leve macroeconomiche che possono essere utilizzate per stimolare un'economia stagnante in chiave espansiva. Una è il tasso di interesse, la seconda è il tasso di cambio reale, cioè la competitività internazionale, e la terza è la politica fiscale. Naturalmente, il peso di questi fattori varia da paese a paese. Ma è anche chiaro che colui che non ha a disposizione nessuna delle tre leve si trova in una situazione difficile.

Se la situazione è quella comune alla maggior parte dei paesi occidentali - in cui lo strumento del tasso di interesse è stato ridimensionato, senza alcun effetto, dato che l'andamento dei salari è deflattivo e nessuno vuole intervenire in questo ambito - rimangono solo due viti. Uno è il tasso di cambio reale, il cui utilizzo nell'unione monetaria europea è stato completamente abbandonato. Qui, paesi come l'Italia e la Francia non possono ottenere nessun effetto, perché qualsiasi tentativo di migliorare la propria competitività attraverso la moderazione salariale contribuisce ad affondare l'economia interna e provoca più danni di quanti non se ne possano compensare con le esportazioni.

La Germania, invece, grazie ai suoi lunghi anni di dumping salariale praticati sin dall'inizio dell'unione monetaria si è assicurata un vantaggio che non è piu' possibile recuperare. Sebbene la moderazione salariale abbia almeno inizialmente indebolito il mercato interno, grazie ai lunghi anni della svalutazione reale interna il settore dell'esportazione è diventato così grande che l'elevato livello di competitività (un basso tasso di cambio reale) è un fattore con un effetto costantemente positivo, sebbene i salari, e con essi la domanda interna, abbiano leggermente recuperato. Negli altri paesi, tuttavia, l'elevato tasso di cambio reale influisce in maniera costantemente negativa, senza che questi paesi abbiano alcun mezzo per compensarlo.

... non esiste in Europa

Rimane la politica fiscale. Qui i paesi dell'unione monetaria sono vincolati dai trattati, incluso il trattato di Maastricht. Se si parla di questi problemi nei negoziati e nelle conferenze internazionali, si ottiene una risposta incredibilmente semplice: i trattati non possono essere modificati, anche se ci fosse la volontà di farlo, perché è necessaria l'unanimità, che come possibilità politica è da escludere. Poiché dopo il referendum sulla Brexit l'uscita dalla moneta unica agli occhi di un normale politico è diventata ancora piu' insensata di quanto non non fosse in precedenza, resta solo la politica piccola-piccola, alla quale si lavora nella speranza che in qualche modo prima o poi possa accadere un miracolo "tedesco".

Macron giustamente a causa del suo stile e del suo comportamento presidenziale ha ricevuto molte critiche. Ma sostanzialmente si è solo unito alla lunga schiera di politici che dopo tutto non sanno cosa fare. Il fatto che abbia voluto aiutare i ricchi con un'enorme riduzione dell'imposta sulla ricchezza è anche logico: sono stati proprio loro, infatti, a spianargli la strada verso il potere. Il fatto che abbia fatto riferimento alla quasi-abolizione della tassa sulla ricchezza in Germania, ha reso naturalmente più facile rivendere questa forma di pura (e inutile) redistribuzione come una misura di politica economica per stimolare gli investimenti.

Dal momento che la maggior parte degli economisti accademici non ha alcuna comprensione dei rapporti macroeconomici generali, e la stragrande maggioranza dei media, a causa dei loro editori, sono appiattivi sul neoliberismo, mentre i politici stessi e una gran parte dei loro staff sono composti da giuristi, si può ritenere che su molti punti cruciali semplicemente non esista un rigoroso pensiero macroeconomico. Ovviamente a fronte di difficili ostacoli istituzionali puoi anche trovare delle soluzioni, ma devi sapere di cosa si tratta veramente e cosa c'è in gioco. Le cose in Europa dovranno andare molto peggio, anche solo prima di tentare soluzioni del genere.

Solo una coerente riflessione macroeconomica può impedire che nuove manipolazioni e contraffazioni, come ad esempio la riduzione delle tasse per i ricchi o per le imprese, possano essere seriamente prese in considerazione come un antidoto alla crisi economica. Ma è esattamente quello che accadrà ancora una volta in Germania. Il ministro federale  delle finanze e quello dell'economia sono classici esempi di politici completamente sopraffatti da questa situazione, probabilmente circondati da alti funzionari con la loro stessa polarizzazione.

La misericordia non è politica

La filantropia può certamente esistere in una società funzionante. Ma non deve, come invece oggi sembra essere la norma, sostituire la politica sociale e giustificare la rinuncia a politiche redistributive. La coesione della società non è garantita dalle donazioni volontarie o da quelle basate per lo piu' sull'interesse dei ricchi, ma solo da una politica che fin dall'inizio fa in modo che le differenze tra i ricchi e i poveri non siano troppo grandi. Per riequilibrare la "fortuna", non bisogna lasciarla solo nelle mani di chi l'ha ottenuta.

Un presidente francese competente avrebbe ringraziato educatamente per la disponibilità dei super-ricchi a sostenere la ricostruzione di Notre Dame, ma avrebbe immediatamente respinto l'offerta. Avrebbe dovuto dire che proprio alla luce di questa disponibilità, l'abolizione della tassazione sui patrimoni è stata un grande errore che sarà corretto immediatamente. La società, avrebbe dovuto dire, è disposta ed è in grado di guidare la ricostruzione in un modo tale che alla fine ogni francese potrà dire di aver fatto tutto quello che era nelle sue possibilità, e che tutto quello che ci si aspettava da un governo democraticamente eletto è stato fatto.
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sabato 4 maggio 2019

Primi colpi di avvertimento da Parigi

E' normale che un paese indebitato, con un enorme disavanzo commerciale e una demografia scoppiettante possa avere interessi diversi da quelli di un paese creditore, con un gigantesco surplus commerciale e una demografia asfittica. Checché ne scrivano i soloni prezzolati di casa nostra, il cosiddetto asse franco-tedesco perde colpi e in Europa si aprono scenari fino a poco tempo fa impensabili. German Foreign Policy prova a mettere in fila i colpi di avvertimento sparati da Parigi.


L'offerta di Macron

Il presidente francese Emmanuel Macron sin dall'inizio del suo mandato si è dato da fare per ottenere da Berlino, in cambio della politica di "austerità à l'allemande" applicata a livello nazionale, delle concessioni in materia di politica europea. Le sue proposte erano state illustrate in maniera esemplare durante il famoso discorso alla Sorbona del settembre 2017. A rivestire un ruolo centrale c'era la richiesta di una riforma dell'eurozona, che Macron avrebbe voluto dotare di un ministro delle finanze e di un proprio bilancio; ciò avrebbe dovuto creare le condizioni per ridurre le disuguaglianze all'interno dell'area valutaria e stabilizzare in maniera tempestiva e duratura i paesi in crisi. Il presidente francese chiedeva inoltre il rapido sviluppo di una forza di intervento, con una particolare attenzione alle operazioni militari nell'area africana di grande interesse per le élite francesi. Per riuscire ad attutire l'impatto delle critiche provenienti dal popolo francese e causate dei tagli, erano indispensabili, non da ultimo, dei notevoli successi in materia di politica estera e militare.

Con le spalle al muro

Appena due anni dopo la sua elezione Macron si è accorto di essere rimasto a mani vuote. Berlino non solo ha bloccato i suoi piani di riforma dell'eurozona, perché contrari al rigido modello dell'austerità tedesca [1]; ha anche iniziato a rallentare i piani del presidente francese per una militarizzazione dell'UE ("Iniziativa d'intervento europeo") e al suo posto ha iniziato a spingere il ​​suo progetto "PESCO" [2]. "PESCO" è un progetto militare di lungo termine e non corrisponde al desiderio francese di avere a disposizione una forza a dispiegamento rapido. Berlino inoltre insiste per una "europeizzazione" del seggio francese al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e delle armi nucleari francesi [3], spingendo in questo modo il governo francese sempre di piu' sulla difensiva. Anche in patria Macron è con le spalle al muro. Le proteste dei "gilets jaunes" vanno avanti da mesi; il tentativo di levare il vento dalle vele della protesta con un dibattito controllato dallo Stato ("grand débat") non sta portando frutti: secondo gli ultimi sondaggi circa il 75 % della popolazione ritiene che il progetto non sia in grado di risolvere la crisi [4]. Già all'inizio dell'anno la percentuale di francesi insoddisfatti dall'amministrazione Macron era salita a tre quarti della popolazione [5]. 

Colpi di avvertimento

E' in questa situazione che Macron ha iniziato la sua manovra difensiva nei confronti dell'egemonia tedesca nell'UE: nonostante la sua politica di "austerità à l'allemande" e la sua lealtà, infatti, Berlino non ha voluto accordargli nemmeno delle piccole concessioni utili a facilitare il suo consolidamento interno. Un primo sorprendente colpo di avvertimento in direzione Germania è arrivato a febbraio con il ritiro dell'appoggio francese al gasdotto Nord Stream 2; il governo federale solo esercitando una grande pressione in seguito è poi riuscito a mantenere aperta una possibile soluzione per il progetto [6]. Un altro affronto, sebbene simbolico, è stata la disdetta da parte di Macron di un'uscita dimostrativa congiunta con la cancelliera Angela Merkel durante la Conferenza sulla sicurezza di Monaco - motivando la scelta con la necessità di dedicarsi urgentemente al desolato stato interno della Francia. A metà aprile Parigi ha anche votato contro l'apertura di negoziati formali per un accordo commerciale con gli Stati Uniti. I negoziati, infatti, sono di particolare interesse per Berlino: Washington, soprattutto a causa dell'eccedenza commerciale tedesca, minaccia di applicare tariffe punitive e dazi sulle auto che colpirebbero duramente l'industria tedesca. Questa volta il voto contrario della Francia, a causa del voto a maggioranza, non ha avuto alcun effetto, ma è stato comunque un segnale molto chiaro.

Le eccedenze commerciali tedesche

La settimana scorsa Macron, durante una conferenza stampa, ha annunciato ulteriori "scontri" con la Repubblica federale, promettendo anche nuovi sforzi per riformare l'Eurozona. [7] Come constatava anche una relazione recente dell'Institut de Relations Internationales et stratégiques (IRIS) di Pargi, si tratta di elementi di importanza fondamentale: la fissazione tedesca sull'export fondata su dei surplus commerciali enormi, viene realizzata "a spese dei paesi partner" e nel lungo periodo non è sostenibile. Nel frattempo, il ministro francese dell'Economia e delle finanze, Bruno Le Maire, a Berlino ha iniziato ad insistere per ottenere dalla parte tedesca un ripensamento in merito alla sua fissazione unilaterale sull'export. Parigi nei prossimi mesi affronterà di nuovo e "in maniera piu' o meno esplicita" la questione del "considerevole surplus commerciale tedesco", si dice all'IRIS: alla fine, questo grava piu' "sui partner europei della Germania" che non sugli Stati Uniti, il cui presidente è riuscito ad imporre nell'agenda internazionale il tema dell'eccesso di export tedesco [8]. Anche nell'UE, la Francia è lungi dall'essere la sola a criticarlo.

"Completamente normale"

Prima della riunione fra Macron e Merkel tenutasi a margine del vertice sui Balcani occidentali di Berlino, il governo federale ha cercato di minimizzare il conflitto. Ci sono solo dei "disaccordi occasionali" tra i due paesi, ha riferito un portavoce del governo; ciò tuttavia sarebbe "normale e necessario". Fino ad ora si è sempre riusciti a trovare una "soluzione" alle controversie. [9] Nella realtà dei fatti però la "soluzione" è sempre stata quella che favoriva gli interessi della Germania. Uno degli esempi più recenti è stato quello della tassa sul digitale che la Francia avrebbe dovuto introdurre a livello nazionale a marzo - ma che Berlino aveva ostinatamente bloccato a livello europeo [10].

Non c'è piu' una minoranza di blocco

I predecessori di Macron, Nicolas Sarkozy e François Hollande, avevano già fallito nel tentativo di limitare gli avanzi commerciali tedeschi e di ottenere una corrispondente riforma della zona euro. Nei loro confronti Macron tuttavia ha un vantaggio significativo: dopo l'uscita della Gran Bretagna dall'UE non ci sarà piu' una minoranza di blocco contro quei paesi che rifiutano i diktat tedeschi in materia di politica dell'austerità. "La Brexit", era scritto recentemente in un commento, "regala ai paesi mediterranei la maggioranza dei voti". [11] Ciò dà agli stati dell'unione economicamente più deboli la speranza di potersi liberare dalla morsa della spietata austerità imposta da Berlino. Di conseguenza Macron ora appoggia una Brexit rapida - e in questo modo ancora una volta finisce per entrare in rotta di collisione con Berlino.
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[1] S. dazu Der Lohn des Chauvinismus und Hegemonie nach deutscher Art.
[2] S. dazu Die Koalition der Kriegswilligen (II).
[3] S. dazu Die nukleare Frage.
[4] Opposés à Macron, les français soutiennent les #giletsjaunes #acte24 #sondage. agoravox.fr 27.04.2019.
[5] Dreiviertel der Franzosen unzufrieden mit Präsident Macron. handelsblatt.com 04.01.2019.
[6] S. dazu Weltpolitik unter Druck.
[7] Catherine Chagitnoux: Macron assume ses désaccords avec l'Allemagne. lesechos.fr 25.04.2019.
[8] Rémi Bourgeot: Le "modèle allemand": de totem à tabou. iris-france.org 26.04.2019.
[9] Macron sucht "fruchtbare Konfrontationen" mit Berlin. Frankfurter Allgemeine Zeitung 27.04.2019.
[10] S. dazu Streit um die Digitalsteuer.
[11] S. dazu Zuckerbrot und Peitsche und Deutsche Hybris.

venerdì 3 maggio 2019

Verso un crollo dell'export tedesco in Gran Bretagna

La Brexit non c'è ancora stata ma l'export tedesco verso la Gran Bretagna è già in crisi e i segnali in arrivo dalla chimica e da altri importanti settori industriali lasciano ipotizzare un forte rallentamento. Ne scrive Die Welt


Da quasi tre anni si ripetono gli allarmi sul crollo degli scambi commerciali fra Germania e Regno Unito in caso di Brexit. Per ora siamo ancora in attesa dell'uscita dell'UE, ma il commercio tra Germania e Gran Bretagna si è già ridotto in maniera significativa. "I numeri sono drammatici", afferma Christian Kille, direttore dell'Istituto per la logistica applicata (IAL) presso l'Università di Würzburg-Schweinfurt.

Nel 2018 le esportazioni tedesche verso la Gran Bretagna sono diminuite dell'11,4 %, scendendo a 16,5 milioni di tonnellate. Le importazioni sono addirittura diminuite del 15,4 %, passando a 14,7 milioni di tonnellate. "Un importante fattore del forte calo nelle importazioni è stato il crollo delle materie prime come il petrolio greggio e il gas naturale", afferma Kille.

Ma anche i settori chiave ad alto valore aggiunto hanno registrato un calo significativo. "La Gran Bretagna già ora sta sperimentando le conseguenze della Brexit", afferma l'esperto di logistica Kille, il cui istituto, insieme ad una società di software specializzata nella logistica, pubblica il  cosiddetto sismografo dell'import e dell'export - una valutazione costante degli scambi fra la Germania e il resto del mondo.


Sia nell'industria chimica che in quella farmaceutica, le importazioni e le esportazioni hanno già subito delle perdite elevate senza che siano state ancora applicate delle barriere tariffarie. "Gli ordini nell'industria chimica sono un buon indicatore precoce dello stato dell'economia. Quando diminuiscono gli ordini nella chimica, è perché l'industria in generale si aspetta meno ordini e chiede meno prodotti chimici intermedi", afferma Kille. "Se il settore è in grado di mantenere la sua reputazione di indicatore precoce dell'andamento dell'economia, ci possiamo aspettare una ulteriore diminuzione nel commercio estero".

Soprattutto nel settore alimentare sensibile ai prezzi, l'applicazione di tariffe doganali porterebbe a dei sensibili cambiamenti. Anche nell'industria automobilistica e nella componentistica, fino ad oggi fortemente interconnesse, secondo lo IAL, sono già state registrate perdite a due cifre in entrambe le direzioni. Le importazioni tedesche dall'isola sono diminuite del 12,1% passando a 430.000 tonnellate, le esportazioni dell'11,4% passando a 1,73 milioni di tonnellate.

La Brexit tuttavia non sarebbe l'unico fattore ad aver scatenato i cambiamenti in corso nel commercio estero britannico. Per l'industria automobilistica parla Mike Hawes, il leader dell'associazione dei produttori di auto britannici SMMT, il quale fa riferimento ad una "catena di circostanze sfortunate". È tuttavia vero che la Brexit imminente e la situazione poco chiara in merito ai futuri rapporti con l'UE a 27 stanno mettendo in difficoltà i produttori, i quali sono strettamente legati ai fornitori del continente. Secondo Hawes, a ciò tuttavia bisogna aggiungere anche l'incertezza sul futuro dei motori diesel e l'indebolimento della domanda in Europa e in Cina.


La produzione sull'isola di auto da parte dei fabbricanti come Nissan, Honda, Jaguar, Land Rover o BMW va per l'80% nell'export. I produttori recentemente hanno considerevolmente ridotto la loro produzione. Gli ultimi dati mostrano che il numero di auto prodotte nel paese, nel primo trimestre si è ridotto del 16% rispetto all'anno precedente. Solo 370.289 veicoli sono usciti dalle catene di montaggio fra gennaio e marzo, tradizionalmente il trimestre più forte per l'industria.

Il crollo del commercio tedesco con il Regno Unito diventa chiaro se confrontato con lo sviluppo degli altri stati dell'UE, afferma Kille. Nel 2017, le esportazioni tedesche verso l'UE, compreso il Regno Unito, sono cresciute del 2,1 % salendo a 322 milioni di tonnellate, mentre le importazioni sono cresciute del 3,1 %, passando a 349 milioni di tonnellate. La Gran Bretagna si sta allontanando da questa traiettoria di sviluppo.

Ciò diventa ancora più chiaro nel confronto di lungo termine: dal 2015 al 2018, le esportazioni tedesche verso l'UE sono aumentate del 12% e le importazioni addirittura del 15%. Le esportazioni verso il Regno Unito sono scese dell'8%, le importazioni del 4%.

"Le aziende non possono permettersi di aspettare che il poker della Brexit arrivi alla fine. Hanno già preso le loro decisioni e agito sulla base di queste", commenta Ulrich Lison, esperto di dogane, riferendosi alle cifre attuali sul commercio estero. In altri settori, il big bang probabilmente deve ancora arrivare. "Le tariffe doganali porteranno a dei cambiamenti evidenti, specialmente nell'industria alimentare sensibile ai prezzi".

L'attuale boom nei trasporti fra l'UE e le isole britanniche, come riportato dal barometro del mercato del trasporto merci Timocom, serve piu' che altro per ricostituire le scorte e come misura precauzionale in caso di una hard Brexit . Kille cita un interlocutore del settore immobiliare britannico: "Ogni magazzino disponibile attualmente viene affittato per immagazzinare merci".


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mercoledì 1 maggio 2019

Berlino isolata dopo la fine del matrimonio franco-tedesco

"Il discorso del presidente Macron del 25 aprile, non solo segna la fine del rapporto speciale fra Francia e Germania. Ma le conseguenze di questa rottura dell'asse europeo vanno ampiamente al di là dell'UE", scrive Uwe Schramm, un importante diplomatico tedesco, su Tichys Einblick. Mentre i pennivendoli di casa nostra ci spiegano che l'Italia in Europa sarebbe isolata ed esclusa dai tavoli che contano, scopriamo che da Parigi arrivano dei segnali molto chiari: il matrimonio franco-tedesco non è finito, ma si avvicina alla fase della separazione in casa. Commento molto interessante di Uwe Schramm su Tichys Einblick.


Alcune cose semplicemente accadono all'improvviso, anche se ad un certo punto te le saresti potute aspettare. E' successo con il discorso del presidente francese Emmanuel Macron di giovedì scorso. L'argomento più importante doveva essere la politica interna francese dopo le proteste dei Gilets Jaunes. Ma poi Macron, con una chiarezza senza precedenti, si è spostato sui crescenti conflitti fra Parigi e Berlino. Ha menzionato gli esempi nella politica energetica e climatica, le differenze in materia di politica commerciale con gli Stati Uniti e nei negoziati sulla Brexit. Avrebbe potuto elencarne di più: come le divergenze in materia di politica finanziaria e sociale nell'UE, nella difesa comune e nell'esportazione di armi. A ciò si aggiungono le delicate questioni interne in materia di politica migratoria dell'UE e la difesa delle frontiere esterne dell'UE.

Anche solo come provocazione, Macron nel suo discorso di Parigi, avrebbe potuto aggiungere altri elementi ancora piu' recenti. Come la richiesta fatta dal nuovo leader della CDU Kramp-Karrenbauer di chiudere la seconda sede del Parlamento europeo a Strasburgo, oppure la polemica inutilmente scatenata dalla parte tedesca sul seggio francese al Consiglio di Sicurezza, che a Berlino, per ovvie ragioni, si pensa debba diventare un seggio comune dell'UE. Dal punto di vista francese, c'è come l'impressione che a Berlino si voglia sminuire il ruolo di Parigi. A Parigi ovviamente la cosa non è stata presa molto bene. Non era andata diversamente in passato, come ad esempio è accaduto con le reazioni evasive arrivate da Berlino in seguito alle ripetute proposte di riforma europea lanciate da Macron.

Macron nel suo discorso ha evitato una escalation delle parole. Ha parlato di "un confronto fruttuoso" e della volontà di scendere a compromessi. Il suo discorso tuttavia conteneva un  messaggio chiaro: basta con il divertimento. Il tempo delle avances di Parigi in materia di politica europea è finito. D'ora in poi ognuno farà ciò che ritiene giusto e ciò che riesce a far rispettare. Non c'è più una corsia preferenziale franco-tedesca. D'ora in poi nell'UE ci sarà una libera scelta del partner con cui mettersi in viaggio.

Fra le righe ciò significa anche che Berlino ha perso il suo partner più importante nell'UE. Non è ancora opposizione aperta, ma si tratterà sempre di piu' di prendere decisioni sulla base degli interessi in ogni singola situazione, caso per caso. E questo accade proprio nel momento peggiore in cui la Gran Bretagna dice addio all'Unione europea, un paese che in materia di politica economica e finanziaria si era mosso quasi sempre insieme a Berlino. Londra mancherà quando si tratterà di decidere sull'appetito finanziario dei paesi del sud. Anche su altri temi, Berlino avrà il vento in faccia, all'interno dell'UE. A est, resta il gruppo di Visegrad con la Polonia, l'Ungheria e gli altri, i quali cercheranno di contrastare i diktat reali o presunti provenienti da Bruxelles o Berlino, mentre da Vienna, se sarà necessario, per questioni di pura utilità, si sceglierà un ruolo da suggeritore. Nel sud la Spagna resta vicina a Berlino, ma al momento ha altre preoccupazioni. Su dei paesi come Italia e Grecia bisogna farsi delle preoccupazioni. Berlino nell'UE nel complesso non è isolata. Ma non ha piu' amici. O piu' precisamente: ci sono dei partner con una diversa vicinanza e rilevanza e con motivazioni, obiettivi e interessi non corrispondenti.

Il discorso del presidente Macron del 25.04.2019, non solo segna la fine dello speciale rapporto franco-tedesco. Ma le conseguenze di questa rottura nell'asse europeo vanno ampiamente al di là dell'UE.

C'è una spiegazione a questa situazione. La geometria della politica estera tedesca può essere descritta con tre cerchi. Tre cerchi che corrispondono agli ambiti più importanti per la sicurezza del paese, e non solo per gli interessi economici. Si potrebbe anche parlare di tre dimensioni della politica estera: l'Europa, l'Atlantico e l'Oriente. Il problema ora è che dopo la correzione di rotta di Macron, nessuno di questi tre cerchi può ancora essere considerato intatto.

La dimensione europea ha il suo centro nell'UE, integrata da vari strumenti formali come il Consiglio d'Europa e un gran numero di meccanismi e istituzioni informali. Ma il centro di questo nucleo era costituito dal tandem franco-tedesco. Se questo asse soffre una perdita di qualità, come sta accadendo ora, ci saranno delle conseguenze per l'intero cerchio europeo della nostra geometria di politica estera. Il cuore continua a battere, ma sta soffrendo.

La seconda dimensione della nostra geometria di politica estera sono le relazioni transatlantiche; prima di tutto con gli Stati Uniti, che per la nostra sicurezza ancora oggi restano essenziali come lo sono sempre stati. Sfortunatamente la nostra politica e la stampa di casa nostra non hanno ancora capito che il presidente Donald Trump è tutt'altro che un imbarazzante incidente di percorso della politica americana. Berlino senza dubbio resta una voce importante nel bilancio della politica estera degli Stati Uniti. In queste circostanze, tuttavia, essere scivolati quasi in fondo alla classifica delle simpatie americane deve essere considerato un notevole svarione. Ciò puo' essere spiegato non solo con gli egoismi rabbiosi della politica americana, ma anche dal comportamento di Berlino e da altre questioni sostanziali come il non rispetto degli impegni tedeschi nel settore della difesa, o dal bigottismo di carattere guglielmino della stampa tedesca, e da certe dichiarazioni pubbliche, anche a livello politico. È così mentre il presidente Macron e sua moglie invitano la coppia Trump per un'elegante cena nel ristorante della Torre Eiffel, alla parte tedesca spesso, in materia di decenza civile, manca l'essenziale. Ciò trova vendetta nel fatto che la dimensione emotiva continua ad influenzare gli aspetti piu' fattuali. Inoltre, ciò non sembra essere d'aiuto anche nell'interpretazione delle dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti sugli impegni dell'Alleanza NATO. 

Nel terzo cerchio della nostra architettura di politica estera, quello della politica orientale, senza peraltro averne molta colpa, ci troviamo di fronte alle macerie della politica di distensione, nella sua formulazione finale, contenuta negli Accordi di Helsinki del 1975, i quali poi dal 1989 avevano reso possibile il processo di riunificazione tedesco. Per molti di noi si tratta di un addio difficile, che non viene accettato ovunque. Il ricordo di Willy Brandt è indimenticabile. Persino l'attuale presidente federale Steinmeier nei suoi anni da Ministro degli Esteri ha cercato di salvare ciò che sembrava possibile, e forse ha  tentato di tornare ai buoni propositi iniziali. Ma era come voler guidare alla massima velocità sull'autostrada orientandosi solo con lo specchietto retrovisore. Il suo successore Heiko Maas invece sembra essere in procinto di  tornare a separare un'altra volta i desideri dalla realtà.

Tornando a Emmanuel Macron e al suo discorso del 25.04.2019: non porterà al divorzio definitivo della coppia franco-tedesca, ma piuttosto ad una vita da separati in casa.

Con questa decisione del presidente francese, Berlino si trova ora in una situazione in cui nessuno dei tre ambiti della geometria della politica estera tedesca resta completamente intatto. La rottura dell'asse franco-tedesco ha colpito la dimensione europea sia nella sua qualità, che nella sua efficacia. Anche il rapporto con Washington sta soffrendo, ma non si può dire quale delle 2 parti abbia la responsabilità maggiore. Sarebbe molto bello, tuttavia, se sul lato tedesco, almeno per un po' si riuscisse a spegnere gli altoparlanti. La terza, vale a dire la dimensione della politica orientale, a causa della condotta russa in Crimea e in Ucraina orientale e di altri spiacevoli inconvenienti, non ha più alcuna valenza pacificatrice, come era accaduto sotto Brandt, Schmidt e Kohl, ma si è trasformata invece in un fattore di rischio, purtroppo con una tendenza crescente.

Se si confronta la situazione attuale con quella della politica estera sotto il cancelliere Helmuth Kohl, quando tutte e tre le dimensioni erano stabili, allora la Repubblica federale  odierna è messa molto peggio. Non c'è ragione per drammatizzare. Ma ci stiamo dirigendo verso una situazione di politica estera che in caso di shock interni o esterni imprevisti  potrebbe diventare problematica.


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lunedì 29 aprile 2019

Il riposizionamento di Macron

"La Germania senza dubbio si trova alla fine di una fase di crescita in cui ha tratto un enorme vantaggio dagli squilibri dell'eurozona", ha detto Macron giovedì a Parigi. Dopo i mesi difficili segnati dalla proteste dei Gilets Jaunes, per il presidente francese è arrivato il momento di riposizionarsi e di prendere le distanze da Berlino. E' una vera svolta oppure solo uno show a fini elettorali? Ne scrive Der Spiegel


La seconda parte del mandato del presidente francese Macron inizia con un riposizionamento nei confronti della Germania. Per Macron il paese vicino non è più il modello per le riforme, ma un modello in via di progressivo superamento.

Quando il presidente francese Emmanuel Macron due anni fa si presentò a Berlino per la visita inaugurale alla Cancelliera Angela Merkel, lo fece in maniera quasi sottomessa. A quel tempo, l'auto-proclamato riformatore economico considerava la Germania un modello dal quale c'era ancora molto da imparare.

Quando questo lunedì Macron tornerà a Berlino, i presagi lasciano ipotizzare una situazione completamente diversa. In realtà il presidente sarà solo un ospite al vertice sui Balcani organizzato nella Cancelleria federale. Ma nella cronologia francese è appena iniziata la seconda parte del mandato di Macron: dopo cinque mesi di proteste da parte del movimento dei Gilets Jaunes, che gli sono quasi costati il mandato, il presidente, dopo un tour di tre mesi nella provincia francese, recentemente è riuscito anche a riconquistare un po' di prestigio.

Macron in questi giorni, quindi, dà avvio al "secondo atto" del suo mandato. "Il primo atto era stato completamente focalizzato sulla Germania, nel secondo atto invece ha elaborato la delusione causatagli dalla Germania, e guarda in altre direzioni", spiega a Der Spiegel Sébastien Maillard, direttore dell'Istituto Jacques Delors di Parigi.

Per il suo rapporto con la Germania in pratica significa che il vicino non è più il modello per le riforme francesi, ma solo il principale modello economico d'Europa, in via di progressivo superamento.

"La Germania senza dubbio si trova alla fine di una fase di crescita in cui ha tratto un enorme vantaggio dagli squilibri dell'eurozona" ha detto Macron in una conferenza stampa al Palazzo dell'Eliseo giovedì scorso. Ed è stato ancora più esplicito: "La Germania ha un modello di produzione basato sul fatto che in Europa vi siano paesi con dei bassi costi di produzione - vale a dire esattamente l'opposto del progetto sociale che io intendo rappresentare per l'Europa".

In realtà la critica di Macron al modello economico tedesco non è nuova. "Già Xavier Musca, l'attuale vicepresidente della banca Crédit Agricole, nel suo ruolo di segretario generale del presidente Nicolas Sarkozy, dieci anni fa all'Eliseo aveva espresso lo stesso punto di vista", ricorda l'esperto di politiche europee Maillard. A Parigi c'è sempre stata la preoccupazione che la forza dell'economia tedesca, tutta basata sulle esportazioni, alla fine avrebbe avvantaggiato solo i tedeschi. Ma dopo la crisi finanziaria del 2008, per un lungo periodo di tempo il successo della loro economia sembrava aver dato ragione ai tedeschi.

"La Germania ha fatto le sue riforme al momento giusto, non l'ho mai incolpata per questo", dice ora Macron. Eppure ritiene che queste riforme, per le quali anche lui in Francia negli ultimi due anni si è speso, oggi non siano più un modello.

"Ho chiesto a Macron: la Germania è consapevole delle difficoltà che per noi rappresentano le aggressive politiche economiche degli Stati Uniti e della Cina?", riferisce la star dell'economia di Parigi, Elie Cohen. Cohen è stato professore di economia alla Scuola di Amministrazione di Parigi ENA, dove studiava Macron, ed è tuttora uno dei consiglieri presidenziali.

Quello che Cohen intende è: l'atteggiamento sempre più protezionistico degli Stati Uniti sotto la presidenza di Donald Trump e la politica economica espansiva di Pechino nell'ambito della cosiddetta nuova "Via della seta", dal suo punto di vista, già da tempo avrebbero dovuto garantire nuove condizioni in Europa. Le riforme liberali che la Germania ha predicato fino ad ora, sono diventate inutili. "In realtà, sarebbe proprio nell'interesse economico della Germania concentrarsi sempre di più sull'Europa", dice Cohen, che considera i mercati di vendita tedeschi nei paesi emergenti, come ad esempio quello delle costruzioni meccaniche, a rischio collasso.

La Germania guarda solo alle sue case automobilistiche?

Ma le esportazioni tedesche verso la Cina non continuano a crescere? Parigi non vuole sentirne parlare. "La Germania è troppo dipendente dalla sua industria automobilistica", dice l'esperto di politiche europee Maillard con un sorriso - lui stesso sa che questa è la solita storia, come del resto si ripeteva anche in passato ogni volta che in Germania si parlava degli agricoltori francesi. Come dicevano sempre a Berlino: Parigi in Europa si preoccupa solo della sua agricoltura. Ora sta arrivando il vagone di ritorno.

"La Germania ritiene di aver compreso la crisi del diesel, ma in realtà non si sta muovendo", afferma la star dell'economia Cohen. E fa riferimento anche al rifiuto di Berlino di applicare una tassa digitale sulle principali società tecnologiche statunitensi. Dal punto di vista di Parigi, non si è fatta solo perché il governo federale ha voluto proteggere le aziende automobilistiche tedesche, che altrimenti sarebbero state minacciate da nuove tasse o nuovi dazi negli Stati Uniti.

Macron ora vorrebbe usare la discussione per riposizionare la Francia: allontanarsi dal ruolo di studente modello delle riforme tedesche per diventare il promotore di una nuova politica economica europea sempre meno basata sul semplice credo nel libero mercato.

Macron vorrebbe contrastare gli USA e la Cina. L'esempio più recente: Parigi non vuole avere nuovi colloqui commerciali con gli Stati Uniti - non vuole averli con un paese che è uscito dal trattato sul clima. "Sarebbe incoerente", ha detto Macron.

Il fatto che in questo modo a Berlino Macron abbia provocato molti scuotimenti di capo, lo sa bene anche lui. Sa anche che quando la scorsa settimana gli hanno chiesto dello stato dei rapporti franco-tedeschi, ha subito trovato un nuovo modo per ridefinirli: "un confronto fruttuoso". Si possono chiamare anche così.


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domenica 28 aprile 2019

Per Deutsche Bank non è questione del se, ma solo del quando

"Deutsche Bank si trova in un vicolo cieco. Da sola non è in grado di sopravvivere, ma le fusioni falliscono a causa della sua struttura troppo complessa" scrive Ulriche Herrmann sulla Taz, e ancora: "la questione quindi non è se Deutsche Bank sarà insolvente - ma solo quando". Ne scrive Ulriche Herrmann sulla Taz


Deutsche Bank è alla fine. La fusione con Commerzbank è fallita e non esiste nemmeno un "Piano B" per porre fine alla sua interminabile miseria. Senza dubbio questo venerdì la banca annuncerà un profitto trimestrale netto di 200 milioni di euro, ma questa notizia apparentemente positiva non ha scaldato affatto gli azionisti. Le azioni continuano a soffrire e restano ai minimi.


Due numeri sono sufficienti per illustrare le dimensioni del dramma. Gli azionisti dal 2008 hanno sborsato circa 33 miliardi di euro per gli aumenti di capitale, ma al momento in borsa la banca vale solo 15,7 miliardi di euro. Per gli azionisti aver scelto di investire nella banca è stato un errore gigantesco. Conseguenza logica: non ci sono nuovi investitori in vista.

Ma Deutsche Bank, anche volendo fare ricorso solo alle proprie forze, non può essere risanata. Le mancano dei business profittevoli, ed il fatto che anche in una fase di boom economico la banca abbia continuato ad accumulare miliardi di perdite è un chiaro segnale di allarme. Se la Germania dovesse finire in una recessione, la banca si troverebbe sull'orlo della bancarotta. Perché durante una crisi ci sono sempre aziende e famiglie private che non possono rimborsare i loro prestiti. Deutsche Bank tuttavia non ha un buffer di capitale per assorbire le perdite. La questione quindi non è se Deutsche Bank sarà insolvente - ma solo quando.

Deutsche Bank in un vicolo cieco

Il ministro delle finanze Scholz è pienamente consapevole di questo rischio. Ha gestito il tentativo di fusione con Commerzbank solo con l'obiettivo di ridurre i costi e fare in modo che entrambe le banche potessero diventare più stabili. La fusione auspicata tuttavia è fallita perché le strutture di Deutsche Bank sono troppo complesse e  ipertrofiche. Il caos strutturale è evidente nel sistema IT, noto in tutto il settore come un incubo disfunzionale.

Al momento Deutsche Bank si trova in un vicolo cieco. Da sola non è in grado di sopravvivere, ma le fusioni falliscono a causa della sua struttura troppo complessa. Questo caos interno può essere ridotto solo vendendo le singole divisioni di business. Per quanto possa essere paradossale: Deutsche Bank può sopravvivere solo se viene smontata in pezzi.

Soprattutto l'investment banking è troppo rischioso e troppo costoso. Questa valutazione viene condivisa anche da altre importanti banche: la svizzera UBS ha già ridotto diversi anni fà le sue attività nelle scommesse. Il confronto tutto sommato è ingiusto: l'uscita di UBS dall'investment banking è stata semplice perché c'erano altre attività redditizie. Deutsche Bank invece non ha un area di business profittevole in cui ritirarsi. Anche la "normale" attività bancaria ha costi troppo alti. Deutsche Bank è alla fine.