lunedì 28 gennaio 2019

Heiner Flassbeck - Le gravi responsabilità del dogmatismo tedesco

"Il demone neo-liberista dell'UE ha sede a Berlino", e ancora "chiunque voglia riformare l'Europa non si deve trasferire a Bruxelles ma a Berlino", scrive il grande economista tedesco. Flassbeck non ha dubbi: il vero fallimento in Europa non è la Brexit, ma la leadership politica tedesca, troppo dogmatica per poter salvare la moneta unica. Come sempre un ottimo Heiner Flassbeck da Makroskop.eu





In questi giorni in Germania e altrove molti cosiddetti "amici dell'Europa", con il solito ditino puntato verso il Regno Unito, ci spiegano perché non si riesce a portare a termine la tanto indicibile Brexit e perché il paese si sta rendendo ridicolo in ogni modo possibile - in verità anche il partito laburista e Jeremy Corbyn non sono da meno. Ora è chiaro che non è cosi' semplice voltare le spalle all'Europa senza doverne subire le conseguenze, sostengono i conservatori. Ed è evidente che è necessario affrontare seriamente il tema di una riforma fondamentale dell'UE, invece di continuare a sperare in una rottura dell'Europa, ci dicono invece le sinistre. (...) 



Io stesso non ho mai avuto una grande opinione della Brexit, perché era chiaro sin dall'inizio del processo di separazione che sul lato del Leave c'erano idee estremamente ingenue in merito a quello che si poteva ottenere con l'uscita dall'UE. C'era inoltre un governo conservatore che sostanzialmente non voleva fare politiche diverse rispetto a quelle della maggioranza dei paesi dell'Europa continentale. La campagna del Leave, ad esempio, mirava all'esaltazione del libero commercio e alla limitazione della migrazione di manodopera dall'UE. Ma ciò non era né realizzabile né poteva costituire un serio programma di politica economica.




I soliti resoconti sulla Brexit grondanti Schadenfreude, tuttavia, sono solo un'altra faccia della profonda ignoranza tedesca nei confronti delle preoccupazioni europee. Continuo a pensare che sia giusta l'analisi che individua le principali ragioni del voto britannico nel fallimento dell'Europa e dell'eurozona sui temi economici e in particolare nell'egemonia tedesca esercitata sin dall'inizio della crisi dell'euro. Se la crescita economica dopo il 2009 fosse stata anche solo la metà di quello degli Stati Uniti, e se alla Grecia fosse stato riservato un trattamento ragionevole e al tempo stesso umano, nulla lascia pensare che si sarebbe comunque arrivati alla Brexit.



Ritengo inoltre che un secondo referendum possa essere l'unica onesta via d'uscita da questa situazione complessa. All'epoca del voto sulla Brexit il popolo britannico ha deciso in una situazione di "errore oggettivo" perché nessuno gli aveva spiegato cosa sarebbe realmente accaduto in caso di uscita e quali condizioni potevano essere realisticamente negoziabili con il resto d'Europa. Ora che è stato redatto un progetto di accordo, in ogni caso è molto più facile farsene un'idea ragionata. L'argomento secondo il quale un altro referendum sarebbe una ferita per la società britannica è poco convincente. Un nuovo referendum sarebbe invece l'unico modo per riportare la società britannica su un percorso costruttivo, indipendentemente da come finirà.

Il vero fallimento

Ma le posizioni sull'UE presenti nel dibattito tedesco, fra di loro contrapposte, non riescono a individuare la vera posta in gioco. L'UE non può essere né santificata - indipendentemente da come appare e da come si comporta -, né lo scioglimento dell'Unione europea da solo può risolvere tutti i problemi. Albrecht Müller sulle Nachdenkseiten giustamente sottolinea che gli abusi neo-liberisti in Germania vengono perpetrati in maniera completamente indipendente dall'UE. Di solito non si dà sufficientemente evidenza al fatto che in Europa sotto la "leadership" tedesca le cose vadano oggettivamente molto male e che questo fatto sia tutt'altro che una coincidenza.

Il riferimento ai trattati europei e in particolare al trattato di Maastricht, firmato da tutti gli Stati membri, non aiuta a chiarire la questione. I trattati europei sono lo sbocco naturale del neoliberismo tedesco, spinto dalla CDU e dalla FDP dopo il "cambiamento spirituale e morale" nei primi anni '80. La maggior parte dei partner europei ha firmato i trattati europei nella speranza che alla fine "nulla venga servito cosi' caldo come è stato cotto". Bisogna andare incontro ai tedeschi per indurli, almeno formalmente, ad aderire all'unione monetaria, o meglio queste erano le aspettative prima della firma del Trattato di Maastricht. Piu' avanti poi, in qualche modo, si riuscirà ad includere la Germania in un quadro di interpretazione piu' pragmatica dei trattati.

Ed era un'aspettativa del tutto realistica data l'interpretazione flessibile che oggi viene data del ruolo della politica monetaria - e le critiche che ad essa vengono mosse. La BCE in maniera relativamente elegante si è sottratta all'ingessatura tedesca sul divieto di finanziamento agli stati attraverso una sua interpretazione della politica monetaria, che nel frattempo, su insistenza della Corte costituzionale tedesca, è stata piu' volte confermata anche dalla Corte di Giustizia Europea. Il Quantitative Easing era ed è una misura che si muove nella zona grigia dei trattati, chiaramente ragionevole, ma che dalla Germania è sempre stato attaccato con forza.

Quando si parla di politica monetaria, bisogna anche tenere presente che solo vent'anni fa in Germania, persino nominare la banca centrale in una dichiarazione politica era considerato un tabù politico. Oggi invece, ogni principe della provincia bavarese può criticare violentemente la BCE senza che a nessuno al Ministero delle Finanze o alla Cancelleria venga in mente di chiedere piu' moderazione alle parti nel criticare un'istituzione politicamente indipendente. Anche questo è un pezzo di normalità europea che si allontana in maniera positiva dal dogmatismo tedesco.

La vera disgrazia europea è avvenuta proprio nel momento in cui, dopo la crisi finanziaria globale, la grande, ma non ancora cosi' potente Germania è diventato il principale paese creditore e investitore. E a tal fine è stata decisiva la posizione di avanzo commerciale con l'estero dei tedeschi, ottenuta nei primi dieci anni dell'euro grazie al suo dumping salariale. Poiché per quei paesi che stavano perdendo l'accesso ai mercati finanziari la Germania restava la nazione creditrice più importante, il paese è finito in una posizione di potere che non era affatto in grado di gestire.

E poiché la Germania in termini economici sta andando ancora relativamente bene, negli ultimi anni è emersa una tipica mentalità da professorone tedesco che sta appesantendo l'Europa più di ogni altra cosa. Da un lato non c'è la volontà di prendere atto della  difficile situazione in cui si trovano gli altri paesi. E quando questa viene presa in considerazione, allora ti viene immediatamente detto che gli altri non hanno fatto i "compiti a casa". Proprio a nessuno in Germania viene in mente che fra nazioni civili non è affatto comune che ci sia un paese che distribuisce i compiti da fare agli altri paesi?

Ma il dogmatismo tedesco non avrebbe mai potuto giocare un ruolo decisivo nella crisi se la BCE avesse agito come una normale banca centrale. Se avesse trattato gli stati membri dell'unione monetaria come degli stati che hanno delle difficoltà sul mercato dei capitali, come del resto avrebbe dovuto fare la propria banca centrale. Tuttavia ha scelto di non farlo, mal giudicando i propri compiti, e li ha trattati allo stesso modo in cui il Fondo Monetario Internazionale tratta gli stati in crisi - inclusa la condizionalità neoliberista che ha aperto porte e portoni al dogmatismo tedesco.

Spirito tedesco ...

Non c'è nulla da minimizzare: il demone neo-liberista dell'UE ha sede a Berlino. Accanto alla politica salariale e al mercato del lavoro, la questione centrale resta quella del finanziamento agli stati da parte della banca centrale, questione che prima o poi porterà a una rottura. Nel lungo periodo un'unione monetaria può funzionare solo se la banca centrale in ogni situazione si considera come la banca centrale di ogni singolo paese. Ma qui, ancor più che nel quantitative easing, la BCE dal punto di vista tedesco è vincolata dal divieto di finanziamento agli stati previsto dal Trattato di Maastricht.

Ma ancora una volta la posizione tedesca è più che discutibile. Perché resta una questione completamente aperta decidere se ciò che dovrebbe fare la BCE in una situazione di crisi può essere ancora considerato come un qualsiasi finanziamento agli stati nel senso di quanto previsto dal Trattato di Maastricht. Ciò a cui il trattato si riferisce è senza dubbio il finanziamento a lungo termine della spesa pubblica, in quanto ci si aspettava che questo avrebbe potuto portare all'inflazione. Abbiamo dimostrato in piu' occasioni che ciò è sbagliato; ma durante una crisi non si tratta mai di questa eventualità, ma di qualcosa di completamente diverso.

Una grave situazione di crisi significa che il mercato dei capitali si aspetta che un paese non sarà più in grado di rimborsare i prestiti contratti in euro. Se la banca centrale vuole bloccare queste aspettative, come del resto fanno ogni giorno molte banche centrali in caso di speculazione sulla valuta, deve acquistare titoli di stato del paese interessato. Poiché nell'unione monetaria non ci sono piu' le diverse valute, il rendimento dei titoli di stato funge da surrogato per la valutazione del movimento di una valuta, in quanto fa riferimento al prezzo di un titolo scambiato a livello internazionale.

Se la BCE in una situazione estrema dovesse operare una "gestione dei corsi" si metterebbe di traverso alle aspettative dei mercati poiché ha deciso che queste sono sbagliate o eccessive. Allo stesso modo la Banca nazionale svizzera (BNS) da anni gestisce il corso del franco e contemporaneamente "finanzia" gli eurostati dato che invece di mantenere in contanti il denaro convertito in euro acquista obbligazioni governative. Perché la BCE non dovrebbe fare ciò che invece è naturale per la banca centrale svizzera? Ovviamente finanziare gli stati della zona euro non è un obiettivo della BNS, si tratta piuttosto di una politica per contrastare i movimenti irrazionali del mercato e nient'altro.

... il demone tedesco

Tuttavia la "legalizzazione" di queste semplici operazioni di politica monetaria, lo si può già immaginare, è sicuramente destinata a fallire a causa del demone tedesco degli ultimi dieci anni. Perché non solo non abbiamo imparato nulla, ma anche perché in programma ci sono dei concreti passi indietro. Nell'ambiente degli economisti e dei politici conservatori tedeschi viene generalmente accettato il fatto che per rendere l'unione monetaria "a prova di futuro" sia necessario un totale divieto di intervento della BCE. E ciò significa nient'altro che proprio il principale paese responsabile della miseria vuole ritirare dal commercio i farmaci per la sua cura. Per i paesi partner ciò significava dover vivere con un trattato che nessuno avrebbe mai voluto fosse in questa forma, perché nessun paese con la firma del trattato di Maastricht intendeva rinunciare ad avere una banca centrale. Nessuna persona ragionevole lo può desiderare e con un tale errore di costruzione l'unione monetaria non può certo sopravvivere. Uscire potrebbe essere una follia, ma anche restare dentro certamente lo è.

Posso solo ripetere quello che ho già detto in piu' occasioni: chiunque voglia riformare l'Europa non si deve spostare a Bruxelles ma a Berlino. Chi come tedesco mette in discussione l'unione monetaria perché non vuole prendere in considerazione il giudizio di Bruxelles sui problemi strutturali della costruzione, deve immaginare la follia senza limiti con cui dovrebbe confrontarsi nel caso in cui ci fosse un governo tedesco non piu' legato all'Europa. Chi come me, con consapevolezza dei fatti, ha vissuto il modo in cui una coalizione permanente (non eletta) fra una Bundesbank tedesca "indipendente" e quasi ogni governo di ogni colore nel corso dei decenni ha preso una decisione sbagliata dietro l'altra, avrà i brividi ad immaginarsi un governo tedesco finalmente "liberato" dai vincoli europei.

sabato 26 gennaio 2019

Bisogna aver paura degli artigli dell'Aquila?

"Non ci sono due Germanie, una buona e una cattiva...la Germania cattiva, è solo il fallimento di quella buona, il buono nella sfortuna, nella colpa e nella rovina", scrive German Foreign Policy nel suo editoriale di gennaio. Bellissima riflessione storico-politica del direttore di GFP, Hans-Rüdiger Minow, in occasione della recente firma del trattato di Aachen con il partner francese.




Sicuramente conoscerete l'Aquila tedesca che ancora oggi si può vedere sulle bandiere issate davanti ai giardini privati ​​tedeschi - e che è anche l'icona di stato della Repubblica Federale.

Ciò che normalmente sventola in modo innocuo tra le aiuole tedesche è anche il simbolo di un'egemonia che proietta ombre pesanti su tutta l'Europa.

Queste ombre (economiche, politiche e culturali) però non si riescono sempre a vedere, perché nei racconti ufficiali vengono continuamente ritoccate.

Il ritocco non è una censura:

i racconti ufficiali perdono cosi' i loro contorni piu' problematici. Ci vengono risparmiate le realtà piu' oltraggiose. I contorni diventano più morbidi, diventano un'abitudine, fino al momento in cui nessuno sentirà piu' il bisogno di alzare la voce.

Nella realtà, nell'ombra quotidiana fatta di condizioni di vita profondamente disuguali, mentre alcuni in Europa continuano a cercare bottiglie riutilizzabili nei contenitori dei rifiuti, altri invece, nella luce del sole se la passano piuttosto bene. Ma dire che se la passano bene in questo caso non è abbastanza. Sprecano, scialacquano - e in una misura tale da rendere la ricchezza qualcosa di non piacevole: a guardarla sembra davvero un'oscenità.

Ed è proprio il dominio tedesco sull'Europa a stabilizzare queste condizioni - dal punto di vista economico, politico e culturale.

L'icona dell'Aquila che distende le ali, raffigurata sulle bandiere tedesche, risale all'idea di un "impero" continentale. Per questo nella tedesca Aachen ogni anno viene assegnato un premio che porta il nome di un sovrano medievale, un re che secondo i nostri standard attuali dovremmo considerare un barbaro. Il suo "impero", a cui è legato il cosiddetto premio Karlspreis, era un impero che espandeva costantemente la sua base economica attraverso continue guerre.

L'idea del Reich, dopo Carlo, il cosiddetto "Magno", nella storia nazionale tedesca è sempre stata una forte tentazione e un immenso pericolo per i vicini dei tedeschi in Europa ...

Dopo le guerre perse, "l'aquila imperiale" veniva raffigurata con le ali appese - come nel simbolo di stato della Repubblica di Weimar ...

... in tempi di ambizioni egemoniche e di dominio sull'Europa, queste ali sono cresciute di nuovo e gli artigli sono tornati minacciosi - come nell'emblema nazionale di ogni"Reich" tedesco, nel 1945 martoriato militarmente....militarmente...ma economicamente e politicamente è rimasto intatto. L'aquila continua a volteggiare.

Lo stato tedesco di oggi pensa di essere "identico al Reich tedesco". L'icona dell'aquila nello stemma della Repubblica Federale sottolinea questa ambizione "imperiale". Come un' ombra cupa che non si proietta solo sull'Europa:

Berlino è diventata egemone sul continente.

Appena riunificata, ha condotto una guerra in violazione del diritto internazionale (almeno una), per la distruzione della Repubblica di Jugoslavia...la Germania si è presentata sulla scena internazionale come una potenza in grado di ristabilire l'ordine. Berlino la chiama "Weltpolitik".

I diritti umani sono il pretesto per questa "politica mondiale". Berlino persegue la tutela dei cosiddetti diritti umani soprattutto nell'Europa dell'est, proprio nel luogo in cui milioni di persone sono state derubate dei loro più elementari diritti umani all'ombra dell'Aquila: hanno perso la loro vita e la loro umanità mentre morivano sotto gli stivali dei soldati tedeschi.

Berlino nel frattempo ha iniziato a immischiarsi anche in Cina, meno per i diritti umani, molto di piu' per la pressione economica e geopolitica che può esercitare su di essa... Berlino cerca di riorganizzare l'Africa...Berlino invia truppe tedesche.

L'ampliamento e la radicalizzazione del colpo d'ala tedesco sta prendendo proprio quelle forme tanto temute quando i confini dell'Europa centrale e orientale sono crollati.

Le conseguenze della leadership tedesca nell'Europa dell'UE da molto tempo ormai sono un tema quotidiano nei paesi dell'Europa meridionale e sud-orientale. L'aquila anche se in una forma graficamente rivista, ma con ali decisamente aperte e gli artigli chiaramente visibili, è nuovamente riconoscibile.

Questa sensazione di déjà-vu e di aver già visto qualcosa di simile, rende l'icona dell'aquila nell'emblema di stato della Repubblica Federale un simbolo minaccioso.

La minaccia si fonda sull'eccezionale potere economico tedesco - e sulle esercitazioni militari alle quali si sono uniti anche i governi neoliberisti dei vicini paesi dell'Unione europea. A Berlino si discute apertamente di armi nucleari - con l'obiettivo di una "compartecipazione tedesca".

Bisogna aver paura della Repubblica Federale Tedesca? Dipende.

Chi ha fiducia nei risultati raggiunti dalla cultura tedesca dirà di no. Chi ha conosciuto la freddezza e la mancanza di scrupoli dei tedeschi starà in guardia.

Thomas Mann nel 1945 ha detto:

"non ci sono due Germanie, una buona e una cattiva...La Germania cattiva, è solo il fallimento di quella buona, il buono nella sfortuna, nella colpa e nella rovina."

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NordLB, ovvero la prossima fornace di denaro pubblico

Dopo il disastro finanziario di HSH Nordbank - la Landesbank di Amburgo - la prossima fornace di soldi pubblici sarà la Landesbank della Bassa Sassonia e del Sachsen-Anhalt, cioè la Norddeutsche Landesbank (NordLB). La banca pubblica di Hannover deve trovare alla svelta 3.5 miliardi di euro di capitale e anche se nella banca dovessero entrare i fondi privati, il conto per il contribuente tedesco alla fine sarà molto alto. Ne scrive N-TV


“Non useremo mai piu' i soldi dei contribuenti per salvare le banche”, era la promessa che la politica aveva fatto dopo la crisi finanziaria. Ma dopo la debàcle causata dalle perdite di HSH Nordbank, una minaccia identica arriva ancora una volta proprio dal nord della repubblica federale.

Se la Bassa Sassonia dovesse indire un concorso per scegliere chi è piu' bravo a raccontare balle, Peter-Jürgen Schneider e Reinhold Hilbers avrebbero delle ottime possibilità di vincere. Uno è stato ministro delle finanze regionale fino a novembre 2017, l'altro gli è subentrato subito dopo. Ed entrambi si sono dati molto da fare per minimizzare agli occhi del pubblico la disastrosa situazione finanziaria della Norddeutsche Landesbank (NordLB).

Nel giugno 2016, in merito all'acquisizione da parte di NordLB della dissestata Bremer Landesbank, l'uomo della SPD Schneider dichiarava ad "Handelsblatt": "possiamo farlo in maniera amichevole". Esiste la minaccia di un significativo deterioramento del coefficiente patrimoniale di NordLB? "No, la dimensione dell’acquisizione è sopportabile." Un errore fatale. Soprattutto a causa dei crediti verso le compagnie navali che la banca di Brema ha portato con sé nel nuovo gruppo, problema che NordLB ha dovuto affrontare nel 2016 facendosi carico di una perdita di quasi due miliardi di euro.

Hilbers, all'epoca ancora vice capo-gruppo della CDU nel parlamento regionale, si lamentava per la politica della “scatola nera” di Schneider. Sei mesi prima delle elezioni dell'ottobre 2017 affermava infatti che il parlamento e l'opinione pubblica avevano il diritto di sapere "quale avrebbe dovuto essere l'adeguamento del valore per poter portare a termine il negoziato per l'acquisizione". Pochi giorni dopo le elezioni con le quali la coalizione rosso-verde era stata sostituita da una Große Koalition sono subito comparse le prime speculazioni su una presunta iniezione di liquidità necessaria. All'epoca si parlava ancora di un miliardo di euro. Schneider dichiarava: "Al momento non c'è bisogno di capitale aggiuntivo". Al momento, naturalmente.

"Sempre più nuvoloso"

All'epoca Hilbers riteneva che per la Landesbank sarebbe stato "molto ambizioso" riuscire a raccogliere almeno un miliardo di euro con le proprie risorse. Il cristiano-democratico non aveva ancora sostituito il suo collega della SPD nel ruolo di Ministro delle finanze e capo del consiglio di sorveglianza di NordLB, che già iniziava ad abbellire la situazione e a cercare di prendere tempo. C'è sempre stata molta insoddisfazione nel parlamento regionale in merito alla sua politica di comunicazione sulla reale condizione della banca. Christian Grascha, esperto finanziario della FDP, affermava: "L'informazione ai deputati da parte del governo è scarsa e la gravità della situazione continua ad essere minimizzata". La sua controparte nei Verdi, Stefan Wenzel, descriveva le dichiarazioni pubbliche di Hilbers come "sempre più nebulose".

Hilbers nel febbraio 2018 aveva dichiarato alla "Braunschweiger Zeitung": "la questione di un aumento di capitale da parte dei proprietari al momento non si pone". La situazione della banca è "stabile". In realtà da tempo era ormai chiaro quanto la situazione della banca fosse pessima. Si dice che Thomas Bürkle, il capo della banca, già nel dicembre 2017 avesse chiesto nuovi soldi alla tesoreria della regione. All'improvviso Hilbers ha annunciato: "La NordLB non dispone di capitale proprio a sufficienza". I suoi esperti hanno avviato ogni sorta di considerazione sul modo in cui si poteva rafforzare finanziariamente il gruppo bancario. Ma molte di queste simulazioni sono state affondate perché legalmente, politicamente oppure per via di Bruxelles apparivano come impraticabili

Nel frattempo dal tetto della banca i passeri hanno iniziato a cantare: mancano 3,5 miliardi di euro. E questo nonostante tutti i progressi fatti nella ristrutturazione. Dopotutto nel 2017 la banca aveva di nuovo registrato un utile di 195 milioni di euro. Lo stock di prestiti alle compagnie navali, crediti particolarmente vulnerabili, era sceso a 7,3 miliardi di euro. Nonostante ciò lo scorso autunno il gruppo ha ottenuto il peggiore risultato nello stress test della vigilanza bancaria europea fra tutte le otto principali banche tedesche controllate. Per il 2018 NordLB registrerà un altro esercizio in perdita, dovuto proprio alla sua riorganizzazione: vuole tagliare 1.250 posti di lavoro entro la fine del prossimo anno e per questo sta accantonando denaro.

Una cosa è certa: la società non sarà in grado di soddisfare le aspettative dell'Autorità Bancaria Europea con le proprie forze, vale a dire trovare i miliardi necessari nei primi tre mesi del 2019. Le autorità di Bruxelles infatti prestano molta attenzione alla provenienza dei soldi. Se sospettassero dei sussidi nascosti, potrebbero intervenire vigorosamente come è già accaduto con la WestLB.

Il problema dovrà essere risolto prima di tutto dalla regione della Bassa Sassonia, che possiede il 60 % della banca. Le Casse di Risparmio partecipano con un buon 26 %, la Sassonia-Anhalt con poco meno del 6 %. Il Ministro delle finanze ha teoricamente due opzioni: versare denaro dei contribuenti proveniente dalle casse dello stato oppure far salire a bordo dei finanziatori privati.

Cerberus è interessato

In effetti gli investitori privati hanno bussato alla porta di Hilbers già a metà del 2018. I cristiano-democratici sono piu' aperti nei confronti di una partecipazione del capitale privato rispetto a quanto non lo sia la SPD, con la quale la CDU governa la Bassa Sassonia. Il sindacato Ver.di. boccia senza appello la privatizzazione: "le banche private sono essenzialmente interessate ai guadagni di breve termine, mentre NordLB intende sostenere l'economia della Germania settentrionale nel lungo periodo", dichiara Ver.di. L'esperto finanziario di Ver.di. Wenzel afferma: "la banca minaccia di entrare in una situazione di dipendenza problematica nei confronti di alcuni hedge fund".

Eppure tutto sembra portare a questa strada: Commerzbank, che sorprendentemente - e probabilmente mai seriamente - si era candidata per rilevare NordLB, è sparita altrettanto rapidamente dalla gara, come del resto ha fatto la Landesbank Hessen-Thüringen (Helaba). In corsa restano i fondi statunitensi Cerberus, Centerbridge e Apollo. Cerberus è uno degli acquirenti di HSH Nordbank, che i Laender  Amburgo e Schleswig-Holstein dopo le ingenti perdite causate dai prestiti navali e sotto pressione di Bruxelles hanno dovuto vendere.

Le società di private equity come Cerberus sono dei freddi calcolatori e dei duri negoziatori. Come è già accaduto con HSH difficilmente oseranno entrare in NordLB senza avere una copertura pubblica sui rischi nascosti nel bilancio. Potrebbero pertanto chiedere garanzie allo stato nel caso in cui i prestiti navali tossici diventassero inesigibili. Questo crea un senso di allarme tra le casse di risparmio, le quali dovrebbero prendere in considerazione un possibile ricorso al loro fondo di tutela. Secondo un rapporto del "Börsen-Zeitung", non commentato ufficialmente, le casse di risparmio della Bassa Sassonia hanno completamente cancellato il valore contabile in bilancio della loro quota in NordLB. Costo: 400 milioni di euro.

L'esperto finanziario della FDP Grascha è alquanto arrabbiato per "l'assenza di qualsiasi piano da parte del governo regionale e del ministro delle Finanze", fatto che ci ha portati in un vicolo cieco: "e ora ci saranno miliardi di euro di oneri aggiuntivi per i contribuenti della Bassa Sassonia". Hilbers dovrebbe premere "reset" e avviare un nuovo processo con chiari obiettivi strategici. Grascha ricorda ai politici la promessa fatta dopo la crisi finanziaria globale di dieci anni fa: non salveremo mai piu' le banche con i miliardi provenienti dalle tasse. "E' finita quell'epoca", dice, aggiungendo: "speriamo."

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giovedì 24 gennaio 2019

Perché l'asse franco-tedesco è un bluff

"Il trattato del 1963 è stato il simbolo di una svolta storica: la fine della "secolare ostilità" fra i due paesi. (...) Il nuovo accordo invece è l'espressione di quello che oggi nelle relazioni franco-tedesche ancora funziona - cioè, molto, molto poco", scrive su Makroskop Peter Wahl, giornalista, scrittore ed attivista tedesco. Per l'autore il nuovo trattato di amicizia franco-tedesco esprime piu' che altro la debolezza francese ed è un compromesso per forza di cose vago fra interessi profondamente divergenti. Ne scrive Peter Wahl su Makroskop.eu


Il 22 gennaio 1963 Charles de Gaulle e Konrad Adenauer firmavano il trattato dell'Eliseo, il simbolo della fine della "secolare ostilità" tra Francia e Germania. Esattamente 55 anni dopo, Merkel e Macron, questo martedì hanno firmato ad Aquisgrana un nuovo trattato di amicizia.

L'idea di un nuovo Trattato dell'Eliseo 2.0 arriva da Emmanuel Macron. Era una delle sue proposte di riforma per la politica europea annunciate nel corso del suo famoso discorso alla Sorbona nel settembre 2017. All'epoca il neo-presidente francese pensava di poter prendere due piccioni con una fava: ridare slancio all'Eurozona e al tempo stesso provare almeno a frenare il declassamento della Francia verso il ruolo di junior partner dei tedeschi, se non addirittura di rendere la Francia great again. Il nuovo trattato di amicizia era stato pensato come un lubrificante aggiuntivo di questo processo.

Macron non è riuscito a rimettere in pista l'Eurozona. Prima di tutto a causa del governo tedesco. Quello che restava dei suoi piani, nel giugno 2018 è stato fissato nella Dichiarazione di Meseberg. [1] Invece di un budget della zona euro per "diversi punti percentuali di PIL" come aveva chiesto, c'è solo l'impegno a lavorare, nell'ambito dei negoziati sul bilancio UE, per una posta speciale di poche decine di miliardi di euro. Invece di un Fondo monetario europeo, viene stabilizzato il fondo anti-crisi ESM. Invece di un ministro delle finanze e di un parlamento dell'Eurozona c'è il vuoto. E anche sull'unione bancaria, che dieci anni dopo il crash non è ancora completata, Berlino continua a frenare.

Poco ambizioso

E proprio per non lasciare Macron completamente a mani vuote, il nuovo trattato di amicizia dovrebbe funzionare piu' che altro come una consolazione. L'accordo non riesce davvero ad impressionare nessuno. Le Monde deluso lo descrive come "poco ambizioso". Accanto alla retorica sull'amicizia europea, i 28 articoli contengono molte dichiarazioni di intenti, ma nulla di concreto.

Un esempio tipico: la politica estera dovrebbe essere coordinata in maniera piu' stretta, anche all'ONU (articolo 8), dove Berlino attualmente ha un seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza. La realtà è diversa: Olaf Scholz lo scorso novembre aveva chiesto che la Francia metta a disposizione dell'UE il suo seggio permanente e il diritto di veto associato. A giudicare dalle reazioni acide provenienti da Parigi è diventato subito chiaro che l'amore francese sia per l'UE che per la Germania è così grande che proprio su uno dei pochissimi terreni sui quali Parigi mantiene ancora lo status di grande potenza la Francia non intende indietreggiare di un solo millimetro [2]. Nel trattato resta solo una frase molto diplomatica non vincolante:

"L'ammissione della Repubblica Federale Tedesca al seggio di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è una priorità della diplomazia franco-tedesca".

E questo stile attraversa l'intero documento. Anche per quanto riguarda la cooperazione militare, dove l'obiettivo principale di Macron è quello di far sostenere ai tedeschi una parte del costo delle operazioni militari francesi nelle ex colonie. Mentre la comunità politico-militare in Germania specula sfacciatamente sulla "compartecipazione al nucleare" dei tedeschi, eventualmente anche alla Force de frappe francese [3]. Gli interessi sul tema sono così divergenti che il contratto resta molto vago.

Anche su argomenti piuttosto innocui, come la promozione delle lezioni scolastiche nell'altra lingua, rivendicazioni e realtà divergono. Anche sotto la presidenza di Hollande, solo con un grande sforzo e con tanto rumore si era riusciti ad evitare una drastica riduzione delle ore di tedesco nelle scuole francesi. Anche i bambini francesi oggi preferiscono imparare l'inglese.

Altri articoli del Trattato confermano quello che già funzionava anche senza il trattato di amicizia, come ad esempio la realizzazione dei progetti per la difesa comune e l'intensificazione della cooperazione militare nel quadro della cosiddetta Cooperazione strutturata permanente  (PESCO) dell'UE (art. 3-5), oppure una piu' stretta cooperazione nell'ambito dello sviluppo dell'economia digitale, dell'intelligenza artificiale e dell'industria digitale (articolo 21).

L'ambizione di portata decisamemente maggiore è quella di sviluppare "una integrazione delle economie verso un'area economica franco-tedesca con regole comuni " (articolo 20). Se l'argomento venisse  affrontato in maniera seria, da un punto di vista politico europeo sarebbe senza dubbio interessante, in quanto equivarrebbe al concetto di „Kerneuropa“. Macron in passato aveva già dichiarato di essere un sostenitore "dell'Europa a due velocità". Una Kerneuropa tuttavia non farebbe altro che approfondire la differenziazione del livello di integrazione rispetto alle quattro o cinque velocità già esistenti adesso, intensificando ulteriormente le tendenze centrifughe in tutta l'UE.

D'altra parte, le differenze strutturali tra il modello tedesco della valuta forte e orientato all'esportazione e il sistema monetario debole orientato verso la domanda interna, tipico della Francia, probabilmente porranno dei limiti abbastanza rigidi al livello di integrazione possibile tra le due economie. Il recente rifiuto da parte del governo federale di seguire la proposta francese e di introdurre una tassa digitale sui giganti Internet parla da solo.

Il bilancio economico di Macron è magro

Anche la promessa fatta da Macron di rilanciare l'economia francese non si è trasformata in realtà. La crescita è scesa dal 2,2% del 2017 all'1,7% del 2018, ampiamente al di sotto della media della zona euro (2,1%). [4] Per il 2019 e il 2020 è prevista all'1,6%, da ottenere principalmente con la domanda interna. Il tasso di disoccupazione a fine 2018 è sceso di poco sotto il 9 %. Anche questa non è stata una pagina gloriosa. Il debito pubblico si attestava al 98,7% del PIL nel 2018 e dovrebbe scendere di poco passando al 97,2% entro il 2020. Il disavanzo delle partite correnti rimane invariato allo 0,6 per cento del PIL. Il "campione del mondo dell'export" ha un surplus del 7,8 % del PIL. La Germania è il principale partner commerciale della Francia, mentre la Francia è al secondo posto tra i partner tedeschi. Quindi, ancora una volta, Macron, che ha iniziato il suo mandato parlando di una presidenza da "padre degli dei", si è invece ridotto a a  dimensioni piu' umane. L'operazione "Make France great again" per il momento è sospesa

I Gilets jaunes

Ma Macron il colpo piu' duro l'ha ricevuto dal movimento dei Gilets jaunes. All'inizio c'è stata molta incertezza nella valutazione delle proteste - anche in una parte della sinistra. Sono letteralmente usciti dal nulla e non sembravano adattarsi allo schema familiare dei movimenti sociali. Né le scienze sociali, né i sindacati, né i partiti di sinistra avevano notato nulla. I protagonisti non erano mai stati politicamente attivi prima. Sostenevano di non essere né di sinistra né di destra e si opponevano ad ogni cooptazione dall'esterno. Sono state respinte le strutture organizzative centrali e la rappresentanza sovraregionale.

Da parte del governo inizialmente è stato avviato un duro scontro. Il Ministro del Bilancio Gérald Darmanin ha parlato di "peste bruna". Ma anche con tutte le peculiarità del movimento ben presto si è capito che le diverse rivendicazioni potevano trovare un punto in comune nel contrasto alle riforme neo-liberiste di Macron."Si tratta in sostanza di una rivolta anti-liberista" [5]. Per questa ragione in poco tempo il movimento ha ottenuto la simpatia di due terzi della popolazione e il sostegno della maggioranza della sinistra francese.

Ciò che i sindacati e la sinistra non erano mai riusciti a fare, dopo solo tre settimane invece è riuscito ai gilet jaunes: Macron è stato costretto a fare concessioni in materia di politica sociale. L'aumento della tassa sul diesel, detonatore del movimento, è stato ritirato e sono state approvvate misure di politica sociale per un volume di 10,3 miliardi di euro.

Nessuno può sapere come il movimento potrà andare avanti. Potrebbe stancarsi e disintegrarsi, ma potrebbe anche arrivare a nuovi estremi, come ad uno sciopero generale. Tuttavia ci sono già degli effetti che vanno ben oltre la politica sociale:

- Merkel è un'anatra zoppa, a Londra c'è il caos, il governo socialdemocratico di minoranza a Madrid non andrà avanti a lungo e l'Italia non scoppia dalla voglia di assumere la leadership politica in Europa, la grande speranza della politica europea di Parigi ormai è tramontata;

- sullo sfondo la Brexit, Trump, il rallentamento dell'attività economica e tutti gli altri problemi irrisolti dell'UE, in questo quadro la sua politica europea e la sua capacità di risolvere i problemi continueranno a diminuire;

- non dovrebbe essere possibile continuare con il programma di riforme à la Hartz-IV di Macron. Se dovesse proseguire il suo corso neoliberale rischia una resistenza ancora più grande di quanto non stia già accadendo ora;

- le tensioni interne nella sua République en Marche sono aumentate bruscamente. Il presidente anche fra le sue fila non è più indiscutibile;

- la Francia probabilmente infrangerà i criteri di Maastricht con il 3,2% di deficit. Senza le coperture potrebbe arrivare al 3,4 %. Prima delle proteste era previsto solo il 2,8%. Quindi nella gestione della crisi dell'euro la posizione di Macron di fronte a Berlino e agli altri intransigenti è praticamente inconsistente;

- nelle elezioni per il Parlamento europeo di maggio Macron rischia una pesante sconfitta. Diversamente da qualsiasi altra elezione, si vota con un sistema elettorale puramente proporzionale, vale a dire che verrà mostrato l'effettivo equilibrio di potere in maniera ragionevolmente realistica. Nei sondaggi, il "salvatore d'Europa" da diversi mesi resta sotto il 20 %. Al vertice c'è Marine Le Pen, che dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali, da molti veniva data per politicamente morta. Sebbene il Parlamento europeo in termini di potere politico non sia molto rilevante, le prossime elezioni avranno un alto significato simbolico.

Il trattato del 1963 era il simbolo di una svolta storica: la fine "dell'ostilità secolare" fra i due paesi. Non deve essere glorificato, perché in quel momento a formare il quadro in cui si inseriva il trattato dell'Eliseo c'erano pochi sentimenti nobili attintenti alla sfera delle relazioni interpersonali, come ad esempio la riconciliazione e l'amicizia, ma piuttosto dei duri fatti geopolitici - come la totale disfatta militare della Germania e la guerra fredda. Ma era di importanza storica. Il nuovo accordo invece è l'espressione di quello che oggi ancora funziona nelle relazioni franco-tedesche - cioè, molto, molto poco.


[1] PRESSE- UND INFORMATIONSAMT DER BUNDESREGIERUNG. Erklärung von Meseberg. Das Versprechen Europas für Sicherheit und Wohlstand erneuern. 19.6.2018. https://www.bundesregierung.de/Content/DE/Pressemitteilungen/BPA/2018/06/2018-06-19-erklaerung-meseberg.html
[2] Le Figaro, 30.11.2018; S.8
[3] Major, Claudia (2018): Germany’s Dangerous Nuclear Sleepwalking. Carnegie Europe.
http://carnegieeurope.eu/strategiceurope/?fa=75351&utm_source=rssemail&utm_medium=email&mkt_tok=eyJpIjoiTURFME1EaGxaRFE0Wm1ZeiIsInQiOiIzVm1ZY1g1NXBmUFp2Wm5YejMyYThnZGl3N1REM25VTVhQN2l5dHJQZ2tyZnlva2NuUzVXTUJvMmZLTURtOUZQdGEwXC9MbEsyejd6UTNBZlJQb3BTOERjWUx0RFZTYzJ4Q21HalRJMHhkMENVZDBneW5uM3d6Sjh5elBiNlF2TUwifQ%3D%3D
[4] Alle Zahlen in diesem Absatz nach: Wissenschaftlicher Dienst des Deutschen Bundestages; Referat PE 2 EU-Grundsatzangelegenheiten, Fragen der Wirtschafts- und Währungsunion. Aktuelle wirtschaftliche Lage in Frankreich und Auswirkungen der Protestbewegung „gilets jaunes.” Stand: 11. Januar 2019
[5] Aus der knappen, aber ziemlich treffende Analyse der Bewegung (in deutscher Sprache) unter: https://www.attac.de/fileadmin/user_upload/Kampagnen/Europa/Downloads/Attac_DE-Projektgruppe_Europa_-_Solidarita__t_mit_Gelbwesten_18jan2019.pdf


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martedì 22 gennaio 2019

L'arma invisibile della Francia in Africa: il franco CFA (seconda parte)

"Fino a quando l'Europa appoggerà la politica francese nella zona CFA, l'Europa dovrà anche sopportare le conseguenze di questa politica. Dovrete pertanto continuare a vivere subendo gli effetti delle migrazioni di massa provenienti dalle zone francofone dell'Africa" dice a Deutschlandfunk.de l'ex ministro delle finanze della Costa d'Avorio Koulibaly. Seconda parte dell'ottima inchiesta di Deutschlandfunk sull'arma invisibile dei francesi in Africa, il franco CFA. Si arriva da qui (prima parte)

"L'Africa è stata resa povera"

"Si dice sempre che l'Africa è povera. Non è vero. L'Africa è stata resa povera", dice Moona Ya. La giovane ha poco più di 30 anni e si considera parte di una nuova generazione che finalmente vuole farla finita con l'eredità coloniale. Insieme ai colleghi di tutta l'Africa occidentale, la musicista ha registrato una canzone di protesta. "Sept Minutes contre le Franc CFA". È convinta che i tempi siano maturi per il cambiamento.

Ma non c'è solo la Francia, ad essere responsabile è anche l'Europa. Fin dall'introduzione dell'euro, infatti, il franco CFA non è più agganciato al franco francese ma all'euro. Questo cambiamento nei fatti significa che da allora ogni euro-decisione presa dalla BCE a Francoforte colpisce direttamente 150 milioni di africani che non sono stati né inclusi né coinvolti nella decisione.

Moona Ya: "Ci è sempre stato detto che non ci potevamo gestire da soli perché siamo neri, perché siamo africani. Ci è stato detto che la democrazia non è per l'Africa, perché gli africani sono in un questo o in quel modo. Ma sono tutte sciocchezze! Ovviamente possiamo gestirci da soli il nostro denaro". Ci sono sempre più giovani che non vogliono più accettare il sistema creato intorno al franco CFA, dicono Moona Ya e i suoi colleghi. Quindi, perché il franco CFA non viene abolito?

Il franco CFA non è il solo responsabile

Ci sono diverse ragioni per la situazione attuale. In primo luogo, uno sguardo agli stati vicini mostra che l'abolizione del franco CFA è ben lungi dall'essere la panacea di tutti i mali. Un esempio è la Guinea. Il paese ha abolito il CFA nel 1960 sostituendolo con il franco della Guinea. Tuttavia, la situazione economica del paese è disastrosa almeno quanto quella nella maggior parte degli Stati CFA.

Dopo la riforma monetaria del 1960 la Francia ha fatto il possibile per punire la Guinea per aver lasciato l'Unione monetaria. Quella che per lungo tempo è stata solo una diceria ora può essere provata storicamente: la Francia all'epoca stampava moneta della Guinea contraffatta, inondando il paese di banconote e spingendo la moneta verso un'inflazione catastrofica. Una vergognosa espressione delle rivendicazioni coloniali francesi dell'allora capo di stato francese Charles de Gaulle. Tuttavia le ragioni degli odierni problemi economici del paese ricco di risorse naturali sono altre: la cattiva gestione, la corruzione e la svendita delle risorse minerarie hanno a lungo avuto un ruolo più importante in Guinea che nelle altre ex-colonie francesi.

Un altro caso è il Mali. Il paese dopo l'indipendenza del 1960 ha lasciato il franco CFA e poi vi è rientrato nel 1984. Ci sono anche paesi come la Guinea Bissau che non sono mai stati colonizzati dai francesi e che tuttavia alla fine hanno deciso volontariamente di essere parte dell'unione monetaria. Nonostante tutte le critiche legittime, il franco CFA ha un certo fascino: un'area economica comune, il commercio più facile con l'Eurozona e la stabilità monetaria restano argomenti convincenti

Anche le élite africane ne beneficiano

Ma c'è un'altra ragione se il franco CFA ancora oggi, più di mezzo secolo dopo l'indipendenza delle ex colonie, continua ad esistere. L'economista ed ex consigliere del FMI Abdourahmane Sarr dice: "potremmo riformare il Franco CFA domani. I capi di stato potrebbero incontrarsi e decidere di far rientrare le riserve dalla Francia. Il problema è che non abbiamo la giusta leadership politica. L'élite beneficia del CFA sopravvalutato. Queste persone non sono interessate ad alcun cambiamento del sistema che li ha resi ricchi. Non c'è nessuna pistola puntata alla tempia di nessuno. I nostri politici agiscono di loro spontanea volontà".

In effetti diversi presidenti francesi in passato hanno ripetutamente dichiarato di essere aperti nei confronti di una riforma del franco CFA. L'ultimo a dirlo è stato il presidente Emmanuel Macron nel novembre 2017 in un discorso agli studenti presso l'Università di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, "Nessuno obbliga gli stati a restare membri del franco CFA. Se il vostro presidente domani decidesse di lasciare l'Unione, il Burkina Faso domani sarebbe fuori dalla moneta. Gli stati  africani membri del franco CFA sono essi stessi padroni del loro destino. La decisione spetta a loro".

Continuità coloniale e corruzione

L'ex ministro delle finanze-Koulibaly è scettico, ha avuto esperienze diverse, e dice: "io stesso come ministro delle finanze già nel 2000 ho pubblicamente respinto il franco CFA annunciando l'uscita del mio paese. Ma l'allora presidente francese Jacques Chirac ha chiamato tutti i presidenti africani e ha fatto in modo che il generale Robert Guei, l'ex capo del governo militare in Costa d'Avorio, mi buttasse fuori dal governo. Alla fine sono stato espulso dal Ministero delle Finanze e spostato alla carica di Presidente del Parlamento ".

Questa storia non può essere verificata. Ma si inserisce in una lunga serie di interventi politici simili da parte della Francia nelle sue ex colonie: tentativi di colpi di stato segreti, omicidi e ricatti politici. Anche se solo la metà di questi fosse vera si tratterebbe di un business alquanto dubbio che non teme confronti con quello degli Stati Uniti in America Latina e in parti del Medio Oriente. E questa miscela di continuità coloniale e sfruttamento economico, da un lato, e di corruzione, cattiva gestione e svendita delle materie prime da parte delle élite locali, dall'altro, costituisce la base per la povertà delle ex-colonie francesi

L'ex ministro delle finanze della Costa d'Avorio Koulibaly è convinto: "fino a quando l'Europa appoggerà la politica francese nella zona CFA, l'Europa dovrà anche sopportare le conseguenze di questa politica. Pertanto dovrete continuare a vivere subendo gli effetti delle migrazioni di massa provenienti dalle parti francofone dell'Africa".
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L'arma invisibile della Francia in Africa: il franco CFA

Nell'Africa occidentale e centrale prosegue lo sfruttamento delle ex colonie francesi, anche grazie a una moneta che alimenta le vecchie relazioni di potere coloniale e blocca lo sviluppo economico. Le conseguenze: povertà, conflitti e migrazioni. A parlarne non è un covo di complottisti ma la autorevolissima radio pubblica Deutschlandfunk. Un'ottima inchiesta sull'arma invisibile della Francia in Africa, il franco CFA. Da Deutschlandfunk.de (prima parte)


Le donne con i bambini per mano spingono tra la folla, i ragazzi frugano fra le montagne di vestiti stesi sulla strada e ammucchiati sui teloni di plastica. Giornata di mercato ai margini della città vecchia di Dakar. La capitale dell'ex colonia francese del Senegal è uno dei centri economici dell'Africa occidentale. Negli ultimi anni qui si è formata una classe media relativamente forte. Ma la maggior parte del paese continua a vivere in povertà.

Importazioni più economiche della produzione interna

Un fenomeno che può essere osservato in molte parti dell'Africa: élite urbane da un lato, dall'altro lato una grande povertà nei sobborghi della città e nelle zone rurali. Da dove arriva tutto ciò e perché decenni di aiuti allo sviluppo e miliardi di dollari non sono riusciti a far uscire il continente africano dalla povertà? Ci sono diverse ragioni. Una delle cause principali può essere trovata qui, al mercato di Dakar. Sulle etichette dei pantaloni e delle magliette ci sono nomi e marchi noti: Zara, H & M, Wrangler e Co. Tutti di seconda mano.

Nell'Africa occidentale ci sono alcune delle zone di produzione di cotone più importanti del mondo, ma praticamente non esiste un'industria tessile indipendente. Neanche il dieci per cento del cotone viene lavorato sul posto. Di solito è più economico importare indumenti usati dall'Europa piuttosto che produrli in Africa occidentale. Com'è possibile che accada in una parte del mondo in cui il costo del lavoro è bassissimo?

Chi è alla ricerca delle ragioni, chi vuole andare alle radici della povertà nelle ex colonie francesi dell'Africa sub-sahariana si scontra immediatamente con un sistema economico complesso, una fitta rete di clientelismo e dipendenze: l'eredità del colonialismo, un sistema che avvantaggia le industrie francesi, i governanti africani e il loro ambiente di potere.

La potenza coloniale francese ne ha approfittato fino ad oggi

Quanto la Francia anche dopo l'indipendenza delle sue ex colonie abbia fatto affidamento sui suoi antichi privilegi, lo mostra una lettera dell'allora ministro delle Finanze francese Michel Debré al suo omologo del Gabon nel luglio del 1960. In essa Debré scriveva senza mezzi termini: "Noi vi diamo l'indipendenza a condizione che lo stato dopo la sua indipendenza si attenga agli accordi commerciali sottoscritti. L'uno non puo' funzionare senza l'altro."

Accordi commerciali firmati in cambio dell'indipendenza. Fino ad oggi la Francia, grazie a questi vecchi trattati, si è assicurata un accesso preferenziale alle risorse naturali delle ex colonie. Nel caso del Gabon, ad esempio, il trattato afferma: "La Repubblica del Gabon si impegna a fornire risorse strategiche per gli armamenti dell'esercito francese. L'esportazione di queste materie prime in altri paesi per ragioni strategici non è consentita"

Materie prime molto al di sotto dei prezzi sul mercato mondiale

Sono stati stipulati altri trattati in parte identici con tutte le ex colonie dell'Africa sub-sahariana. Nell'appendice degli accordi viene spiegato quali sono le materie prime strategicamente importanti: oltre alle fonti energetiche convenzionali come il petrolio, il gas e il carbone, ci sono anche gli elementi radioattivi come l'uranio e il torio, oltre al litio e al berillio. E di fatto la Francia ancora oggi continua a comprare materie prime in Africa occidentale e centrale ad un prezzo molto inferiore rispetto a quello presente sul mercato mondiale.

In Niger, ad esempio, il gruppo industriale francese Orano, ex Areva, controllato dallo stato, estrae abbastanza uranio da coprire circa il 40% della sua domanda totale in Francia, pagandolo circa un terzo del suo normale prezzo di mercato. E il Niger è uno dei paesi più poveri al mondo. È probabilmente l'esempio più estremo dello sfruttamento previsto dai trattati che la Francia ha imposto alle sue ex-colonie in cambio della loro indipendenza. Ma il principio di fondo è lo stesso in tutti i paesi interessati.

Mamadou Koulibaly è stato prima ministro delle finanze della Costa d'Avorio e poi  per dieci anni presidente del Parlamento. E ci dice: "lo sfruttamento oggi si presenta sotto forma di aiuto allo sviluppo." L'occidente si comporta come se stesse ricoprendo l'Africa con miliardi di aiuti. "Ma in verità, si tratta di un bidone. Esportando verso la Francia a dei prezzi molto piu' bassi rispetto a quelli presenti sul mercato mondiale, perdiamo molto piu' soldi di quanti poi non ne tornino indietro".

Il franco CFA - strumento per lo sfruttamento economico

Ma non ci sono solo questi vecchi contratti a garantire alla Francia dei benefici e l'influenza economica sulle sue ex colonie. Il nucleo centrale della continuità coloniale e del controllo finanziario viene troppo facilmente sottovalutato: il franco CFA; il franco per le "Colonie francaises d'afrique", le colonie francesi d'Africa. Una valuta utilizzata da otto paesi dell'Africa occidentale e sei stati centro-africani. Entrambe le regioni hanno una propria banca centrale, ma entrambe le valute sono legate all'euro allo stesso tasso di cambio e quindi scambiabili. In totale 150 milioni di persone usano il franco CFA. 

"Il franco CFA viene sempre descritto come una moneta progettata per dare all'Africa occidentale una certa stabilità economica", spiega la giornalista ed esperta di Africa Fanny Pigeaud. Insieme all'economista senegalese Ndongo Samba Sylla ha appena pubblicato un libro sul franco CFA. Il titolo è: "L'arma invisibile della Francia" .

"Sì, la Banca centrale dell'Africa occidentale, obbligata dai trattati con la Francia, sta perseguendo una politica monetaria che mantiene l'inflazione al minimo. In questo senso, in termini di prezzi, c'è davvero una certa stabilità. Tuttavia, questa stabilità forzosa blocca lo sviluppo economico dei paesi interessati. In questo modo è impossibile avviare una politica monetaria indipendente. C'è sicuramente una certa stabilità, ma una stabilità nella povertà. Ecco perché gli economisti da anni affermano che il sistema deve essere riformato ".

La Francia continua a controllare

La moneta è stata creata nel 1945 per imporre gli interessi francesi nelle colonie. Era un mezzo di sfruttamento economico. L'obiettivo di fondo, secondo la giornalista, ancora oggi non è cambiato. L'ex Ministro delle Finanze Mamadou Koulibaly afferma: "l'indipendenza ha concesso libertà politica alle ex colonie, ma ha mantenuto l'intero sistema di sfruttamento coloniale. L'indipendenza è solo di facciata. "

È possibile? Colonialismo nel XXI secolo? Il franco CFA di fatto rappresenta un sistema di controllo da parte di una potenza straniera unico nel suo genere a livello mondiale. Anche se dopo l'indipendenza le parole dietro l'acronimo sono state cambiate, in modo che oggi CFA in Africa occidentale significhi "Communauté Financière d'Afrique" e in Africa centrale invece "Cooperazione Financiere en Afrique Central". Ma fino ad oggi tuttavia non c'era mai stata nessuna valuta al mondo gestita dall'esterno come accade al franco CFA.

Il 50% delle riserve valutarie dei 14 paesi CFA ancora oggi si trova in Francia. Le banconote vengono stampate in Francia e la Francia ha il diritto esclusivo svalutare o rivalutare la valuta. In ciascuna delle banche centrali dell'Africa occidentale e centrale siede un rappresentante francese con il diritto di veto. Senza la Francia non si muove nulla. Le divise estere, i tassi di cambio e le riserve valutarie, che a prima vista potrebbero sembrare anche noiose, ad uno sguardo più ravvicinato ci spiegano molto sulle origini della povertà, dei conflitti e delle migrazioni nelle ex colonie francesi.

"Il franco CFA è un sistema di repressione finanziaria"

"Non sto dicendo che il franco CFA sia l'unica ragione del sottosviluppo dei nostri paesi. Ma è uno dei più importanti. Il franco CFA è un sistema di repressione finanziaria ", afferma Guy Marius Sagna. Il 39enne attivista è co-fondatore del movimento "France Degage". Tradotto, significa piu' o meno "Francia vattene". Per le sue azioni politiche contro il franco CFA, Sagna è stato arrestato più di 20 volte. Come la giornalista Fanny Pigeaud, l'economista Ndongo Semba Sylla e l'ex ministro delle finanze della Costa d'Avorio, anche Sagna vede nel franco CFA tre problemi principali: in primo luogo, il suo passato coloniale, in secondo luogo, la sua mancanza di flessibilità a causa del cambio fisso con l'euro, e la terza, una massiccia sopravvalutazione del cambio.

In realtà il franco CFA non riguarda solo l'indipendenza delle ex colonie o la continuità dell'influenza francese. Riguarda anche il significato economico e l'uso della valuta. E quasi nessuno può giudicarlo con la stessa competenza di Abdourahmane Sarr. Sarr ha lavorato per dieci anni al Fondo Monetario Internazionale ed è stato consigliere del FMI presso la Banca centrale dell'Africa occidentale dal 2007 al 2009.

Il Franco CFA inibisce lo sviluppo economico

Dal un punto di vista economico non c'è un solo motivo per restare agganciati al franco CFA nella sua forma attuale, secondo l'economista infatti "tutti gli economisti concordano sul fatto che il CFA debba essere riformato. In primo luogo, nessun paese al mondo mantiene le sue riserve in un altro paese, e in secondo luogo, il CFA è troppo forte perché è agganciato all'euro e quindi non è allineato alle prestazioni economiche dell'Africa occidentale".

Cosa può significare una valuta troppo forte per un popolo lo si puo' osservare al mercato di Dakar, dove si trovano vestiti di seconda mano europei invece dei vestiti africani. Il tasso di cambio funziona come una sovvenzione alle importazioni e una tassa simultanea sulle esportazioni. L'economista Ndongo Semba Sylla ci dice: "se vogliamo svilupparci e creare posti di lavoro, non dobbiamo solo produrre materie prime ma anche investire nella trasformazione. Con il franco CFA è impossibile".

Il peg fisso con l'euro non solo crea una dinamica all'interno della quale è quasi impossibile costruire un'industria fiorente, ma significa anche che gli stati CFA  importano più di quanto esportino, l'economista dice: "fin dagli anni sessanta non abbiamo mai avuto un saldo commerciale con l'estero in pareggio. Abbiamo sempre avuto un deficit nel commercio estero. Di conseguenza, siamo sempre stati in una situazione di indebitamento con l'estero. "E questi debiti devono essere rimborsati. Ogni anno i paesi CFA devono trasferire miliardi verso l'Europa. Solo per pagare gli interessi sul denaro preso in prestito."

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domenica 20 gennaio 2019

Perché la priorità assoluta degli industriali tedeschi è evitare una Hard Brexit

"L'accordo avrebbe declassato la Gran Bretagna allo stato di colonia commerciale dell'UE" scrive l'importante economista dell'Ifo Institute di Monaco Gabriel Felbermayr in riferimento al voto del Parlamento britannico sulla Brexit. Per questo motivo gli industriali tedeschi cominciano a preoccuparsi seriamente e a lanciare i loro accorati appelli in favore di un accordo con lo UK che tenga in considerazione l'enorme avanzo commerciale verso l'isola e i 750.000 posti di lavoro che nell'industria tedesca dipendono direttamente dall'export oltremanica. Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy


"Allo stato di colonia commerciale"

Il respingimento dell'accordo sulla Brexit da parte del Parlamento britannico era prevedibile sin dall'inizio. L'accordo conteneva infatti diversi elementi del tutto inaccettabili per uno stato sovrano - in particolare in riferimento al cosiddetto backstop. Nel caso in cui in futuro non fosse stato possibile raggiungere alcun risultato nei negoziati sulle relazioni fra il Regno Unito e l'Unione, l'accordo avrebbe previsto non solo la permanenza del paese nell'unione doganale, ma anche una duratura spaccatura di carattere economico tra l'Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. Bruxelles avrebbe semplicemente potuto forzare entrambi gli elementi rifiutandosi di raggiungere un accordo; Londra, infatti, nei confronti di una tale decisione sarebbe del tutto impotente [1]. Di fatto l'accordo, come ribadito da Gabriel Felbermayr dell'Ifo Institute di Monaco, "avrebbe declassato la Gran Bretagna allo status di colonia commerciale dell'UE" [2]. La Camera dei Comuni martedì sera lo ha respinto. Le dichiarazioni del presidente del Consiglio UE, Donald Tusk, suggeriscono invece che Bruxelles stava cercando proprio questo risultato. Martedì Tusk su Twitter, rivolgendosi quindi a un vasto pubblico, scriveva: "Se un accordo è impossibile e nessuno vuole un no-deal, chi avrà il coraggio di dire qual'è l'unica soluzione positiva?" In effetti, la permanenza della Gran Bretagna nell'UE sarebbe proprio nell'interesse di Berlino e Bruxelles (...) 

Miliardi di perdite

Negli ambienti commerciali ed economici tedeschi questo gioco pericoloso sta facendo suonare molti campanelli di allarme. Dopo gli Stati Uniti, il Regno Unito è il secondo più grande destinatario di investimenti diretti tedeschi - con oltre 120 miliardi di euro. È anche il quinto più grande mercato di vendita per le aziende tedesche; e come ha dichiarato il presidente della Camera dell'Industria e del Commercio tedesca (DIHK), Eric Schweitzer, il volume delle esportazioni tedesche verso il Regno Unito a partire dal referendum sulla Brexit "è già sceso di oltre il cinque per cento." [8] Le tariffe doganali che secondo le norme WTO entrerebbero in vigore in caso di "hard Brexit", solo per gli esportatori di auto tedeschi potrebbero comportare "maggiori oneri per circa due miliardi di euro all'anno", cosi' metteva in guardia il presidente della DIHK nel mese di dicembre. Inoltre, in Germania "più di 750.000 posti di lavoro dipendono...dalle esportazioni verso la Gran Bretagna". A ottobre un'analisi dell'Institut der Deutschen Wirtschaft (IW) di Colonia ha rivelato che le tariffe WTO e le probabili barriere tariffarie future, solo per l'economia tedesca, potrebbero portare a decine di miliardi di euro di perdite. Nello scenario peggiore, il commercio tedesco-britannico potrebbe crollare così bruscamente da provocare perdite superiori ai 40 miliardi di euro all'anno [9].

Le priorità dell'economia tedesca

Anche il presidente della Federazione delle industrie tedesche (BDI), Joachim Lang, si è espresso in linea con queste preoccupazioni. "Il respingimento dell'accordo è drammatico", ha detto Lang, "per la Germania l'uscita disordinata del Regno Unito vuol dire mettere a rischio un volume di commercio estero bilaterale di oltre 175 miliardi di euro - tenendo conto delle importazioni e delle esportazioni di beni e servizi". [10] Si rischia "una clamorosa ed immediata recessione dell'economia britannica che anche in Germania non passerebbe inosservata". "Qualsiasi mancanza di chiarezza metterebbe a repentaglio decine di migliaia di aziende e centinaia di migliaia di posti di lavoro in Germania...", avverte il capo della BDI: "La priorità assoluta" sarà: "evitare una hard Brexit". Insieme ad altri importanti rappresentanti dell'economia tedesca, il CEO di Deutsche Bank, Christian Sewing, mette in guardia da una Brexit non regolamentata: costerebbe "al resto dell'UE...almeno mezzo punto del loro PIL" [11].

Troppi cantieri aperti

Lo stato di allarme dell'economia si spiega anche con il fatto che lo scorso anno la crescita economica tedesca è diminuita significativamente - dal 2,2 per cento del 2017 all'1,5 per cento del 2018, il dato più basso dal 2013 - e che contemporaneamente c'è il rischio di altri crolli sui diversi fronti economici. [12] Anche la Cina dovrebbe mostrare una crescita più lenta a causa della guerra commerciale avviata con Washington; le esportazioni tedesche verso la Repubblica Popolare, il terzo più grande mercato di vendita per le aziende tedesche, infatti, hanno già iniziato ad indebolirsi. La Francia, il secondo cliente dei tedeschi, al momento non è certo un bastione di stabilità in espansione, mentre la Germania sta combattendo una dura battaglia commerciale con il suo cliente più importante, gli Stati Uniti. In caso di Hard Brexit c'è il rischio molto concreto di un crollo delle esportazioni verso il mercato in quinta posizione.
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[1] S. dazu An die EU gefesselt.
[2] Chaos-Brexit verunsichert deutsche Wirtschaft. n-tv.de 16.01.2019.
[3] "Die Zeit ist fast abgelaufen". faz.net 15.01.2019.
[4] Remo Hess: Brexit-Verhandlung: Die Briten hatten keine Chance gegen Brüssel. nzzas.nzz.ch 12.01.2019.
[5] S. dazu Das Feiglingsspiel der EU.
[6] Ashley Cowburn: "This is not Dunkirk": Cabinet minister Liam Fox claims no-deal Brexit would not be "national suicide". independent.co.uk 14.01.2019.
[7] Anthony Wells: As MPs prepare for the Brexit vote, where do Britons stand? yougov.co.uk 14.01.2019.
[8] Deutsche Wirtschaft warnt vor hartem Brexit. n-tv.de 15.12.2018.
[9] Michael Hüther, Matthias Diermeier, Markos Jung, Andrew Bassilakis: If Nothing is Achieved: Who Pays for the Brexit? Intereconomics 5/2018, 274-280. S. dazu Das Feiglingsspiel der EU.
[10] Chaotischer Brexit rückt in gefährliche Nähe. bdi.eu 16.01.2019.
[11] Chaos-Brexit verunsichert deutsche Wirtschaft. n-tv.de 16.01.2019.
[12] Wirtschaft schrammt an der Rezession vorbei. Frankfurter Allgemeine Zeitung 16.01.2019.