Visualizzazione post con etichetta Hans-Böckler-Stiftung. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Hans-Böckler-Stiftung. Mostra tutti i post

venerdì 20 ottobre 2017

Perché la disuguaglianza sociale in Germania non è frutto del caso ma il risultato di una precisa scelta politica



Uno studio molto interessante pubblicato dalla Hans-Böckler-Stiftung e realizzato da due ricercatori del prestigioso Institut Arbeit und Qualifikation (IAQ) di Duisburg (disponibile qui per intero) ci spiega perché la disuguaglianza sociale in Germania non è frutto del caso ma è il risultato di precise scelte politiche adottate negli ultimi decenni. Una breve presentazione dell'analisi dal sito della Hans-Böckler-Stiftung




Poiché il mondo del lavoro è sempre piu' complesso le aziende si farebbero la guerra fra di loro per accaparrarsi i dipendenti piu’ qualificati. I lavoratori con una scarsa preparazione sarebbero esclusi da questo mercato e di conseguenza le differenze in termini di reddito continuerebbero ad aumentare. La maggior parte degli economisti tenta di spiegare in questo modo l'aumento della disuguaglianza sociale. Ma per Gerhard Bosch e Thorsten Kalina dell'
Institut Arbeit und Qualifikation
 (IAQ) non si tratta di una spiegazione convincente. Secondo l’analisi condotta dai 2 studiosi, il declino in termini quantitativi del lavoro meno qualificato, iniziato negli anni '70, non puo' spiegare il crollo dei salari orari medi avvenuto due decenni dopo. Soprattutto perché la teoria economica standard ignora l'influenza delle mutate relazioni di potere e i cambiamenti nelle istituzioni di mercato. Bosch e Kalina sostengono che l'aumento della disuguaglianza sociale sia da ricondurre in primo luogo all'indebolimento della contrattazione collettiva. Nel loro studio identificano 6 fattori che nel corso degli anni hanno indebolito il ruolo di equilibrio in precedenza svolto dai contratti collettivi:

- Dopo il 1990 non si è riusciti ad estendere ai nuovi Laender il sistema della contrattazione collettiva in vigore nella Germania occidentale

- La possibilità data alle imprese dell'est di sottrarsi temporaneamente alla contrattazione collettiva, nel corso degli anni si è trasformata in una regola valida per tutta la Germania. Le piccole e medie imprese nel settore dei servizi nel giro di pochi anni sono uscite dal sistema dei contratti di categoria.

- Le aziende hanno esternalizzato una parte sempre maggiore delle loro attività per risparmiare sul costo del lavoro

- La deregolamentazione avviata dall'UE ha aperto la strada alla concorrenza low cost che ha messo sotto pressione molte aree economiche regolamentate dalla contrattazione collettiva, è avvenuto ad esempio nelle telecomunicazioni, nel trasporto pubblico locale oppure nella raccolta dei rifiuti

- La corsa al ribasso nelle retribuzioni è stata facilitata dalle liberalizzazioni dell'UE nell'ambito della fornitura di servizi, soprattutto nel settore nelle costruzioni.

- A causa della forte pressione politica i sindacati hanno siglato accordi di categoria con clausole aperte che permettevano alle imprese economicamente piu' deboli di ridurre temporaneamente gli standard retributivi. Nella pratica cio' ha portato ad una riduzione permanente dei salari in molti settori.


Cio' è potuto accadere, secondo Bosch e Kalina, perché le imprese dopo la vittoria del capitalismo “nello scontro fra i sistemi economici", nell’ambito del conflitto redistributivo hanno avuto "poco rispetto nei confronti della stabilità del sistema politico". Una parte delle "élite, soprattutto nelle grandi aziende, ha iniziato a rifiutare i compromessi raggiunti dallo stato sociale nel dopoguerra".

Secondo i ricercatori anche le “riforme Hartz” avrebbero contribuito a consolidare la crescente diseguaglianza sociale. E' sicuramente vero che l'ampliamento della forbice dei redditi è iniziato prima del 2005. Ma l'aumento della pressione esercitata sui disoccupati affinché accettassero qualsiasi lavoro, anche i piu’ precari, ha fatto si' che i salari nella parte piu’ bassa della scala abbiano continuato a scendere anche durante le fasi di buona congiuntura. A cio' si deve aggiungere che il ruolo redistributivo dello stato si è ridotto: mentre la tassazione per gli imprenditori e per i redditi piu' alti scendeva, l'aumento della tassazione indiretta e la riduzione delle pensioni e delle indennità di disoccupazione gravava sulle famiglie a basso reddito in maniera piu’ che proporzionale.

Il fatto che le disuguaglianze sociali non aumentino in maniera automatica e che lo sviluppo della redistribuzione sia fortemente influenzato da fattori politici, per i 2 ricercatori deve essere considerato un elemento incoraggiante. Significa soprattutto che la disuguaglianza sociale "puo' essere ancora frenata". Con il salario minimo per legge si è fatto un primo passo in questa direzione.

giovedì 10 ottobre 2013

Quasi un lavoratore su quattro ha un "basso salario"

Una recente analisi dell'Institut Arbeit und Qualifikation ci ricorda ancora una volta le dimensioni del cosiddetto settore a "basso salario": quasi un occupato su quattro ne fa parte e la sola via di uscita resta il salario minimo fissato per legge. Dalla Hans-Böckler-Stiftung
Percentuale di occupati che riceve un "basso salario"
Anche se il mercato del lavoro negli ultimi mesi ha avuto uno sviluppo positivo, quasi un occupato su quattro continua a lavorare per un "basso salario". Lo mostra un'analisi del panel socio-economico realizzata da Thorsten Kalina e Claudia Weinkopf dell'Institut Arbeit und Qualifikation (IAQ). Nel 2011, secondo gli ultimi dati disponibili, 8.1 milioni di lavoratori guadagnavano meno dei due terzi del salario orario mediano, cioè meno di 9.14 € lordi l'ora, vale a dire il 23.9% degli occupati. Rispetto al 2010 la quota è leggermente diminuita - dello 0.7%. Dal 1995 il numero dei lavoratori coinvolti è invece cresciuto di 2.6 milioni.

La paga oraria media degli occupati nel settore a "basso salario" è ancora inferiore: nel 2011 la media era di 6.46 € lordi l'ora nella Germania dell'ovest e 6.21 € nell'est. In tutta la Germania circa 1.8 milioni di occupati si sono dovuti accontentare di un salario orario inferiore ai 5 € lordi l'ora, 2.9 milioni guadagnavano meno di 6 € lordi e 4.4 milioni meno di 7 € lordi. A ricevere una bassa paga molto spesso sono i minijobber: nel 2011 oltre la metà di loro lavorava per meno di 7 €  lordi l'ora, un terzo per meno di 5 € lordi. Con l'introduzione di un salario minimo per legge di almeno 8,5 € lordi l'ora, circa un quinto della forza lavoro complessiva vedrebbe salire la propria busta paga. Secondo i ricercatori dello IAQ sarebbero quasi 7 milioni i lavoratori ad avere diritto ad un aumento salariale. 


Percentuale fra tutti gli occupati che nel 2011 lavorava per un salario orario lordo inferiore alla soglia indicata

Oltre ai minijobber, fra gli occupati a rischio di ricevere un basso salario ci sono i lavoratori senza formazione professionale, nel 2011 4 su 10 guadagnavano meno di 9.14 € lordi l'ora, Anche i giovani, i lavoratori a tempo determinato e gli stranieri sono sovrarappresentati in questo gruppo.

Il 71.2% dei minijobber nel 2011 riceveva un "basso salario"

Aumentano rispetto a 10 anni fa i lavoratori qualificati che ricevono un "basso salario": il rischio è cresciuto del 16.8 % dal 2001 al 2011. Nel complesso il 69.8% di tutti i lavoratori a "basso salario" ha completato una formazione professionale, l'8.7 % perfino uno studio di livello universitario.

Tra i lavoratori full time la crescita fra il 2001 e il 2011 è stata del 13.9 %. Fra le donne la quota è leggermente scesa - dal 29.9 al 29.6 %. Tuttavia in ogni forma lavorativa e ad ogni livello di qualificazione le donne rispetto agli uomini hanno maggiori probabilità di ricevere una bassa paga oraria: anche dopo aver concluso una formazione professionale il rischio resta doppio.

Le conseguenze per Kalina e Weinkopf sono molto chiare: i salari minimi settoriali non sono evidentemente sufficienti a bloccare il fenomeno dei "bassi salari" in Germania. "Con l'introduzione di un salario minimo per legge, ci sarebbe una soglia minima non superabile e valida per tutti gli occupati", scrivono i ricercatori dello IAQ. Inoltre, l'altissima percentuale di bassi salari fra i minijobbber metterebbe alla prova lo status speciale di questa forma di occupazione: "per limitare in maniera efficace le dimensioni del settore a basso salario, un contributo ulteriore potrebbe essere infatti dato dall'abolizione dei minijob".


domenica 21 aprile 2013

Kein Wettbewerb, bitte!

Gustav Horn, presidente dell'Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung della  Hans-Böckler-Stiftung (vicino ai sindacati), sulla progressista Die Zeit propone una riflessione sul meccanismo profondamente sbagliato alla base della moneta unica: la concorrenza fra stati. 
Gli stati in Europa dovranno essere come le imprese: piu' economici, in continuo miglioramento e sempre piu' competitivi. Questo pensiero economico sta distruggendo l'Europa.

La crisi della zona Euro sembra non avere fine. Perché la zona Euro nonostante gli enormi sforzi di tutti i paesi membri non si è ancora stabilizzata?

La risposta è semplice. Perchè le soluzioni proposte sono ampiamente inefficaci. Solo l'annuncio di un acquisto illimitato di titoli di stato da parte della BCE è riuscito a calmare un po' la situazione. Tutto il resto, almeno nel breve periodo, non ci aiuta molto, o addirittura puo' risultare dannoso. E nel frattampo il consenso politico per l'Euro viene meno. Questo processo affonderà la moneta unica - se tali sviluppi non saranno fermati.

L'errore di fondo, commesso in particolar modo dalla Germania, è stato una concezione dell'unione monetaria completamente sbagliata. Il governo federale ha interpretato l'unione monetaria - lo stesso hanno fatto i governi che l'hanno preceduto - come una comunità di stati fondata sulla concorrenza. In questa competizione i singoli paesi devono mostrarsi capaci di sopravvivere per poter restare legittimi membri dell'unione monetaria. Secondo tale prospettiva ogni paese dovrà adottare un proprio modello di business. Per alcuni - come a Cipro -  il modello sarà basato su di una bassa tassazione ed una regolamentazione meno severa  -  a spese di altri paesi nell'unione monetaria. Un altro modello di business potrebbe essere fondato sulla moderazione salariale e lo smantellamento dei sistemi di sicurezza sociale al fine di raggiungere una maggiore competitività. Ma cio' sta portando ad una forte avversione dei cittadini verso l'Euro. E cio' non aiuta. Al contrario: le misure adottate hanno spinto la zona Euro in una dura recessione in cui né la disoccupazione né i debiti pubblici potranno essere ridotti in tempi prevedibili.

Cosa possiamo imparare da tutto questo? Primo: una politica economica fondata esclusivamente su di un miglioramento delle condizioni sul lato dell'offerta, in una situazione economica con bassa domanda, è destinata a fallire. Senza una domanda sufficiente nessuna impresa potrà imporsi, indipendentemente da quanto economiche saranno le sue produzioni. Questo punto di vista si diffonde gradualmente anche fra i governi della zona Euro. Anche per questo - in maniera piu' o meno timida - sono stati messi in campo dei programmi per aumentare la domanda.

Il secondo insegnamento è tuttavia ancora piu' fondamentale. E' stato un errore trasferire all'interno di una unione monetaria composta da stati sovrani il modello privato fondato sulla concorrenza. Mentre la concorrenza fra imprese porta a risultati macroeconomici desiderabili, quella fra stati è improduttiva o addirittura dannosa. Il motivo è semplice: quando le aziende si fanno concorrenza, nascono nuovi prodotti e modi di produrre piu' efficienti - quindi nuove fonti di ricchezza. Se invece gli stati entrano in concorrenza fra di loro, la ricchezza viene  distrutta.

Questo è nella natura della concorrenza. Dove questa esiste, deve essere possibile il fallimento. Le imprese fallite scompaiono dal mercato. La concorrenza puo' acquisirne i clienti e creare nuovi posti di lavoro. Gli stati falliti restano, e soprattutto gli uomini che li abitano. Vivranno con un benessere sensibilmente inferiore. Inoltre, per evitare una destabilizzazione politica avranno bisogno di essere alimentati finanziariamente dagli altri stati. 

E' chiaro che nella competizione fra paesi non potrà esserci nessun vincitore netto. Perchè i vincitori molto probabilmente dovranno sostenere finanziariamente i perdenti, fatto che non potrebbe mai accadere nel caso della concorrenza nel settore privato.

Ai sostenitori della concorrenza fra paesi resta un solo argomento. E concerne uno sviluppo economico relativamente dinamico realizzato grazie agli investimenti e all'export di imprese altamente redditizie, attratte grazie ad un basso costo della manodopera, ad una limitata regolamentazione e ad una bassa pressione fiscale. Suona bene all'inizio, ma potrebbe rivelarsi illusorio.

Alla fine ci perdono tutti.

Perché questa concorrenza è caratterizzata da un'elevata pressione: per mantenere un vantaggio competitivo e trattenere le imprese, le aliquote fiscali devono restare necessariamente basse. In questo modo anche la base imponibile degli stati vincitori si erode costantemente. Cio' diventa evidente ad esempio con il degrado delle infrastrutture, per le quali a causa del calo delle entrate non ci sarà piu' denaro. Le opportunità di impiego e di crescita scompaiono. Anche il presunto vincitore finisce per perdere.

Tutto questo avviene sotto i nostri occhi. Gli stati perdenti come Cipro, la Grecia, il Portogallo,  l'Irlanda e gli altri barcollano insieme ai loro fallimentari modelli di business. Sono finiti in un abisso economico e dovranno essere supportati dagli altri stati membri. I vincitori, si crogiolano ancora nel presunto successo. Le loro infrastrutture pubbliche stanno pero' soffrendo, le casse pubbliche sono vuote. Ogni cliente delle ferrovie pubbliche sa di cosa sto parlando. Cosi' il futuro economico è sprecato sull'altare di un'ideologia che ha elevato la concorrenza fra paesi a leit motiv della politica economica.

La procedura corretta sarebbe stata al contrario una maggiore coordinazione della politica economica europea. E' necessario un quadro di politica fiscale comune per tutti gli stati membri ed una minore concorrenza fiscale. La concorrenza dovrebbe essere lasciata alle imprese, altrimenti alla fine avremo solo dei perdenti.



-->

martedì 12 febbraio 2013

Salari reali piu' bassi rispetto al 2000


Un'altra analisi ci conferma le dimensioni della moderazione salariale tedesca negli ultimi 12 anni e la presenza anche in Germania di due mercati del lavoro ben distinti: i garantiti dai contratti di categoria e i settori non coperti da contratto collettivo.

Negli ultimi anni i salari sono cresciuti piu' rapidamente rispetto al passato. In termini reali restano tuttavia ancora sotto il livello di fine millennio, e chiaramente indietro rispetto ai profitti e ai redditi da capitale. E' quanto mostrano i nuovi calcoli dell'archivio Wirtschafts- und Sozialwissenschaftlichen Instituts (WSI) presso la Hans-Böckler-Stiftung.

In termini reali, vale a dire al netto dell'aumento dei prezzi, fra il 2000 e il 2012 i salari lordi medi per dipendente sono scesi dell'1.8 %. Gli ultimi 3 anni, con una crescita dei salari reali  dell'1.2 %, dell'1 % e dello 0.6 %, non hanno cancellato le perdite in termini reali cumulate negli anni precedenti. Le difficili condizioni economiche e la deregolamentazione nel mercato del lavoro negli anni 2000 hanno contribuito ad una dinamica salariale molto debole. Anche le riforme Hartz IV hanno aumentato la pressione sui salari, mentre il settore a basso salario (Niedriglohnsektor) si è espanso. Il ritardo dei salari rispetto all'inflazione si è tuttavia ridotto: nel 2009 i salari reali erano addirittura piu' bassi del 4.6 % rispetto al 2000.

I salari definiti dai contratti collettivi sono invece cresciuti con piu' forza. Nel 2012 in termini reali erano piu' alti del 6.9 % rispetto al 2000. Nella maggior parte degli anni, gli esperti del WSI hanno osservato un "wage drift" negativo. Vale a dire: i salari lordi, in cui vanno a finire anche i salari dei lavoratori la cui retribuzione non è definita da un contratto collettivo, sono rimasti indietro rispetto alla dinamica dei contratti collettivi. "I dati mostrano che il sistema dei contratti collettivi negli ultimi anni è rimasto la spina dorsale della crescita salariale", ci dice il dottor Reinhard Bispinck, responsabile dell'archivio tariffario WSI. Ma la forza contrattuale nello stesso periodo è scesa, soprattutto perché la copertura della contrattazione collettiva si è ridotta e le imprese in difficoltà economiche hanno utilizzato clausole tariffarie aperte. Per queste ragioni gli aumenti salariali tariffari si sono solo in parte riversati sui salari lordi.

Secondo i calcoli del WSI, dalla fine degli anni '90 i redditi da capitale e gli utili societari hanno superato di molto i redditi da lavoro: fra il 2000 e il 2012 sono cresciuti in termini nominali del 50%, nonostante un rallentamento temporaneo durante la crisi del 2009. I redditi da lavoro sempre in termini nominali nello stesso periodo sono cresciuti solamente del 24%. Recentemente la distanza si è un po' ridotta: i salari hanno fatto progressi, i redditi da capitale soffrono per i temporanei bassi tassi di interesse. Le distanze tuttavia restano molto ampie, e cio' non è un bene per lo sviluppo, sia in Germania e in Europa, sottolinea l'esperto WSI Bispinck: "In un momento come questo capiamo chiaramente  quanto è importante una  solida domanda interna per la nostra stabilità economica. E' necessario un chiaro rafforzamento del potere d'acquisto".