Gustav Horn, direttore del prestigioso Instituts für Makroökonomie und Konjunkturforschung (IMK) presso la Hans-Böckler-Stiftung, ci spiega perché i sindacati tedeschi non possono essere il capro espiatorio della crisi Euro. Da Makronom.de
I sindacati sono stati accusati spesso di eccessiva moderazione salariale. Di fatto, la formazione dei salari in Germania, e soprattutto in Europa, non è ottimale. Purtroppo i critici ignorano la realtà della contrattazione collettiva. Un commento di Gustav Horn.
Da un po' di tempo alcuni economisti considerano poco ragionevoli le contrattazioni collettive condotte dai sindacati, criticandone i risultati raggiunti perché giudicati insufficienti. Poiché i salari in Germania, per un lungo periodo di tempo, sia in una prospettiva storica che in un confronto internazionale sono cresciuti molto poco, questa critica non puo' essere respinta a priori. Considerando i giganteschi avanzi commerciali con l'estero, è necessario domandarsi se questi non siano stati raggiunti con il dumping salariale e se non siano alla radice della crisi dell'Eurozona.
Accordi salariali moderati
La critica avanzata può' essere illustrata in maniera esemplare dalla recente negoziazione salariale nell'industria meccanica. L'accordo raggiunto prevede che i salari crescano questo e il prossimo anno del 2.5%. Questi accordi vengono criticati in quanto sarebbero un esempio concreto di moderazione salariale da parte del sindacato tedesco. Considerare un accordo "troppo basso" significa avere uno standard di riferimento, secondo il quale gli aumenti salariali dovrebbero essere più' o meno giusti.
La critica si basa su di una misura che può' essere descritta come il contributo della politica salariale alla stabilità dell'economia in generale, e quindi come una politica salariale macroeconomica. L'ipotesi di fondo è che la tendenza nominale complessiva dei salari debba seguire il trend degli aumenti di produttività piu' l'obiettivo di inflazione della BCE (intorno al 2%).
Una politica salariale orientata all'economia in generale
In primo luogo assicura che la dinamica salariale sia orientata all'aumento dell'efficienza dell'economia senza che le condizioni sul lato dell'offerta si deteriorino. Inoltre, la partecipazione alla crescita della produttività assicura che la produttività aggiuntiva si trasformi in un aumento del potere di acquisto, e che quindi la domanda ne esca rafforzata. Un tale approccio permette di mantenere un equilibrio fra domanda e offerta. Gli aumenti contrattuali dovrebbero orientarsi al trend degli aumenti di produttività, al fine di evitare le fluttuazioni cicliche nella tendenza dei salari.
Sempre secondo questo concetto i salari dovrebbero allinearsi all'obiettivo di inflazione della BCE. In questo modo si evita che la dinamica salariale possa mettere in pericolo la stabilità dei prezzi nell'economia.
Con l'introduzione dell'Euro, l'importanza di questo requisito è diventata ancora maggiore. All'interno dell'area Euro non esiste né un tasso di cambio nominale né un'autorità fiscale europea in grado di compensare le disparità economiche tra le diverse economie. Cosi' la stabilità del tasso di cambio reale, vale a dire i prezzi relativi fra i diversi paesi, è determinante.
Se il tasso di cambio reale fra le diverse economie si disallinea in maniera strutturale, e cioè se i prezzi crescono in un paese molto piu' rapidamente di quanto accade in un altro paese, si crea uno squilibrio esterno con un accumulo di asset nel paese che ha svalutato e un indebitamento nel paese sopravvalutato. Che una tale situazione non sia sostenibile, la crisi del 2009 lo ha mostrato in maniera drammatica.
Se misurati su questo criterio, i recenti accordi salariali sono di fatto troppo bassi. Dal punto di vista dell'economia nazionale, invece, la politica salariale è molto vicina al suo obiettivo macroeconomico
Alla base c'è anche il fatto che il trend degli aumenti di produttività in Germania ha rallentato sensibilmente - di conseguenza resta poco spazio per aumenti salariali nominali. Da questo punto di vista la critica mossa nei confronti dei sindacati non è giustificata.
Le cose stanno diversamente se osserviamo la politica salariale tedesca dal punto di vista europeo. In questo caso non è sufficiente prendere gli sviluppi recenti come metro di giudizio. E' necessario prendere in considerazione anche gli anni passati per poter correggere la lunga fase di svalutazione e riportare il tasso di cambio reale ai requisiti di stabilità europei.
In questa immagine si vede chiaramente che l'evoluzione dei salari in Germania, i cui effetti si riversano sul costo del lavoro per unità di prodotto, da molto tempo non è piu' in linea con l'obiettivo di stabilità dei prezzi della BCE. Affinché il riallineamento possa avvenire, i salari dovrebbero crescere con forza ancora per molti anni. Su questo punto la critica appare giustificata. La politica salariale in Germania non ha fatto nulla per stabilizzare l'Eurozona.
La politica salariale oberata
Sulla base di questa constatazione è opportuno sollevare una questione fondamentale: una politica salariale con cosi' tanti compiti macroeconomici, non è oberata?
Da un punto di vista puramente interno è cosi'. I critici spesso sembrano dimenticare che alla politica salariale appartengono due lati: sindacati e organizzazioni dei datori di lavoro. Queste ultime, per difendere i loro interessi economici, si oppongono ad ogni richiesta di aumento salariale - le considerazioni macroeconomiche per loro non hanno alcuna importanza. Scaricare solo sui sindacati la responsabilità di un risultato contrattuale insoddisfacente, è un approccio asimmetrico.
A cio' si aggiungono ulteriori elementi economici. In periodi di alta disoccupazione la posizione contrattuale dei sindacati è debole. Anche se la disoccupazione - come nei decenni passati - è il risultato di una mancanza di domanda e da un punto di vista macroeconomico sarebbe auspicabile una forte crescita dei salari, è tuttavia impossibile raggiungerla in queste condizioni. Qui è necessario l'intervento della politica fiscale - il settore privato non puo' risolvere da solo una tale crisi.
Non dobbiamo tuttavia trascurare che anche i sindacati hanno dei legittimi interessi economici. Cosi' nelle contrattazioni sindacali non si parla solo di aumenti salariali, ma spesso anche di miglioramento delle condizioni di lavoro per i dipendenti di un settore. Questi successi negoziali dei sindacati non possono pero' essere convertiti in un determintato livello di salario. I datori di lavoro, invece, per ogni concessione qualitativa si rifanno sui lavoratori con un minore aumento. Considerare questo scambio solo come una moderazione salariale significa avere una visione incompleta.
Ancora piu' importanti sono le tendenze strutturali che si scontrano con le riflessioni macroeconomiche, in particolare la sempre minore copertura dei contratti collettivi: solo il 50% dei dipendenti ha un contratto collettivo di categoria. La differenza fra gli aumenti salariali previsti dai contratti collettivi e gli aumenti salariali complessivi (lohndrift) in passato è stata considerevole. Ma su questo punto i sindacati non hanno alcuna responsabilità.
Dietro la decrescente applicazione dei contratti collettivi si nasconde, dal punto di vista dei sindacati, una grave tendenza - e cioè la crescente eterogeneità all'interno dei diversi settori. Ad esempio nell'industria automobilistica ci sono imprese molto redditizie che senza problemi potrebbero pagare un salario decisamente piu' elevato rispetto agli aumenti salariali contrattuali. Lungo la catena del valore ci sono pero' a volte delle differenze significative.
Cosi' alcuni fornitori subiscono la pressione dei grandi produttori finali, i quali riescono a spingere verso il basso i prezzi dei loro fornitori, fatto che ne peggiora la loro redditività. Gli aumenti salariali complessivi metterebbero perciò' in difficoltà i fornitori, perché hanno una debole posizione di mercato nei confronti dei loro clienti finali - e non perché, ad esempio, dispongono di una limitata capacità innovativa. La loro uscita dal mercato non porterebbe alcun vantaggio macroeconomico - al contrario.
Molto piu' difficile invece è il trasferimento a livello europeo del concetto di salario macroeconomico. Mentre in Germania i presuppostoti istituzionali per la definizione di un salario che tenga conto delle condizioni generali dell'economia ci sono già, questa struttura è quasi completamente assente nell'unione monetaria.
In queste circostanze riuscire a definire una regola comune per la definizione dei salari è teoricamente possibile nel lungo periodo, ma sicuramente impossibile nelle condizioni attuali. La critica secondo cui alle politiche salariali tedesche manca un orientamento europeo puo' essere giustificata in considerazione di quanto sarebbe necessario fare, ma è ipocrita. Per arrivare a risultati sostenibili serve un lungo lavoro di costruzione delle strutture di negoziazione salariale a livello europeo.
La politica salariale attuale
Senza dubbio la formazione dei salari in Germania, e ancora di piu' in Europa, non puo' essere considerata ottimale. Gli accordi istituzionali e le condizioni politiche del mercato del lavoro non lasciano sperare in un miglioramento. Non ha molto senso, in questo contesto, accusare i sindacati di eccessiva moderazione salariale. Da un lato, come mostrato sopra, gli attuali accordi salariali dal punto di vista delle necessità dell'economia interna non possono essere considerati troppo bassi. Dall'altro, i problemi a livello europeo sono troppo gravi per poter essere risolti solo dai sindacati. Qui sono responsabili prima di tutto i governi.
Anche i criteri macroeconomici utilizzati dai critici sono assolutamente ragionevoli - solo che il mancato rispetto di questi criteri non è esclusivamente responsabilità dei sindacati, come i critici invece amano ripetere.