Hans Werner Sinn, anche se ormai da qualche anno in pensione, non si fa sfuggire l'occasione per commentare sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung la situazione italiana. Per il brillante economista tedesco gli italiani con i loro ricatti cercheranno di spillare quanti piu' soldi possibili ai "partner europei", ma l'ultimo atto di questa tragedia sarà l'uscita dalla moneta unica. Dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung (prima parte)
Hans Werner Sinn |
Si può discutere dell'attuale disputa fra UE e Italia in chiave moraleggiante e condannare i presunti eccessi italiani. Questo conflitto tuttavia può anche essere interpretato come il risultato di azioni sconsiderate di messa in comune che hanno causato dei gravi danni all'integrazione europea.
Il debito pubblico italiano è da sempre elevato e nelle banche italiane sonnecchiano da tempo delle enormi riserve di crediti deteriorati. La Commissione europea già da molti anni avrebbe dovuto regolare le banche in maniera più' severa e limitare i titoli del debito pubblico, ma non lo ha fatto. Che ora improvvisamente si agiti per un rapporto deficit/pil del 2,4 % è dovuto piu' che altro al fatto che i nuovi partiti euro-scettici in Italia si sono profilati come i concorrenti del vecchio establishment politico. E ora si vuole fare del paese un esempio per educare tutti gli altri. Dopo il rifiuto da parte del governo italiano di ridurre il deficit di bilancio, la Commissione europea potrebbe imporre delle multe pesanti. L'Italia tuttavia non sembra avere alcuna intenzione di pagare per queste sanzioni e cerca invece lo scontro aperto. Non viene piu' nemmeno invocata una soluzione amichevole. Il governo italiano è stato eletto per adottare misure radicali. E dalla popolazione italiana sarà valutato in base alla capacità di essere all'altezza di queste aspettative.
La storia dell'Italia nell'euro è una storia di crediti e garanzie pubbliche, di garanzie messe in comune e di sovvenzioni attraverso le quali il paese è stato tenuto a galla. Tutti questi aiuti hanno agito come farmaci che calmavano i mercati finanziari e la popolazione. Ma non hanno contribuito a risolvere i problemi strutturali del paese. Hanno invece distrutto la competitività dell'Italia e aumentato la dipendenza del paese dal debito.
Già nei primi anni '90 lo stato italiano si è trovato vicino alla bancarotta. Il debito pubblico si attestava infatti al 120% del PIL e l'Italia doveva pagare più del 12% di interessi sui titoli di stato decennali. L'onere per gli interessi era insopportabile, il collasso dello stato sembrava inevitabile. Si faceva nuovo debito per pagare i vecchi debiti e anche una parte degli interessi. L'euro è stato quindi introdotto per ridurre l'onere sugli interessi. I tassi di interesse italiani infatti in previsione dell'introduzione dell'euro in quegli anni diminuivano di circa cinque punti percentuali, avvicinandosi al livello tedesco. Senza dare troppa importanza alla clausola di no-bailout del Trattato di Maastricht, gli investitori erano convinti che i paesi della zona euro sarebbero stati comunque protetti contro una bancarotta dello stato. Si presumeva che l'Italia avrebbe potuto stampare da sé il denaro per estinguere i propri debiti o che gli altri paesi avrebbero aiutato direttamente l'Italia, cosa che poi è accaduta realmente in seguito.
Per lo stato italiano l'euro è stato almeno inizialmente una benedizione. La valuta comune ha fatto risparmiare così tanti interessi che con quei soldi l'Italia avrebbe potuto tranquillamente eliminare l'IVA. Se l'Italia avesse usato i bassi tassi di interesse risparmiati per rimborsare i propri debiti, il rapporto debito/PIL oggi sarebbe ben al di sotto del 60%. Ma l'Italia ha agito diversamente. Lo stato non solo ha speso tutto il taglio dei tassi d'interesse, ma ha sfruttato anche l'opportunità per fare altro debito. Il doppio incremento della spesa pubblica ha generato una domanda aggregata che ha fatto aumentare i prezzi italiani più velocemente rispetto a quanto accadeva nel resto dell'area dell'euro. Dal 1995, anno in cui si è deciso di introdurre l'euro, fino allo scoppio della crisi Lehman di dieci anni fa, l'Italia, compreso un apprezzamento iniziale della lira, è diventata del 40 % più cara rispetto alla Germania, usando come indice i prezzi dei beni auto-prodotti, rilevante nelle questioni relative alla competitività. Nessun paese può sopravvivere a un simile "apprezzamento reale" senza subire dei danni.
L'apprezzamento è stato sostenibile fino a quando il mercato dei capitali è stato disponibile a finanziare il crescente deficit di conto corrente italiano. Ma quando il mercato dei capitali dopo la bancarotta di Lehman ha smesso di farlo, i tempi apparentemente buoni sono finiti, e l'Italia è crollata. La perdita di competitività è emersa senza pietà. La disoccupazione è salita a circa il 12% e la disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli superiori al 40%. Al netto, dopo aver dedotto le nuove società, un quarto delle imprese attive nell'industria manifatturiera è fallita. E' comprensibile che i nervi degli italiani oggi siano scoperti e non ne vogliano sapere piu' nulla dell'UE: solo il 43% vuole rimanere ancora nell'UE, meno che in qualsiasi altro paese.
Anche negli altri paesi dell'Europa meridionale l'euro non ha funzionato molto bene. Come mostra la tabella qui sotto, nell'ultimo decennio, nessun paese dell'Europa meridionale è riuscito a riportare la produzione industriale al livello raggiunto all'inizio della crisi finanziaria. Mentre i paesi di lingua tedesca hanno superato la crisi rapidamente e ora sono del 9 % (Germania) e del 18 % (Austria) al di sopra del livello pre-crisi, l'Italia ha perso il 17 %. La Francia, i cui mercati di sbocco si trovano nel sud e le cui banche hanno prestato molto denaro in quei paesi, ha registrato un calo del 9% rispetto ai livelli pre-crisi.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, come riferito dall'ex direttore della BCE Lorenzo Bini Smaghi, già durante la recessione del 2011 aveva condotto dei negoziati segreti per far uscire l'Italia dalla zona euro. Lo stesso aveva fatto all'epoca il primo ministro greco Papandreou, come da lui confermato nel 2016 a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera. Entrambi volevano far tornare competitivi i loro paesi tramite una svalutazione. Ma sono stati costretti dalle banche e dalle presunte forze dell'UE ad abbandonare i loro incarichi prima che potessero realizzare i loro progetti. Entrambi si sono dimessi nella stessa settimana alla fine del 2011. In Grecia, poi è andato al potere un governo di sinistra. In Italia i presidenti del consiglio Monti, Letta, Renzi e Gentiloni hanno provato a fare le riforme, ma hanno ottenuto poco o nulla - comunque niente che abbia potuto far voltare pagina all'industria italiana.
La politica europea durante la crisi non si è fondata sulle riforme strutturali dell'Eurosistema, ma sui salvataggi finanziari. Con tali salvataggi, infatti, sono state salvate in primo luogo le banche e gli investitori francesi, tedeschi e degli altri paesi. I salvataggi sono iniziati con gli scoperti di conto sui saldi Target, che Banca d'Italia ha approvato come se si trattasse di un'azione di auto-aiuto. Poi è arrivato il "Securities Markets Program" della BCE, che a partire dall'estate del 2011 ha costretto le banche centrali del nord ad acquistare titoli di Stato italiani. Poiché per i mercati questo non sembrava essere abbastanza, nel 2012 è arrivata la promessa da parte del presidente della BCE Mario Draghi („Whatever it takes“), promessa che ha trasformato implicitamente i titoli di stato dell'eurozona in eurobond e ha spostato sui contribuenti europei il peso delle garanzie senza chiedere la loro opinione. Il fondo di salvataggio permanente ESM ha completato la promessa di protezione. Nel 2015 poi è arrivato il programma di "quantitative easing" della BCE, all'interno del quale sono stati acquistati titoli di Stato dei paesi euro per un valore di 2.100 miliardi di euro, dei quali il 17 per cento è attribuibile al riacquisto di titoli di stato italiani da parte di Banca d'Italia. Questa azione ha catapultato il saldo target di Banca d'Italia al valore di 490 miliardi di euro.
Tutti questi programmi hanno fatto in modo che gli investitori francesi e del nord Europa non perdessero i loro soldi rendendo la vita nel Sud appena sopportabile, ma allo stesso tempo hanno anche danneggiato l'industria italiana, in quanto hanno reso possibili dei salari troppo elevati in rapporto alla produttività, salari cresciuti durante la bolla pre-Lehman. Chi ritiene che il nuovo surplus delle partite correnti italiano possa dimostrare che il paese ha superato la fase piu' difficile trascura il fatto che questo surplus è dovuto quasi esclusivamente al crollo delle importazioni causato dalla crisi e dalla riduzione dei tassi di interesse sul debito estero.
La bugia sul "tempo per fare le riforme" che si sarebbe potuto comprare con gli aiuti finanziari si è rivelato per quello che era fin dall'inizio: un trucco di pubbliche relazioni pensato da politici con una visione di breve periodo che avevano come obiettivo quello di rinviare le dolorose ma necessarie riforme dell'eurosistema. Il fallimento dei programmi di aiuto mostra molto chiaramente il fallimento dell'idea secondo la quale la politica europea avrebbe potuto generare più disciplina in materia di debito rispetto ai mercati. Gli investitori privati possono frenare la corsa all'indebitamento quando questo diventa eccessivo. Possono bloccare il flusso di credito o chiedere tassi di interesse così elevati che i debitori perdono l'appetito.
Questo è il principio di fondo dell'economia di mercato e dei sistemi federalisti che funzionano allo stesso modo. Basti pensare ai problemi finanziari dei singoli stati degli Stati Uniti, che iniziano già con un indebitamento al 10 % del PIL, oppure alla disciplina richiesta dal mercato dei capitali ai cantoni svizzeri. La BCE e la comunità internazionale hanno indebolito questo principio, abbassando gli spread dei paesi altamente indebitati con i vari sistemi di messa in comune delle garanzie, sistema avviato con l'euro stesso, nella speranza che poi si sarebbe riusciti a tenere sotto controllo gli stati membri con dei mezzi legali. L'ingenuità di questa convinzione si è inesorabilmente rivelata nella nuova crisi italiana.