giovedì 24 gennaio 2019

Perché l'asse franco-tedesco è un bluff

"Il trattato del 1963 è stato il simbolo di una svolta storica: la fine della "secolare ostilità" fra i due paesi. (...) Il nuovo accordo invece è l'espressione di quello che oggi nelle relazioni franco-tedesche ancora funziona - cioè, molto, molto poco", scrive su Makroskop Peter Wahl, giornalista, scrittore ed attivista tedesco. Per l'autore il nuovo trattato di amicizia franco-tedesco esprime piu' che altro la debolezza francese ed è un compromesso per forza di cose vago fra interessi profondamente divergenti. Ne scrive Peter Wahl su Makroskop.eu


Il 22 gennaio 1963 Charles de Gaulle e Konrad Adenauer firmavano il trattato dell'Eliseo, il simbolo della fine della "secolare ostilità" tra Francia e Germania. Esattamente 55 anni dopo, Merkel e Macron, questo martedì hanno firmato ad Aquisgrana un nuovo trattato di amicizia.

L'idea di un nuovo Trattato dell'Eliseo 2.0 arriva da Emmanuel Macron. Era una delle sue proposte di riforma per la politica europea annunciate nel corso del suo famoso discorso alla Sorbona nel settembre 2017. All'epoca il neo-presidente francese pensava di poter prendere due piccioni con una fava: ridare slancio all'Eurozona e al tempo stesso provare almeno a frenare il declassamento della Francia verso il ruolo di junior partner dei tedeschi, se non addirittura di rendere la Francia great again. Il nuovo trattato di amicizia era stato pensato come un lubrificante aggiuntivo di questo processo.

Macron non è riuscito a rimettere in pista l'Eurozona. Prima di tutto a causa del governo tedesco. Quello che restava dei suoi piani, nel giugno 2018 è stato fissato nella Dichiarazione di Meseberg. [1] Invece di un budget della zona euro per "diversi punti percentuali di PIL" come aveva chiesto, c'è solo l'impegno a lavorare, nell'ambito dei negoziati sul bilancio UE, per una posta speciale di poche decine di miliardi di euro. Invece di un Fondo monetario europeo, viene stabilizzato il fondo anti-crisi ESM. Invece di un ministro delle finanze e di un parlamento dell'Eurozona c'è il vuoto. E anche sull'unione bancaria, che dieci anni dopo il crash non è ancora completata, Berlino continua a frenare.

Poco ambizioso

E proprio per non lasciare Macron completamente a mani vuote, il nuovo trattato di amicizia dovrebbe funzionare piu' che altro come una consolazione. L'accordo non riesce davvero ad impressionare nessuno. Le Monde deluso lo descrive come "poco ambizioso". Accanto alla retorica sull'amicizia europea, i 28 articoli contengono molte dichiarazioni di intenti, ma nulla di concreto.

Un esempio tipico: la politica estera dovrebbe essere coordinata in maniera piu' stretta, anche all'ONU (articolo 8), dove Berlino attualmente ha un seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza. La realtà è diversa: Olaf Scholz lo scorso novembre aveva chiesto che la Francia metta a disposizione dell'UE il suo seggio permanente e il diritto di veto associato. A giudicare dalle reazioni acide provenienti da Parigi è diventato subito chiaro che l'amore francese sia per l'UE che per la Germania è così grande che proprio su uno dei pochissimi terreni sui quali Parigi mantiene ancora lo status di grande potenza la Francia non intende indietreggiare di un solo millimetro [2]. Nel trattato resta solo una frase molto diplomatica non vincolante:

"L'ammissione della Repubblica Federale Tedesca al seggio di membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è una priorità della diplomazia franco-tedesca".

E questo stile attraversa l'intero documento. Anche per quanto riguarda la cooperazione militare, dove l'obiettivo principale di Macron è quello di far sostenere ai tedeschi una parte del costo delle operazioni militari francesi nelle ex colonie. Mentre la comunità politico-militare in Germania specula sfacciatamente sulla "compartecipazione al nucleare" dei tedeschi, eventualmente anche alla Force de frappe francese [3]. Gli interessi sul tema sono così divergenti che il contratto resta molto vago.

Anche su argomenti piuttosto innocui, come la promozione delle lezioni scolastiche nell'altra lingua, rivendicazioni e realtà divergono. Anche sotto la presidenza di Hollande, solo con un grande sforzo e con tanto rumore si era riusciti ad evitare una drastica riduzione delle ore di tedesco nelle scuole francesi. Anche i bambini francesi oggi preferiscono imparare l'inglese.

Altri articoli del Trattato confermano quello che già funzionava anche senza il trattato di amicizia, come ad esempio la realizzazione dei progetti per la difesa comune e l'intensificazione della cooperazione militare nel quadro della cosiddetta Cooperazione strutturata permanente  (PESCO) dell'UE (art. 3-5), oppure una piu' stretta cooperazione nell'ambito dello sviluppo dell'economia digitale, dell'intelligenza artificiale e dell'industria digitale (articolo 21).

L'ambizione di portata decisamemente maggiore è quella di sviluppare "una integrazione delle economie verso un'area economica franco-tedesca con regole comuni " (articolo 20). Se l'argomento venisse  affrontato in maniera seria, da un punto di vista politico europeo sarebbe senza dubbio interessante, in quanto equivarrebbe al concetto di „Kerneuropa“. Macron in passato aveva già dichiarato di essere un sostenitore "dell'Europa a due velocità". Una Kerneuropa tuttavia non farebbe altro che approfondire la differenziazione del livello di integrazione rispetto alle quattro o cinque velocità già esistenti adesso, intensificando ulteriormente le tendenze centrifughe in tutta l'UE.

D'altra parte, le differenze strutturali tra il modello tedesco della valuta forte e orientato all'esportazione e il sistema monetario debole orientato verso la domanda interna, tipico della Francia, probabilmente porranno dei limiti abbastanza rigidi al livello di integrazione possibile tra le due economie. Il recente rifiuto da parte del governo federale di seguire la proposta francese e di introdurre una tassa digitale sui giganti Internet parla da solo.

Il bilancio economico di Macron è magro

Anche la promessa fatta da Macron di rilanciare l'economia francese non si è trasformata in realtà. La crescita è scesa dal 2,2% del 2017 all'1,7% del 2018, ampiamente al di sotto della media della zona euro (2,1%). [4] Per il 2019 e il 2020 è prevista all'1,6%, da ottenere principalmente con la domanda interna. Il tasso di disoccupazione a fine 2018 è sceso di poco sotto il 9 %. Anche questa non è stata una pagina gloriosa. Il debito pubblico si attestava al 98,7% del PIL nel 2018 e dovrebbe scendere di poco passando al 97,2% entro il 2020. Il disavanzo delle partite correnti rimane invariato allo 0,6 per cento del PIL. Il "campione del mondo dell'export" ha un surplus del 7,8 % del PIL. La Germania è il principale partner commerciale della Francia, mentre la Francia è al secondo posto tra i partner tedeschi. Quindi, ancora una volta, Macron, che ha iniziato il suo mandato parlando di una presidenza da "padre degli dei", si è invece ridotto a a  dimensioni piu' umane. L'operazione "Make France great again" per il momento è sospesa

I Gilets jaunes

Ma Macron il colpo piu' duro l'ha ricevuto dal movimento dei Gilets jaunes. All'inizio c'è stata molta incertezza nella valutazione delle proteste - anche in una parte della sinistra. Sono letteralmente usciti dal nulla e non sembravano adattarsi allo schema familiare dei movimenti sociali. Né le scienze sociali, né i sindacati, né i partiti di sinistra avevano notato nulla. I protagonisti non erano mai stati politicamente attivi prima. Sostenevano di non essere né di sinistra né di destra e si opponevano ad ogni cooptazione dall'esterno. Sono state respinte le strutture organizzative centrali e la rappresentanza sovraregionale.

Da parte del governo inizialmente è stato avviato un duro scontro. Il Ministro del Bilancio Gérald Darmanin ha parlato di "peste bruna". Ma anche con tutte le peculiarità del movimento ben presto si è capito che le diverse rivendicazioni potevano trovare un punto in comune nel contrasto alle riforme neo-liberiste di Macron."Si tratta in sostanza di una rivolta anti-liberista" [5]. Per questa ragione in poco tempo il movimento ha ottenuto la simpatia di due terzi della popolazione e il sostegno della maggioranza della sinistra francese.

Ciò che i sindacati e la sinistra non erano mai riusciti a fare, dopo solo tre settimane invece è riuscito ai gilet jaunes: Macron è stato costretto a fare concessioni in materia di politica sociale. L'aumento della tassa sul diesel, detonatore del movimento, è stato ritirato e sono state approvvate misure di politica sociale per un volume di 10,3 miliardi di euro.

Nessuno può sapere come il movimento potrà andare avanti. Potrebbe stancarsi e disintegrarsi, ma potrebbe anche arrivare a nuovi estremi, come ad uno sciopero generale. Tuttavia ci sono già degli effetti che vanno ben oltre la politica sociale:

- Merkel è un'anatra zoppa, a Londra c'è il caos, il governo socialdemocratico di minoranza a Madrid non andrà avanti a lungo e l'Italia non scoppia dalla voglia di assumere la leadership politica in Europa, la grande speranza della politica europea di Parigi ormai è tramontata;

- sullo sfondo la Brexit, Trump, il rallentamento dell'attività economica e tutti gli altri problemi irrisolti dell'UE, in questo quadro la sua politica europea e la sua capacità di risolvere i problemi continueranno a diminuire;

- non dovrebbe essere possibile continuare con il programma di riforme à la Hartz-IV di Macron. Se dovesse proseguire il suo corso neoliberale rischia una resistenza ancora più grande di quanto non stia già accadendo ora;

- le tensioni interne nella sua République en Marche sono aumentate bruscamente. Il presidente anche fra le sue fila non è più indiscutibile;

- la Francia probabilmente infrangerà i criteri di Maastricht con il 3,2% di deficit. Senza le coperture potrebbe arrivare al 3,4 %. Prima delle proteste era previsto solo il 2,8%. Quindi nella gestione della crisi dell'euro la posizione di Macron di fronte a Berlino e agli altri intransigenti è praticamente inconsistente;

- nelle elezioni per il Parlamento europeo di maggio Macron rischia una pesante sconfitta. Diversamente da qualsiasi altra elezione, si vota con un sistema elettorale puramente proporzionale, vale a dire che verrà mostrato l'effettivo equilibrio di potere in maniera ragionevolmente realistica. Nei sondaggi, il "salvatore d'Europa" da diversi mesi resta sotto il 20 %. Al vertice c'è Marine Le Pen, che dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali, da molti veniva data per politicamente morta. Sebbene il Parlamento europeo in termini di potere politico non sia molto rilevante, le prossime elezioni avranno un alto significato simbolico.

Il trattato del 1963 era il simbolo di una svolta storica: la fine "dell'ostilità secolare" fra i due paesi. Non deve essere glorificato, perché in quel momento a formare il quadro in cui si inseriva il trattato dell'Eliseo c'erano pochi sentimenti nobili attintenti alla sfera delle relazioni interpersonali, come ad esempio la riconciliazione e l'amicizia, ma piuttosto dei duri fatti geopolitici - come la totale disfatta militare della Germania e la guerra fredda. Ma era di importanza storica. Il nuovo accordo invece è l'espressione di quello che oggi ancora funziona nelle relazioni franco-tedesche - cioè, molto, molto poco.


[1] PRESSE- UND INFORMATIONSAMT DER BUNDESREGIERUNG. Erklärung von Meseberg. Das Versprechen Europas für Sicherheit und Wohlstand erneuern. 19.6.2018. https://www.bundesregierung.de/Content/DE/Pressemitteilungen/BPA/2018/06/2018-06-19-erklaerung-meseberg.html
[2] Le Figaro, 30.11.2018; S.8
[3] Major, Claudia (2018): Germany’s Dangerous Nuclear Sleepwalking. Carnegie Europe.
http://carnegieeurope.eu/strategiceurope/?fa=75351&utm_source=rssemail&utm_medium=email&mkt_tok=eyJpIjoiTURFME1EaGxaRFE0Wm1ZeiIsInQiOiIzVm1ZY1g1NXBmUFp2Wm5YejMyYThnZGl3N1REM25VTVhQN2l5dHJQZ2tyZnlva2NuUzVXTUJvMmZLTURtOUZQdGEwXC9MbEsyejd6UTNBZlJQb3BTOERjWUx0RFZTYzJ4Q21HalRJMHhkMENVZDBneW5uM3d6Sjh5elBiNlF2TUwifQ%3D%3D
[4] Alle Zahlen in diesem Absatz nach: Wissenschaftlicher Dienst des Deutschen Bundestages; Referat PE 2 EU-Grundsatzangelegenheiten, Fragen der Wirtschafts- und Währungsunion. Aktuelle wirtschaftliche Lage in Frankreich und Auswirkungen der Protestbewegung „gilets jaunes.” Stand: 11. Januar 2019
[5] Aus der knappen, aber ziemlich treffende Analyse der Bewegung (in deutscher Sprache) unter: https://www.attac.de/fileadmin/user_upload/Kampagnen/Europa/Downloads/Attac_DE-Projektgruppe_Europa_-_Solidarita__t_mit_Gelbwesten_18jan2019.pdf


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martedì 22 gennaio 2019

L'arma invisibile della Francia in Africa: il franco CFA (seconda parte)

"Fino a quando l'Europa appoggerà la politica francese nella zona CFA, l'Europa dovrà anche sopportare le conseguenze di questa politica. Dovrete pertanto continuare a vivere subendo gli effetti delle migrazioni di massa provenienti dalle zone francofone dell'Africa" dice a Deutschlandfunk.de l'ex ministro delle finanze della Costa d'Avorio Koulibaly. Seconda parte dell'ottima inchiesta di Deutschlandfunk sull'arma invisibile dei francesi in Africa, il franco CFA. Si arriva da qui (prima parte)

"L'Africa è stata resa povera"

"Si dice sempre che l'Africa è povera. Non è vero. L'Africa è stata resa povera", dice Moona Ya. La giovane ha poco più di 30 anni e si considera parte di una nuova generazione che finalmente vuole farla finita con l'eredità coloniale. Insieme ai colleghi di tutta l'Africa occidentale, la musicista ha registrato una canzone di protesta. "Sept Minutes contre le Franc CFA". È convinta che i tempi siano maturi per il cambiamento.

Ma non c'è solo la Francia, ad essere responsabile è anche l'Europa. Fin dall'introduzione dell'euro, infatti, il franco CFA non è più agganciato al franco francese ma all'euro. Questo cambiamento nei fatti significa che da allora ogni euro-decisione presa dalla BCE a Francoforte colpisce direttamente 150 milioni di africani che non sono stati né inclusi né coinvolti nella decisione.

Moona Ya: "Ci è sempre stato detto che non ci potevamo gestire da soli perché siamo neri, perché siamo africani. Ci è stato detto che la democrazia non è per l'Africa, perché gli africani sono in un questo o in quel modo. Ma sono tutte sciocchezze! Ovviamente possiamo gestirci da soli il nostro denaro". Ci sono sempre più giovani che non vogliono più accettare il sistema creato intorno al franco CFA, dicono Moona Ya e i suoi colleghi. Quindi, perché il franco CFA non viene abolito?

Il franco CFA non è il solo responsabile

Ci sono diverse ragioni per la situazione attuale. In primo luogo, uno sguardo agli stati vicini mostra che l'abolizione del franco CFA è ben lungi dall'essere la panacea di tutti i mali. Un esempio è la Guinea. Il paese ha abolito il CFA nel 1960 sostituendolo con il franco della Guinea. Tuttavia, la situazione economica del paese è disastrosa almeno quanto quella nella maggior parte degli Stati CFA.

Dopo la riforma monetaria del 1960 la Francia ha fatto il possibile per punire la Guinea per aver lasciato l'Unione monetaria. Quella che per lungo tempo è stata solo una diceria ora può essere provata storicamente: la Francia all'epoca stampava moneta della Guinea contraffatta, inondando il paese di banconote e spingendo la moneta verso un'inflazione catastrofica. Una vergognosa espressione delle rivendicazioni coloniali francesi dell'allora capo di stato francese Charles de Gaulle. Tuttavia le ragioni degli odierni problemi economici del paese ricco di risorse naturali sono altre: la cattiva gestione, la corruzione e la svendita delle risorse minerarie hanno a lungo avuto un ruolo più importante in Guinea che nelle altre ex-colonie francesi.

Un altro caso è il Mali. Il paese dopo l'indipendenza del 1960 ha lasciato il franco CFA e poi vi è rientrato nel 1984. Ci sono anche paesi come la Guinea Bissau che non sono mai stati colonizzati dai francesi e che tuttavia alla fine hanno deciso volontariamente di essere parte dell'unione monetaria. Nonostante tutte le critiche legittime, il franco CFA ha un certo fascino: un'area economica comune, il commercio più facile con l'Eurozona e la stabilità monetaria restano argomenti convincenti

Anche le élite africane ne beneficiano

Ma c'è un'altra ragione se il franco CFA ancora oggi, più di mezzo secolo dopo l'indipendenza delle ex colonie, continua ad esistere. L'economista ed ex consigliere del FMI Abdourahmane Sarr dice: "potremmo riformare il Franco CFA domani. I capi di stato potrebbero incontrarsi e decidere di far rientrare le riserve dalla Francia. Il problema è che non abbiamo la giusta leadership politica. L'élite beneficia del CFA sopravvalutato. Queste persone non sono interessate ad alcun cambiamento del sistema che li ha resi ricchi. Non c'è nessuna pistola puntata alla tempia di nessuno. I nostri politici agiscono di loro spontanea volontà".

In effetti diversi presidenti francesi in passato hanno ripetutamente dichiarato di essere aperti nei confronti di una riforma del franco CFA. L'ultimo a dirlo è stato il presidente Emmanuel Macron nel novembre 2017 in un discorso agli studenti presso l'Università di Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, "Nessuno obbliga gli stati a restare membri del franco CFA. Se il vostro presidente domani decidesse di lasciare l'Unione, il Burkina Faso domani sarebbe fuori dalla moneta. Gli stati  africani membri del franco CFA sono essi stessi padroni del loro destino. La decisione spetta a loro".

Continuità coloniale e corruzione

L'ex ministro delle finanze-Koulibaly è scettico, ha avuto esperienze diverse, e dice: "io stesso come ministro delle finanze già nel 2000 ho pubblicamente respinto il franco CFA annunciando l'uscita del mio paese. Ma l'allora presidente francese Jacques Chirac ha chiamato tutti i presidenti africani e ha fatto in modo che il generale Robert Guei, l'ex capo del governo militare in Costa d'Avorio, mi buttasse fuori dal governo. Alla fine sono stato espulso dal Ministero delle Finanze e spostato alla carica di Presidente del Parlamento ".

Questa storia non può essere verificata. Ma si inserisce in una lunga serie di interventi politici simili da parte della Francia nelle sue ex colonie: tentativi di colpi di stato segreti, omicidi e ricatti politici. Anche se solo la metà di questi fosse vera si tratterebbe di un business alquanto dubbio che non teme confronti con quello degli Stati Uniti in America Latina e in parti del Medio Oriente. E questa miscela di continuità coloniale e sfruttamento economico, da un lato, e di corruzione, cattiva gestione e svendita delle materie prime da parte delle élite locali, dall'altro, costituisce la base per la povertà delle ex-colonie francesi

L'ex ministro delle finanze della Costa d'Avorio Koulibaly è convinto: "fino a quando l'Europa appoggerà la politica francese nella zona CFA, l'Europa dovrà anche sopportare le conseguenze di questa politica. Pertanto dovrete continuare a vivere subendo gli effetti delle migrazioni di massa provenienti dalle parti francofone dell'Africa".
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L'arma invisibile della Francia in Africa: il franco CFA

Nell'Africa occidentale e centrale prosegue lo sfruttamento delle ex colonie francesi, anche grazie a una moneta che alimenta le vecchie relazioni di potere coloniale e blocca lo sviluppo economico. Le conseguenze: povertà, conflitti e migrazioni. A parlarne non è un covo di complottisti ma la autorevolissima radio pubblica Deutschlandfunk. Un'ottima inchiesta sull'arma invisibile della Francia in Africa, il franco CFA. Da Deutschlandfunk.de (prima parte)


Le donne con i bambini per mano spingono tra la folla, i ragazzi frugano fra le montagne di vestiti stesi sulla strada e ammucchiati sui teloni di plastica. Giornata di mercato ai margini della città vecchia di Dakar. La capitale dell'ex colonia francese del Senegal è uno dei centri economici dell'Africa occidentale. Negli ultimi anni qui si è formata una classe media relativamente forte. Ma la maggior parte del paese continua a vivere in povertà.

Importazioni più economiche della produzione interna

Un fenomeno che può essere osservato in molte parti dell'Africa: élite urbane da un lato, dall'altro lato una grande povertà nei sobborghi della città e nelle zone rurali. Da dove arriva tutto ciò e perché decenni di aiuti allo sviluppo e miliardi di dollari non sono riusciti a far uscire il continente africano dalla povertà? Ci sono diverse ragioni. Una delle cause principali può essere trovata qui, al mercato di Dakar. Sulle etichette dei pantaloni e delle magliette ci sono nomi e marchi noti: Zara, H & M, Wrangler e Co. Tutti di seconda mano.

Nell'Africa occidentale ci sono alcune delle zone di produzione di cotone più importanti del mondo, ma praticamente non esiste un'industria tessile indipendente. Neanche il dieci per cento del cotone viene lavorato sul posto. Di solito è più economico importare indumenti usati dall'Europa piuttosto che produrli in Africa occidentale. Com'è possibile che accada in una parte del mondo in cui il costo del lavoro è bassissimo?

Chi è alla ricerca delle ragioni, chi vuole andare alle radici della povertà nelle ex colonie francesi dell'Africa sub-sahariana si scontra immediatamente con un sistema economico complesso, una fitta rete di clientelismo e dipendenze: l'eredità del colonialismo, un sistema che avvantaggia le industrie francesi, i governanti africani e il loro ambiente di potere.

La potenza coloniale francese ne ha approfittato fino ad oggi

Quanto la Francia anche dopo l'indipendenza delle sue ex colonie abbia fatto affidamento sui suoi antichi privilegi, lo mostra una lettera dell'allora ministro delle Finanze francese Michel Debré al suo omologo del Gabon nel luglio del 1960. In essa Debré scriveva senza mezzi termini: "Noi vi diamo l'indipendenza a condizione che lo stato dopo la sua indipendenza si attenga agli accordi commerciali sottoscritti. L'uno non puo' funzionare senza l'altro."

Accordi commerciali firmati in cambio dell'indipendenza. Fino ad oggi la Francia, grazie a questi vecchi trattati, si è assicurata un accesso preferenziale alle risorse naturali delle ex colonie. Nel caso del Gabon, ad esempio, il trattato afferma: "La Repubblica del Gabon si impegna a fornire risorse strategiche per gli armamenti dell'esercito francese. L'esportazione di queste materie prime in altri paesi per ragioni strategici non è consentita"

Materie prime molto al di sotto dei prezzi sul mercato mondiale

Sono stati stipulati altri trattati in parte identici con tutte le ex colonie dell'Africa sub-sahariana. Nell'appendice degli accordi viene spiegato quali sono le materie prime strategicamente importanti: oltre alle fonti energetiche convenzionali come il petrolio, il gas e il carbone, ci sono anche gli elementi radioattivi come l'uranio e il torio, oltre al litio e al berillio. E di fatto la Francia ancora oggi continua a comprare materie prime in Africa occidentale e centrale ad un prezzo molto inferiore rispetto a quello presente sul mercato mondiale.

In Niger, ad esempio, il gruppo industriale francese Orano, ex Areva, controllato dallo stato, estrae abbastanza uranio da coprire circa il 40% della sua domanda totale in Francia, pagandolo circa un terzo del suo normale prezzo di mercato. E il Niger è uno dei paesi più poveri al mondo. È probabilmente l'esempio più estremo dello sfruttamento previsto dai trattati che la Francia ha imposto alle sue ex-colonie in cambio della loro indipendenza. Ma il principio di fondo è lo stesso in tutti i paesi interessati.

Mamadou Koulibaly è stato prima ministro delle finanze della Costa d'Avorio e poi  per dieci anni presidente del Parlamento. E ci dice: "lo sfruttamento oggi si presenta sotto forma di aiuto allo sviluppo." L'occidente si comporta come se stesse ricoprendo l'Africa con miliardi di aiuti. "Ma in verità, si tratta di un bidone. Esportando verso la Francia a dei prezzi molto piu' bassi rispetto a quelli presenti sul mercato mondiale, perdiamo molto piu' soldi di quanti poi non ne tornino indietro".

Il franco CFA - strumento per lo sfruttamento economico

Ma non ci sono solo questi vecchi contratti a garantire alla Francia dei benefici e l'influenza economica sulle sue ex colonie. Il nucleo centrale della continuità coloniale e del controllo finanziario viene troppo facilmente sottovalutato: il franco CFA; il franco per le "Colonie francaises d'afrique", le colonie francesi d'Africa. Una valuta utilizzata da otto paesi dell'Africa occidentale e sei stati centro-africani. Entrambe le regioni hanno una propria banca centrale, ma entrambe le valute sono legate all'euro allo stesso tasso di cambio e quindi scambiabili. In totale 150 milioni di persone usano il franco CFA. 

"Il franco CFA viene sempre descritto come una moneta progettata per dare all'Africa occidentale una certa stabilità economica", spiega la giornalista ed esperta di Africa Fanny Pigeaud. Insieme all'economista senegalese Ndongo Samba Sylla ha appena pubblicato un libro sul franco CFA. Il titolo è: "L'arma invisibile della Francia" .

"Sì, la Banca centrale dell'Africa occidentale, obbligata dai trattati con la Francia, sta perseguendo una politica monetaria che mantiene l'inflazione al minimo. In questo senso, in termini di prezzi, c'è davvero una certa stabilità. Tuttavia, questa stabilità forzosa blocca lo sviluppo economico dei paesi interessati. In questo modo è impossibile avviare una politica monetaria indipendente. C'è sicuramente una certa stabilità, ma una stabilità nella povertà. Ecco perché gli economisti da anni affermano che il sistema deve essere riformato ".

La Francia continua a controllare

La moneta è stata creata nel 1945 per imporre gli interessi francesi nelle colonie. Era un mezzo di sfruttamento economico. L'obiettivo di fondo, secondo la giornalista, ancora oggi non è cambiato. L'ex Ministro delle Finanze Mamadou Koulibaly afferma: "l'indipendenza ha concesso libertà politica alle ex colonie, ma ha mantenuto l'intero sistema di sfruttamento coloniale. L'indipendenza è solo di facciata. "

È possibile? Colonialismo nel XXI secolo? Il franco CFA di fatto rappresenta un sistema di controllo da parte di una potenza straniera unico nel suo genere a livello mondiale. Anche se dopo l'indipendenza le parole dietro l'acronimo sono state cambiate, in modo che oggi CFA in Africa occidentale significhi "Communauté Financière d'Afrique" e in Africa centrale invece "Cooperazione Financiere en Afrique Central". Ma fino ad oggi tuttavia non c'era mai stata nessuna valuta al mondo gestita dall'esterno come accade al franco CFA.

Il 50% delle riserve valutarie dei 14 paesi CFA ancora oggi si trova in Francia. Le banconote vengono stampate in Francia e la Francia ha il diritto esclusivo svalutare o rivalutare la valuta. In ciascuna delle banche centrali dell'Africa occidentale e centrale siede un rappresentante francese con il diritto di veto. Senza la Francia non si muove nulla. Le divise estere, i tassi di cambio e le riserve valutarie, che a prima vista potrebbero sembrare anche noiose, ad uno sguardo più ravvicinato ci spiegano molto sulle origini della povertà, dei conflitti e delle migrazioni nelle ex colonie francesi.

"Il franco CFA è un sistema di repressione finanziaria"

"Non sto dicendo che il franco CFA sia l'unica ragione del sottosviluppo dei nostri paesi. Ma è uno dei più importanti. Il franco CFA è un sistema di repressione finanziaria ", afferma Guy Marius Sagna. Il 39enne attivista è co-fondatore del movimento "France Degage". Tradotto, significa piu' o meno "Francia vattene". Per le sue azioni politiche contro il franco CFA, Sagna è stato arrestato più di 20 volte. Come la giornalista Fanny Pigeaud, l'economista Ndongo Semba Sylla e l'ex ministro delle finanze della Costa d'Avorio, anche Sagna vede nel franco CFA tre problemi principali: in primo luogo, il suo passato coloniale, in secondo luogo, la sua mancanza di flessibilità a causa del cambio fisso con l'euro, e la terza, una massiccia sopravvalutazione del cambio.

In realtà il franco CFA non riguarda solo l'indipendenza delle ex colonie o la continuità dell'influenza francese. Riguarda anche il significato economico e l'uso della valuta. E quasi nessuno può giudicarlo con la stessa competenza di Abdourahmane Sarr. Sarr ha lavorato per dieci anni al Fondo Monetario Internazionale ed è stato consigliere del FMI presso la Banca centrale dell'Africa occidentale dal 2007 al 2009.

Il Franco CFA inibisce lo sviluppo economico

Dal un punto di vista economico non c'è un solo motivo per restare agganciati al franco CFA nella sua forma attuale, secondo l'economista infatti "tutti gli economisti concordano sul fatto che il CFA debba essere riformato. In primo luogo, nessun paese al mondo mantiene le sue riserve in un altro paese, e in secondo luogo, il CFA è troppo forte perché è agganciato all'euro e quindi non è allineato alle prestazioni economiche dell'Africa occidentale".

Cosa può significare una valuta troppo forte per un popolo lo si puo' osservare al mercato di Dakar, dove si trovano vestiti di seconda mano europei invece dei vestiti africani. Il tasso di cambio funziona come una sovvenzione alle importazioni e una tassa simultanea sulle esportazioni. L'economista Ndongo Semba Sylla ci dice: "se vogliamo svilupparci e creare posti di lavoro, non dobbiamo solo produrre materie prime ma anche investire nella trasformazione. Con il franco CFA è impossibile".

Il peg fisso con l'euro non solo crea una dinamica all'interno della quale è quasi impossibile costruire un'industria fiorente, ma significa anche che gli stati CFA  importano più di quanto esportino, l'economista dice: "fin dagli anni sessanta non abbiamo mai avuto un saldo commerciale con l'estero in pareggio. Abbiamo sempre avuto un deficit nel commercio estero. Di conseguenza, siamo sempre stati in una situazione di indebitamento con l'estero. "E questi debiti devono essere rimborsati. Ogni anno i paesi CFA devono trasferire miliardi verso l'Europa. Solo per pagare gli interessi sul denaro preso in prestito."

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domenica 20 gennaio 2019

Perché la priorità assoluta degli industriali tedeschi è evitare una Hard Brexit

"L'accordo avrebbe declassato la Gran Bretagna allo stato di colonia commerciale dell'UE" scrive l'importante economista dell'Ifo Institute di Monaco Gabriel Felbermayr in riferimento al voto del Parlamento britannico sulla Brexit. Per questo motivo gli industriali tedeschi cominciano a preoccuparsi seriamente e a lanciare i loro accorati appelli in favore di un accordo con lo UK che tenga in considerazione l'enorme avanzo commerciale verso l'isola e i 750.000 posti di lavoro che nell'industria tedesca dipendono direttamente dall'export oltremanica. Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy


"Allo stato di colonia commerciale"

Il respingimento dell'accordo sulla Brexit da parte del Parlamento britannico era prevedibile sin dall'inizio. L'accordo conteneva infatti diversi elementi del tutto inaccettabili per uno stato sovrano - in particolare in riferimento al cosiddetto backstop. Nel caso in cui in futuro non fosse stato possibile raggiungere alcun risultato nei negoziati sulle relazioni fra il Regno Unito e l'Unione, l'accordo avrebbe previsto non solo la permanenza del paese nell'unione doganale, ma anche una duratura spaccatura di carattere economico tra l'Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. Bruxelles avrebbe semplicemente potuto forzare entrambi gli elementi rifiutandosi di raggiungere un accordo; Londra, infatti, nei confronti di una tale decisione sarebbe del tutto impotente [1]. Di fatto l'accordo, come ribadito da Gabriel Felbermayr dell'Ifo Institute di Monaco, "avrebbe declassato la Gran Bretagna allo status di colonia commerciale dell'UE" [2]. La Camera dei Comuni martedì sera lo ha respinto. Le dichiarazioni del presidente del Consiglio UE, Donald Tusk, suggeriscono invece che Bruxelles stava cercando proprio questo risultato. Martedì Tusk su Twitter, rivolgendosi quindi a un vasto pubblico, scriveva: "Se un accordo è impossibile e nessuno vuole un no-deal, chi avrà il coraggio di dire qual'è l'unica soluzione positiva?" In effetti, la permanenza della Gran Bretagna nell'UE sarebbe proprio nell'interesse di Berlino e Bruxelles (...) 

Miliardi di perdite

Negli ambienti commerciali ed economici tedeschi questo gioco pericoloso sta facendo suonare molti campanelli di allarme. Dopo gli Stati Uniti, il Regno Unito è il secondo più grande destinatario di investimenti diretti tedeschi - con oltre 120 miliardi di euro. È anche il quinto più grande mercato di vendita per le aziende tedesche; e come ha dichiarato il presidente della Camera dell'Industria e del Commercio tedesca (DIHK), Eric Schweitzer, il volume delle esportazioni tedesche verso il Regno Unito a partire dal referendum sulla Brexit "è già sceso di oltre il cinque per cento." [8] Le tariffe doganali che secondo le norme WTO entrerebbero in vigore in caso di "hard Brexit", solo per gli esportatori di auto tedeschi potrebbero comportare "maggiori oneri per circa due miliardi di euro all'anno", cosi' metteva in guardia il presidente della DIHK nel mese di dicembre. Inoltre, in Germania "più di 750.000 posti di lavoro dipendono...dalle esportazioni verso la Gran Bretagna". A ottobre un'analisi dell'Institut der Deutschen Wirtschaft (IW) di Colonia ha rivelato che le tariffe WTO e le probabili barriere tariffarie future, solo per l'economia tedesca, potrebbero portare a decine di miliardi di euro di perdite. Nello scenario peggiore, il commercio tedesco-britannico potrebbe crollare così bruscamente da provocare perdite superiori ai 40 miliardi di euro all'anno [9].

Le priorità dell'economia tedesca

Anche il presidente della Federazione delle industrie tedesche (BDI), Joachim Lang, si è espresso in linea con queste preoccupazioni. "Il respingimento dell'accordo è drammatico", ha detto Lang, "per la Germania l'uscita disordinata del Regno Unito vuol dire mettere a rischio un volume di commercio estero bilaterale di oltre 175 miliardi di euro - tenendo conto delle importazioni e delle esportazioni di beni e servizi". [10] Si rischia "una clamorosa ed immediata recessione dell'economia britannica che anche in Germania non passerebbe inosservata". "Qualsiasi mancanza di chiarezza metterebbe a repentaglio decine di migliaia di aziende e centinaia di migliaia di posti di lavoro in Germania...", avverte il capo della BDI: "La priorità assoluta" sarà: "evitare una hard Brexit". Insieme ad altri importanti rappresentanti dell'economia tedesca, il CEO di Deutsche Bank, Christian Sewing, mette in guardia da una Brexit non regolamentata: costerebbe "al resto dell'UE...almeno mezzo punto del loro PIL" [11].

Troppi cantieri aperti

Lo stato di allarme dell'economia si spiega anche con il fatto che lo scorso anno la crescita economica tedesca è diminuita significativamente - dal 2,2 per cento del 2017 all'1,5 per cento del 2018, il dato più basso dal 2013 - e che contemporaneamente c'è il rischio di altri crolli sui diversi fronti economici. [12] Anche la Cina dovrebbe mostrare una crescita più lenta a causa della guerra commerciale avviata con Washington; le esportazioni tedesche verso la Repubblica Popolare, il terzo più grande mercato di vendita per le aziende tedesche, infatti, hanno già iniziato ad indebolirsi. La Francia, il secondo cliente dei tedeschi, al momento non è certo un bastione di stabilità in espansione, mentre la Germania sta combattendo una dura battaglia commerciale con il suo cliente più importante, gli Stati Uniti. In caso di Hard Brexit c'è il rischio molto concreto di un crollo delle esportazioni verso il mercato in quinta posizione.
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[1] S. dazu An die EU gefesselt.
[2] Chaos-Brexit verunsichert deutsche Wirtschaft. n-tv.de 16.01.2019.
[3] "Die Zeit ist fast abgelaufen". faz.net 15.01.2019.
[4] Remo Hess: Brexit-Verhandlung: Die Briten hatten keine Chance gegen Brüssel. nzzas.nzz.ch 12.01.2019.
[5] S. dazu Das Feiglingsspiel der EU.
[6] Ashley Cowburn: "This is not Dunkirk": Cabinet minister Liam Fox claims no-deal Brexit would not be "national suicide". independent.co.uk 14.01.2019.
[7] Anthony Wells: As MPs prepare for the Brexit vote, where do Britons stand? yougov.co.uk 14.01.2019.
[8] Deutsche Wirtschaft warnt vor hartem Brexit. n-tv.de 15.12.2018.
[9] Michael Hüther, Matthias Diermeier, Markos Jung, Andrew Bassilakis: If Nothing is Achieved: Who Pays for the Brexit? Intereconomics 5/2018, 274-280. S. dazu Das Feiglingsspiel der EU.
[10] Chaotischer Brexit rückt in gefährliche Nähe. bdi.eu 16.01.2019.
[11] Chaos-Brexit verunsichert deutsche Wirtschaft. n-tv.de 16.01.2019.
[12] Wirtschaft schrammt an der Rezession vorbei. Frankfurter Allgemeine Zeitung 16.01.2019.

sabato 19 gennaio 2019

Sovvenzioni europee per il diesel manipolato

VW nel corso degli anni ha ricevuto 400 milioni di euro di sovvenzioni dalla BEI con la promessa di sviluppare un motore pulito e amico dell'ambiente, peccato pero' che il risultato finale sia stato un motore manipolato che per anni ha inquinato l'aria delle città di tutto il mondo. La procura di Braunschweig, competente sul tema, ha archiviato il caso. Ne parla la Süddeutsche Zeitung


E' una storia piena di ironia involontaria: c'è un gruppo industriale che riceve centinaia di milioni di euro di sussidi per sviluppare un motore ecologico e invece ne viene fuori uno scandalo.

Naturalmente si tratta di VW. Qualche anno fa il gruppo aveva ricevuto dalla Banca europea per gli investimenti (BEI) dei prestiti, per un valore di 400 milioni di euro, allo scopo di sviluppare un nuovo motore ecologico. Alla fine di tutto il processo invece è uscito proprio il motore diesel dal codice EA 189, divenuto tristemente noto a causa dello scandalo sulle emissioni diesel. 400 milioni di euro - per cosa esattamente?

E 'stato lo staff dell'Ufficio europeo antifrode OLAF ad entrare in scena e a voler guardare piu' da vicino nei prestiti erogati dalla BEI a partire dal 2009. Hanno tenuto duro: il denaro non è finito in una tecnologia orientata al futuro e rispettosa dell'ambiente, ma in un motore manipolato. Il caso è stato trasmesso alla procura di Braunschweig, che indaga anche sulla scandalo emissioni, e che martedì scorso ha comunicato che l'inchiesta per sospetta frode nei confronti dei dipendenti del gruppo VW è stata archiviata.

Si ritiene infatti "che i fatti comunicati dall'autorità europea OLAF nel luglio 2017, ai sensi del diritto penale tedesco non siano punibili e non siano più perseguibili", ha affermato il procuratore di Braunschweig.

Con gli inquirenti tedeschi, il gruppo Volkswagen non ha più problemi 

Alla BEI all'epoca c'era molta euforia in merito al progetto. "Siamo lieti non solo di sostenere con questo prestito delle tecnologie piu' ecocompatibili in Europa, ma anche di dare manforte all'industria automobilistica per affrontare i tempi difficili che abbiamo davanti", cosi' all'epoca veniva lodato il prestito e il suo nobile obiettivo. Una frase che oggi - nonostante la chiusura del procedimento giudiziario - suona come una presa in giro. Dopo che l'Ufficio europeo antifrode nell'estate del 2017 aveva informato la BEI delle sue conclusioni, il Presidente della BEI Werner Hoyer aveva dichiarato: "siamo molto delusi di quello che l'indagine OLAF ha rivelato. Anche la BEI è stata truffata da VW sull'uso dei dispositivi di controllo delle emissioni"

Il procedimento nei confronti dei dipendenti VW per eventuali frodi sulle sovvenzioni europee tuttavia si è chiuso con un verdetto decisamente clemente nei confronti di Volkswagen. E come gruppo VW al momento non ha grandi problemi con le autorità inquirenti tedesche. La procura di Braunschweig ha già comminato una multa da un miliardo di euro, mentre la procura di Monaco II ha già incassato 800 milioni di euro da parte della controllata di VW, Audi. Proseguono invece i procedimenti penali contro l'ex CEO Martin Winterkorn, l'attuale presidente Herbert Diess e il capo del consiglio di sorveglianza Hans Dieter Pötsch. Tutti e tre continuano a negare le accuse.

Se si dovesse arrivare ai processi e quindi sul tavolo dei giudici arrivassero degli elementi concreti, la situazione potrebbe farsi nuovamente difficile per il gruppo VW - soprattutto per quanto riguarda le richieste di risarcimento danni da parte dei clienti e degli azionisti. Questi sperano infatti che in caso di eventuali procedimenti penali, possano emergere elementi in grado di dare nuovo slancio alle  loro richieste di risarcimento.


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venerdì 21 dicembre 2018

Perché senza lo stato nazione non puo' funzionare

"Il futuro dell'Europa si decide nella forza delle nazioni europee. Più forti saranno i singoli stati dell'Europa, più forte sarà l'Europa", scrive Klaus-Rüdiger Mai, storico, scrittore e giornalista tedesco. Per l'autore lo stato nazione è l'unico garante delle libertà civili e della giustizia sociale, perchè "la vera libertà puo' esistere solo nella ricchezza delle relazioni umane, nella consapevolezza della cultura e della tradizione". Ne scrive Klaus-Rüdiger Mai su Deutschlandfunk Kultur


La Germania sta cambiando. Una frattura profonda si muove nella società, non è quella fra destra e sinistra, ma quella fra globalisti e comunitari. La domanda è se l'idea di stato nazione e di patria debba essere considerata obsoleta e se nel futuro si possano ipotizzare delle strutture sovranazionali sconfinate, oppure no.

La socialdemocrazia si sta sgretolando, perché nessuno sa piu' quale sia il suo significato. La questione sociale non riguarda un euro in più o in meno di salario minimo, ma la promessa di un miglioramento sociale che la SPD non è più in grado di formulare. Una sorta di garanzia sociale affinché per te le cose non vadano peggio, ma che soprattutto per i tuoi figli possano andare meglio. Dato che è così importante per l'equilibrio della società, chi altro se ne deve occupare, se non i conservatori progressisti?


Ma essi devono competere anche per un'altra eredità, quella del liberalismo, che con i neoliberisti è sempre stata in cattive mani, perché la libertà nel senso liberale classico non significa atomizzazione, né abbandono, ma la libertà esiste solo se viene messa in equilibrio con la coscienza e la responsabilità; la libertà da qualcosa deve essere collegata alla libertà per qualcosa. La vera libertà esiste solo nella ricchezza delle relazioni umane, nella consapevolezza della cultura e della tradizione.

Rendere la propria cultura sostenibile

Il conservatorismo autosufficiente e politicamente superato richiede un rinnovamento. Non ci si può più limitare al metodo di usare il vecchio per misurare tutto ciò che è nuovo, ma è necessario inserire nella discussione un'idea della direzione in cui la Germania si dovrà sviluppare. Ogni analisi parte da un punto di vista, che sia un'utopia, cioè da un'idea di come l'uomo deve essere - come fanno i Verdi - o dalle persone reali nel loro ambiente di vita e nella loro cultura - come invece fanno i conservatori.

Il conservatorismo progressista non deve smantellare la nostra cultura, ma renderla adatta al futuro. Inizia dal cittadino e difende lo stato nazionale come garante delle libertà civili e della giustizia sociale. Perché lo stato non è un'istituzione morale, ma funzionale.

Il conservatorismo progressista si pone come avvocato del centro politico tra i Verdi ed AfD. Se fallisce, il conflitto tra i Verdi da una parte e AfD dall'altra si radicalizzerà, e il centro diventerà politicamente volatile. Si differenzia da AFD, perché rifiuta ogni esagerazione nazionalista, e contesta l'illiberalismo dei Verdi che trasforma il cittadino in un oggetto di pedagogia.

Non è compito dello stato tedesco salvare il mondo

Secondo il conservatorismo progressista lo stato tedesco agisce secondo due massime: primo, non è compito dello stato tedesco salvare il mondo. È tuttavia fuori discussione che vi debba essere un'assunzione di responsabilità nell'ambito di possibilità molto ben definite. Garantisce la sicurezza interna ed esterna, impone i suoi poteri sovrani, la legge e l'ordine, non trasferisce a terzi i suoi diritti nazionali e adempie ai suoi compiti in materia di infrastrutture, istruzione e assistenza sanitaria.

In secondo luogo, ha una politica economica attiva che elimina gradualmente la dipendenza dalle esportazioni dell'economia tedesca, perché solo in questo modo potrà essere creata una base economica per la vita dei nostri figli, e perché non solo, ma anche l'ascesa della Cina mostra che al piu' tardi nel 2023 le esportazioni saranno sempre piu' problematiche.

I conservatori progressisti sono comunitaristi nel senso di Charles Taylor. Il futuro dell'Europa si decide nella forza delle nazioni europee. Più forti saranno i singoli stati dell'Europa, più forte sarà l'Europa. I conservatori progressisti devono creare le condizioni quadro che renderanno l'Europa ancora una volta il motore della cultura, della scienza e della tecnologia in un mondo che cambia radicalmente.



La questione tedesca

"L'immagine che la Germania ha di sé è cambiata radicalmente rispetto al XIX secolo"; ma quel "senso di superiorità morale è rimasto", scrive German Foreign Policy, facendo un parallelo fra la questione tedesca del 1871 e quella attuale. La Germania di oggi si trova esattamente nella stessa condizione del 1914: "di fatto la maggiore potenza in Europa, ma in una situazione di conflitto con molti altri stati". Ne parla il sempre ben informato German Foreign Policy


"Non in grado di resistere alle crisi"

Nella politica europea della Germania, secondo gli esperti, sarebbero necessari dei cambiamenti, in particolar modo in merito alla moneta unica. Una grave debolezza dell'Unione monetaria è il fatto che l'Eurozona, nonostante le varie misure adottate dopo lo scoppio della crisi finanziaria, "da tempo ormai non è in grado di resistere alle crisi", scrive Daniela Schwarzer, direttrice dell'Istituto di ricerca della Deutsche Gesellschaft für Auswärtige Politik (DGAP) [1]. In effetti, il problema di fondo resta immutato: "l'introduzione della moneta unica senza una politica economica comune ... divide politicamente il Nord dal Sud Europa", scrive il direttore dell'Istituto per la politica di sicurezza dell'Università di Kiel (ISPK), Joachim Krause. [2] Le richieste, soprattutto da parte della Francia, di introdurre una sorta di governo economico per l'Eurozona, come proposto dal presidente Emmanuel Macron nel suo discorso in favore di un bilancio dell'Eurozona, fino ad oggi sono state regolarmente bloccate da Berlino; sebbene un altro focolaio di crisi, ad esempio a causa della situazione di instabilità in Italia e delle sue banche, non sia affatto da escludere. In futuro, se non si prenderanno delle misure precauzionali, avverte l'esperto della DGAP Schwarzer, potrebbero sorgere "crisi di entità ancora maggiore". Le risposte ad hoc, come quelle date a partire dal 2010, sarebbero oggi ancora più "difficili" di quanto non fossero allora "poiché la polarizzazione politica all'interno dell'UE e all'interno degli stati membri è aumentata".

"Divisi"

Come sollecitato, fra gli altri, anche dal direttore dell'ISPK Krause, Berlino dovrebbe finalmente affrontare "i problemi strutturali dell'Eurozona", e non solo quelli. Il governo federale e l'UE, infatti, dovrebbero mettere in agenda anche il "problema dell'immigrazione", che fino ad oggi "ha diviso l'Europa orientale da quella occidentale" [4]. In realtà "la gestione da parte del governo federale della crisi dell'euro (dal 2010) e della crisi migratoria del 2015", "ha fatto rivivere la diffidenza nei confronti del presunto unilateralismo tedesco e delle sue ambizioni egemoniche". Krause ritiene che ciò sia controproducente. Nonostante ciò Berlino si appresta ad approfondire ulteriormente i solchi già esistenti in Europa estendendo il voto a maggioranza nell'UE. La decisione di accogliere i rifugiati nell'UE, presa a maggioranza nel settembre 2015, aveva irritato diversi paesi membri dell'est spingendoli a schierarsi con forza contro la Repubblica federale e provocando una frattura che dura ancora oggi, e che probabilmente continuerà ad approfondirsi [5]. Il governo federale si sta infatti concentrando su una ulteriore e rapida espansione delle decisioni da prendere a maggioranza e vorrebbe sottrarre ai singoli paesi dell'UE il diritto di veto sulla politica estera e perfino su quella militare. Se i singoli Stati membri in futuro dovessero essere scavalcati su ulteriori importanti decisioni, il potenziale per ulteriori rotture politiche non potrebbe che aumentare.

1871 e 1990

L'ambivalenza della politica di Berlino - imporre le proprie posizioni sulle questioni chiave, unita all'incapacità di ottenere un riconoscimento generale per queste stesse posizioni - recentemente ha spinto alcuni osservatori a fare un confronto con alcune fasi antecedenti della storia tedesca. Da quando la Repubblica federale ha "trovato una nuova forza economica" - "diciamo da circa il 2005" - ha di nuovo "quella posizione dominante in Europa di cui già si parlava ai tempi dell'impero di Bismarck", scrive lo Storico Andreas Rödder. [7] "Fin dal 1871 e dal 1990 la questione tedesca" - "ha riguardato il tema della compatibilità fra la forza tedesca e l'ordine europeo". Altri paesi europei ai tempi dell'impero del Kaiser avevano già individuato una "minaccia proveniente dalla forza tedesca" e consideravano la Germania allo stesso tempo "imprevedibile e volubile". "Questo punto di vista sulla Germania è stato confermato ancora una volta dalla crisi debitoria dell'euro e dalla crisi dei rifugiati". In entrambi i casi la Repubblica federale "ha agito da sola" cercando di imporre la propria volontà agli altri paesi membri dell'UE. In termini di politica di potenza, la Germania "oggi si trova esattamente dove si trovava nel 1914" - "di fatto la maggiore potenza in Europa", ma in conflitto con molti altri stati [8]. Il membro della CDU Rödder ritiene che ciò sia "inquietante".

Il senso di superiorità tedesco

Rödder inoltre, facendo riferimento ai crescenti conflitti all'interno dell'UE, mette in guardia dall'arroganza tedesca. Nel diciannovesimo secolo, a differenza del Regno Unito o della Francia, la Germania non poteva fare riferimento a un territorio tradizionalmente definito - e quindi "si considerava una nazione culturale". Questa "coscienza di sé e del proprio ruolo" ha "sempre implicato una tendenza alla superiorità morale", sostiene Rödder, che insegna storia contemporanea all'Università Johannes Gutenberg di Mainz. [9] Sicuramente "l'immagine che di sé ha la Germania è radicalmente cambiata rispetto al XIX secolo"; ma quel "senso di superiorità morale è rimasto". Oggi si esprime "contro i polacchi" considerati xenofobi, "o gli ungheresi, per esempio, o anche i pazzi inglesi che osano lasciare l'UE". Al contrario, "i tedeschi ritengono di essere una potenza civile multilaterale e illuminata", mentre in altri paesi dell'UE vengono percepiti come una minaccia egemonica. Su questa discrepanza si tende a "riflettere troppo poco", avverte Rödder: "anche questa è una costante storica, e cioè che i tedeschi sono molto concentrati su se stessi".
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[1] Daniela Schwarzer: Das nächste Europa. Die EU als Gestaltungsmacht. deutschland-und-die-welt-2030.de.
[2] Joachim Krause: Der Wandel der internationalen Ordnung. deutschland-und-die-welt-2030.de.
[3] S. dazu Das Eurozonen-Budget.
[4] Joachim Krause: Der Wandel der internationalen Ordnung. deutschland-und-die-welt-2030.de.
[5] S. dazu "Deutsche Überheblichkeit".
[6] S. dazu Wie man weltpolitikfähig wird.
[7] Claudia Schwartz: Der Historiker Andreas Rödder: "Alle haben Angst vor Deutschland, einschliesslich der Deutschen selbst". nzz.ch 28.11.2018.
[8] S. dazu Alles oder nichts.
[9] Claudia Schwartz: Der Historiker Andreas Rödder: "Alle haben Angst vor Deutschland, einschliesslich der Deutschen selbst". nzz.ch 28.11.2018.